17/6/2008
Abraham Brueghel (Anversa 1631 - Napoli 1697) nasce nelle Fiandre da Jan Brueghel II, il giovane, e comincia giovanissimo la sua esperienza di pittore nella bottega del padre, dipingendo quadri di fiori.
Dopo un breve periodo egli è in Italia, a Roma, forse giovanissimo, se si vuol dar credito alla segnalazione della Hairs di una scritta in italiano «all’età di diciotto anni» sotto una sua natura morta. Nel 1655 è iscritto nella gilda dei pittori della sua città natale mentre dal 1659 è documentato stabilmente nella città eterna, dove nel 1666 si sposa e dalla quale si sposterà alcune volte per dei soggiorni abbastanza lunghi da trascorrere a Messina nel 1663-’64 e poi nel 1667-’68.
Nel 1676 si trasferisce a Napoli, dove vivrà fino alla morte avvenuta nel 1697.
Ci troviamo perciò davanti ad un pittore italiano a tutti gli effetti e per il 50% napoletano, alla pari del Ribera o di Mattia Preti, nati altrove, ma che all’ombra del Vesuvio hanno svolto la parte più significativa della loro attività. Egli è intriso culturalmente di spirito nordico, possiede un’assoluta padronanza dei modi dell’anziano Frans Snyders ed una buona conoscenza delle novità apportate da Jan Fyt, come i fondali boscosi e le colonne poste su alti stilobati, ma giunto a Roma è ansioso di recepire motivi classici della pittura italiana ed inserisce spesso nelle sue ricche composizioni elementi di carattere archeologico, come vasi scolpiti, bassorilievi e frammenti antichi.
Entra a pieno titolo nel mondo artistico romano e tra il 1670 ed il 1674 è ricordato tra gli accademici di San Luca. Intreccia una lunga corrispondenza, tra il 1665 ed il 1671, con un grande collezionista siciliano, don Antonio Ruffo, al quale fornisce oltre ad opere sue una scelta miscellanea della produzione romana, facendo acquistare quadri di artisti legati al suo entourage, quali Ciro Ferri, Giacinto Brandi o Guglielmo Cortese, che vedremo come preziosi collaboratori nell’arricchire con figure le sue composizioni.
Entra in contatto come mediatore anche con il mercante fiammingo Gaspar Roomer, contribuendo ad integrare la sua eccezionale raccolta napoletana.
Pare che il Brueghel, prima del suo definitivo trasferimento a Napoli, vi si fosse recato per un aggiornamento e per rendersi conto dei prodigiosi sviluppi della natura morta locale.
A Roma la sua fama fu subito grande tra i potenti collezionisti dell’epoca, che menavano vanto di possedere gli esiti del suo pennello virtuoso; troviamo così quadri suoi negli inventarî di prestigiose famiglie dai Chigi ai Pamphily, dai Colonna agli Orsini e ai Borghese.
Il Brueghel, ben inquadrandosi con le esperienze figurative dell’epoca «volse ad amplificazioni barocche il repertorio dei motivi di natura morta di fiori e di frutta, arricchendoli di pittoreschi fondali di giardino, animali rari e primi piani di figure» (Faldi), per le quali sceglie con rigore i suoi collaboratori tra i più bravi, come Giacinto Brandi, il Baciccio e Carlo Maratta, spesso facendosi coadiuvare anche da un paesaggista, in maniera da realizzare composizioni ridondanti e coloratissime, che gli valsero il nomignolo di «fracassoso», coniato dalla fertile fantasia del De Dominici, il quale nel descriverlo così proseguiva: «preso un cocomero ben grosso lo lasciava cadere a terra, e come rimaneva rotto in quell’accidente lo dipingeva». Un modo elegante e discorsivo per esaltare quello stile brioso e leggero, per quanto elegante e spontaneo, che cozzava con quella solida lucidità ottica degli epigoni della scuola napoletana suoi contemporanei, da Giovan Battista Ruoppolo a Giuseppe Recco.
Il nostro Abraham dimostra di conoscere molto bene l’opera di Michele Pace, inoltre egli, pur mantenendo desta l’attenzione verso il reale, retaggio dell’imprinting caravaggesco che a Roma trova i suoi maggiori interpreti nel Cerquozzi e nel Campidoglio, rende vivaci le sue composizioni attraverso un uso sapiente del colore, che acquista un’importanza predominante sugli splendidi oggetti rappresentati: vasi scolpiti, piatti decorati, poderosi bassorilievi.
Egli riesce così ad occupare un posto di rilievo nel panorama della pittura romana della seconda metà del secolo: quei cocomeri sfasciati, quelle melograne squarciate con tanti semi a far bella mostra di sé, quei fiori non più freschi sono immagini di rara energia visiva che ritroveremo intatte con la loro limpida freschezza nelle pennellate del Maestro del Metropolitan, la misteriosa figura delineata dal Causa che tanti ambigui collegamenti presenta con la produzione del Brueghel.
Egli introdusse alcune novità, come i festoni di fiori e frutta spesso sorretti da putti e le composizioni ambientate nei giardini di ville.
Una volta trasferitosi a Napoli nel 1676, fece subito sentire la sua originale personalità, attraverso una formula decorativa ricca e disinibita, prodotta con facilità e felicità di esecuzione, ottenendo nei primi anni un brillante successo, per poi ridursi lentamente in stanche formule ripetitive, prive dello smalto e dell’ispirazione iniziale.
L’opinione degli studiosi dall’Hoogewerff al Di Carpegna, gli assegnava un’influenza determinante sugli sviluppi del genere a Napoli, pur senza giungere agli eccessi del Van Puyvelde che riteneva fosse il fondatore di una vera e propria scuola pittorica, dalla quale sarebbero sbocciati in seguito Giovan Battista Ruoppolo e Giuseppe Recco. Oggi la critica ha ridimensionato il suo ruolo a comprimario di lusso, con un debito di formazione verso i primi generisti partenopei, in primis Paolo Porpora, pur avendo contribuito in maniera rilevante al successo del nuovo gusto barocco che costituirà la moda predominante per più generazioni.
Molte sono le sue tele firmate, poche viceversa le date, mentre non conosciamo alcuna opera eseguita in patria; invece possiamo tranquillamente assegnare al periodo romano tutta la produzione in cui il collaboratore è chiaramente un artista attivo nell’urbe.
Le sue prime realizzazioni sono probabilmente le Ghirlande della galleria Corsini, in cui si apprezza un forte contrasto tra il fondo scuro ed il primo piano inondato di luce, o la Vendemmiatrice del museo di Stoccolma. Abbastanza antica è anche la grande composizione della pinacoteca d’Errico di Matera(fig. 02), classico esempio di un decorativismo dal potente respiro monumentale.
Alcuni quadri sono di grandi dimensioni, sempre arricchiti con figure, come quello del Museum of art di Providence nel Rhode Island, con collaborazione di Luca Giordano secondo il Causa e di Sebastiano Ricci per il Salerno, o il «Cerere e Putti» della collezione di Paul Getty, strepitoso schiamazzo di festoni di fiori e frutti in un giardino con figure di Guillaume Courtois, che collabora anche a degli splendidi pendant in collezione privata milanese datati «167 e 16 ...».
Importante per fissare dei termini cronologici precisi nel suo percorso artistico è la monumentale Natura morta di fiori in vaso metallico, già nella collezione Achille Lauro(fig. 00), firmata e datata 1676, forse la sua prima fatica napoletana, un esuberante trionfo barocco di fiori esaltato da una brocca preziosa e contrassegnato da uno scorrere fluido della luce resa sfavillante da una accorta scelta cromatica.
Collabora con Luca Giordano e altri generisti nelle committenze per il Corpus Domini. Le opere napoletane, come abbiamo già segnalato, scadono negli anni ad un livello di routine convenzionale; ciò nonostante tangibile è la sua presenza nel panorama artistico partenopeo, messa in risalto dalle sperticate lodi del De Dominici, che hanno trovato in epoca moderna conferma nell’analisi critica portata a termine dal Causa nella sua monumentale monografia sulla natura morta napoletana del 1972. Fece scalpore la dimenticanza, sottolineata anche dalla Laureati, da parte dei curatori della mostra sulla Civiltà del Seicento che non inclusero tra gli artisti presentati il Brueghel, un pittore abile a divertirsi delle immagini sempre diverse che crea, del trionfo dei colori e delle forme, della irrefrenabile fantasia che le accende in un gioco infinito di citazioni, contaminazioni, sorrisi, ironie.
Il Seicento si chiude poi nell’ambito della natura morta con l’opera di una singolare personalità d’artista completo: letterato, filosofo, teatrante oltre che, naturalmente, delicato cantore in grado di plasmare nei suoi dipinti il soffio vivificante di un’emozione e di un lirismo mai prima raggiunto. Parliamo dell’abate Andrea Belvedere (Napoli 1652 circa - 1732) che prosegue la tradizione mai interrotta dei migliori fioranti napoletani prendendo spunto da ognuno degli epigoni: dal Porpora l'iconografia dei soggetti, da Giuseppe Recco la chiara lucidità di analisi e di resa ottica, da Giovan Battista Ruoppolo il gusto dell'enfasi decorativa.
Immagini da Dante Caporali
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