9/2/2008
Il prototipo del nudo femminile sdraiato viene generalmente fatto risalire al Giorgione, anche se già nel I secolo d.C. viene realizzata, da un ignoto artista romano, una Venere marina circondata da due amorini su di una parete del peristilio in una casa patrizia di Pompei. Purtroppo una rovinosa eruzione cancellerà dalla memoria degli uomini per circa duemila anni la splendida dea dell’amore ed il suo giovane corpo nudo e ne vieterà la visione. Quando sarà diseppelita gli artisti avranno di nuovo creato quell’immagine poderosa in grado di scuotere il torpore e di accendere la fantasia e da allora non si sono più fermati.
Il Cinquecento inaugura la spettacolare serie delle Veneri nude con la più sensuale e misteriosa delle creazioni del Giorgione, la Venere dormiente (fig 1) il quale, nel 1509, ci fa dono dell’ immagine immortale di una placida fanciulla che sogna e ci fa sognare. Il quadro, conservato nella Gemaldegalerie di Dresda, ci mostra la novella dea, dalle forme tornite ed appetibili, immersa in un ampio e tranquillo paesaggio, con il corpo ignudo spavaldamente esposto, ad eccezione del pube, dove poggia guardingo il palmo della mano.
Il volto sereno, senza ombra di turbamento, irradia una serafica beatitudine, mentre la ragazza è teneramente abbandonata nel sonno e si identifica con la calma serafica della natura circostante, ma sembra felice di poter essere contemplata, orgogliosa del suo seno sapientemente offerto, grazie al braccio poggiato con astuzia dietro la testa, che amplifica ed innalza i carnosi pomi dorati con le deliziose ciliegine.
Alla Venere del Giorgione fa eco la Venere (fig 4) del Tiziano, tra i capolavori dell’artista, realizzata nel 1538 e conservata a Firenze nella Galleria degli Uffizi.
Uno splendore di carni sanamente nude ed un anelito a fissare per l’eternità un archetipo di bellezza fisica femminile, in un periodo storico impregnato di un simbolismo neoplatonico, che affonda le sue radici in una rilettura ficiniana della mitologia. Non più l’ideale divinizzato del Botticelli, che, succube dei deliranti sermoni del Savonarola, ritiene che la bellezza risplenda tanto più luminosamente quanto più si avvicina alla bellezza divina, bensì l’esaltazione di una donna vera, libera ed appagata, resa con colori vividi, ambrati. Una dorata e morbida beatitudine, folgorata da improvvise accensioni di luce e penetranti bagliori, che il malizioso pennello del pittore imprime nella tela con felicità. Lo sguardo languido sembra invitare lo spettatore a godere, con la vista e la più sfrenata fantasia del giovane corpo, nel quale due piccoli seni rifulgono come due boccioli di rosa, impalpabili ed esposti con orgoglio all’ammirazione. Il triangolo acuto che va dai capezzoli alla base del collo della Venere di Giorgione diviene equilatero in Tiziano, quasi a dischiudere l’armonia sonnolenta della fanciulla, che intende trasmettere la sensazione dell’attesa, se non addirittura dell’eccitazione sessuale.
Numerosi altri artisti si cimentano sul soggetto e tra questi lo stesso Michelangelo che imprime nel marmo e sulla tela (fig 3 - 3 bis ) una placida donna dalle forme tornite e mascoline nella tomba per Giuliano de’ Medici ed una peccaminosa fanciulla alle prese con il pressante quanto morboso desiderio di un cigno dall’interminabile collo che protrude vigoroso tra i seni.
Nella Venere addormentata (fig 6), eseguita nell’ultimo decennio del secolo e conservata al Kunsthistoriches museum di Vienna, Joseph Heintz ci offre la perfezione di un corpo nudo, in apparente abbandono, dalla carnagione levigata e dall’abbagliante biancore, sapientemente esaltato dal giallo dell’oro e dalle perle intrecciate in un ricercato e preziosissimo gioiello, che sottolinea, con insidiosa insistenza, la provocante nudità esibita con malcelato compiacimento. Dal dipinto trasuda un erotismo gelido, estremamente studiato, che rammenta le tele di Baldung Grien. Un ornamento originale è lo spinther, un pesante bracciale posto sopra un fazzoletto, mentre avvolgente e completamente adiacente è l’altro preziosissimo gioiello, che accarezza dolcemente senza sfiorarlo il seno della fanciulla, certamente la favorita di un ricco signore.
I seni, preziosi più dei gioielli che cercano di imbrigliarli, sono così teneri e graziosi e si innalzano audaci come cuspidi, da emettere un canto melodioso; infatti ogni seno, quando è così delicato come quello della Venere assopita, possiede una particolare vibrazione musicale ed il suono, delizioso, possiede sempre una diversa nota culminante.
Nel Seicento sul tema del nudo sdraiato sono all’opera giganti del calibro di Rubens e Rembrandt.
Il primo, nella sensuale Angelica e l’eremita (fig 10)), prende ispirazione da un episodio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, nel quale si racconta che di Angelica s’innamorò un vecchio eremita, profondo conoscitore di pozioni e stregonerie, il quale, alla vista del corpo da schianto della fanciulla mollemente adagiata su un morbido cuscino, decise seduta stante di approfittare delle sue arti magiche e trasportò Angelica su di un’isola deserta. L’opera di piccole dimensioni è in stridente contrasto con le grandi tele di un tempo, animate da un senso di monumentalità nelle scene e di pimpante turgore nelle anatomie femminili, mentre nel tenero idillio tra l’eremita ed Angelica vi è ora il gusto per la finezza della pennellata e l’intimità del tono narrativo.
Il secondo nel 1636 realizza Danae (fig 11), oggi all’Ermitage, prendendo spunto dal celebre dipinto di Tiziano, di cui una replica autografa si trova anch’essa nel museo russo. Le radiografie hanno dimostrato che la moglie Saskia prestò il suo corpo per il dipinto, anche se l’artista dopo la sua morte cambiò il volto.
Il riferimento mitologico è certo anche se vi è qualche differenza iconografica, essendo assente la pioggia di monete e di polvere di oro attraverso la quale Giove vuole ingraziarsi Danae, chiusa dal padre in una torre di bronzo e tante ne versa fino a quando non riesce a possederla. La composizione è uno dei rari esempi di rappresentazione di una donna nuda nella pittura olandese, vincolata da una rigorosa morale calvinista e la stessa imperatrice Caterina II, che fu proprietaria della tela, non la teneva in mostra nel suo palazzo, perché turbata da una nudità così sconvolgente per la sofferta carica di umanità della donna, accentuata da una luce calda e da una pennellata carica di materia. Saskia, la diletta moglie scomparsa non ancora trentenne, fu per lunghi anni la sua modella e Rembrandt era solito ritrarla con un sorriso malizioso o con una dolce espressione rassicurante o nelle vesti sontuose di ricca dama. In questa tela viceversa l’artista ce la offre nella sua pura nudità, esente da ogni ipocrisia o artificiosità, con un impasto di colori armonioso e caldo e con felici toni di luce, che sembrano amorevolmente accarezzare il corpo amato della donna dalle linee morbide e flessuose. I seni piccoli ma graziosi, dalla carnagione delicata e tersa hanno rappresentato per l’artista il porto sicuro dove soffermarsi durante le burrasche della vita. La malattia della moglie incombe minacciosa e l’artista vede quei seni in pericolo e quindi si affretta a fissarli nell’eternità della tela, per poter tornare sempre a contemplarli e ricordare il tempo trascorso con essi, quando poteva giocare con quei delicati boccioli e sentirsi completamente ristorato come se avesse a lungo bevuto un’acqua diafana, appagato dopo aver conosciuto il più arcano segreto della felicità.
La sensuale Venere allo specchio (fig 13), realizzata intorno al 1650 e per un periodo a Napoli nella collezione del marchese del Carpio, oggi conservata alla National Gallery di Londra, ci permette idealmente di collegarci, con un sottile filo erotico, agli illustri precedenti delle Veneri di Giorgione e di Tiziano, dipinte nel Cinquecento, e di giungere fino alla Maya Desnuda (fig 20) di Goya ed alla Olympia(fig 28) di Manet, che hanno visto la luce in pieno Ottocento.
Nella tela dello spagnolo la fanciulla appare di spalle, mentre ne intravediamo confusamente il volto e solo di riflesso nello specchio. Le sue forme sinuose e sfuggenti sono di una modernità sconvolgente e rappresentano il porto sicuro verso cui tutti gli uomini (nel senso di maschi naturalmente) anelano di fermarsi e riposare per sempre. Le Veneri nate dal pennello di Giorgione e di Tiziano evidenziano una donna rinascimentale, ipercolesterolemica, dalle linee tornite e dalle forme opulente, l’una dormiente, l’altra ben sveglia, che sanno mettersi in posa con malcelata malizia e mostrare senza reticenze il proprio corpo, ad eccezione del pube, glabro, pudicamente e parzialmente ricoperto da una mano svogliata, calata ad aumentare il mistero ed il desiderio.
Alla Maya del Goya presta il suo corpo stupendo la duchessa D’Alba, proprietaria all’epoca della Venere del Velazquez, che trasferisce in tal modo la sua straripante bellezza dalla caducità della giovinezza nell’immortalità della tela, mentre l’Olimpia del Manet ritrae a mo’ di prostituta la modella Victorine, una provocazione che al Salon del 1865, diede luogo a clamori e scandalo, a tal punto da indurre gli organizzatori a collocare il quadro ad un’altezza dalla quale scoraggiava a un tempo i furori degli ombrelli e gli sguardi dei benpensanti.
Tutte queste sfolgoranti immagini di donne nude, che si offrono audacemente allo sguardo, trasferite dalle riservate stanze dei collezionisti committenti alle pubbliche sale dei musei, hanno negli anni accumulato un enorme potenziale erotico inconscio e sono state vittima dell’ira bacchettona dei singoli e delle istituzioni: la Venere allo specchio fu infatti aggredita a colpi d’ascia nel 1914 da una suffragetta, femminista ante litteram, che le cronache ci descrivono tanto racchia quanto infuriata ed i cui fendenti scriteriati provocarono un delicato restauro fatto durare dalla amministrazione del museo oltre cinquant’anni, mentre la Maya desnuda, trasformata dalle poste spagnole in francobollo, assieme alla collega vestita, fu per anni respinta al mittente se spedita negli Stati Uniti, le cui autorità erano certe di preservare in tal modo la morale dei cittadini di quella grande nazione, ritenuta da sempre faro di libera circolazione di idee e democrazia.
In questa veloce carrellata è presente con numerosi esempi anche il Settecento, il quale, dominato dal Rocaille e dal Rococò a differenza del Seicento, secolo delle passioni e del dramma, è nell’Arte ricerca di grazia languida e di raffinatezze formali, di vaporose elegie e di frivoli sentimenti, di evasione dal grigiore della realtà e di fuga nel mondo ideale della mitologia, ma soprattutto di capricciosa gioia di vivere. L’iconografia muta radicalmente e vanno di moda le figure affascinanti e gentili della mitologia. In serie vengono riprodotte Venere, Diana e ninfe varie che, nel pennello degli artisti settecenteschi, diventano pretesto per un’esaltazione della bellezza. Qualche critico bacchettone definì divinità da budoir queste icone di una femminilità adolescente ed acerba, empie di sottile erotismo e di sfacciata provocazione.
I nudi nati dal pennello degli artisti del secolo dei lumi sono giocosi, sorridenti, senza pensieri, sia che siano veneziani che parigini, come dimostrano le tele di Boucher e di Fragonard (fig 16 – 17) nelle quali il peccaminoso si mostra senza tentennamenti all’occhio dell’osservatore.
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