In questo articolo propongo ai lettori alcune meditazioni sul tema del lavoro prese dal relativo capitolo del mio libro “Stato, lavoro, denaro, benessere, felicità” in uscita con Mondadori. Si tratta di spezzoni di articoli, relazioni, lettere al direttore e frammenti di conversazioni con esperti del settore come Bertinotti, Terni o Conway.
fig. 01 - Pelizza da Volpedo - Il quarto Stato
Molti hanno del lavoro ancora una visione fuorviata dalle categorie ottocentesche (fig.01 “Pelizza da Volpedo - Il quarto Stato”), invece è necessario riformularne le coordinate, perché sul lavoro si gioca il futuro del mondo, il quale una volta si divideva semplicemente in ricchi e poveri (fig. 02), mentre oggi, ed in futuro il divario sarà sempre più accentuato, tra chi ha un lavoro e chi non lo ha.fig. 02 - Cammarano - Ozio e lavoro
Negli ultimi decenni abbiamo osservato in tutti i Paesi occidentali come, sul totale della ricchezza prodotta ogni anno, la quota che va a remunerare il lavoro è scesa in percentuale di molti punti, conquistati da quella che va a remunerare il capitale.
Naturalmente queste variazioni sono l’esito di macchinari sempre più costosi, che svolgono una parte dei compiti prima affidati all’uomo; un contadino o un pescatore, l’uno con la zappa l’altro con l’amo e la canna, producevano solo per il loro lavoro, mentre un moderno impianto con tecnologie avanzate (fig. 03) produce in proporzione al capitale investito. La conferma si è avuta quando sulla questione Fiat, discutendo del costo del lavoro, qualche impertinente ha fatto notare che quest’ultimo incide solo per il 7% nel determinare il prezzo di un’automobile.
fig. 03 - Catena di montaggio
Prima o poi la produzione di beni, ma anche di servizi, non avrà bisogno del lavoro. Sorgerà allora il drammatico problema di dividere equamente la ricchezza, basterà un governo sovranazionale, possibilmente illuminato, a risolvere equamente la questione?
Il lavoro solo di recente ha assunto una posizione centrale nella società, infatti in passato esso era affidato agli schiavi ed ai servi della gleba, mentre alcune religioni lo consideravano un modo per espiare le colpe (lavorerai con gran sudore!). Il cristianesimo lo ha parzialmente cominciato a rivalutare con san Benedetto e la sua regola:ora et labora e solo con Lutero prima e con Calvino poi è divenuto un modo per riscattarsi e procurarsi meriti per l’aldilà. In seguito tra lavoro e potere si è creato un collegamento sempre più stretto con la crescita del ruolo delle classi borghesi ed operaie e lavorare è divenuto, oltre che il mezzo per procacciarsi denaro allo scopo di migliorare il proprio tenore di vita, anche una leva per costruire e consolidare la democrazia.
A metà del secolo scorso il capitalismo sembrava avesse risolto gran parte della questione sociale, perché lo sviluppo dell’economia non si era incamminato nello sfruttamento sistematico del fattore lavoro, una delle minacce paventate dal marxismo, bensì le retribuzioni crescevano parallelamente all’aumento della produttività, senza intaccare i profitti del capitale ed i lavoratori progressivamente miglioravano il loro livello di vita, integrandosi armonicamente nel tessuto sociale.
A questa situazione si era pervenuti non certo automaticamente, ma soltanto in virtù della formazione di un potere sindacale (fig. 04) solido, in grado di sostenere alla pari i rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Tutto questo è venuto meno con la liberalizzazione nella circolazione dei capitali e la conseguente globalizzazione dell’economia, che permette alle imprese di trasferire la produzione dove il costo del lavoro è più basso ed il potere sindacale inesistente o debole, circostanza che permette di rendere vani i diritti dei lavoratori faticosamente conquistati dopo decenni di lotta.
fig. 04 - Manifestazione sindacale
Un altro fattore non trascurabile che ha influito nel modificare il mercato del lavoro è stato la scomparsa di quella invisibile, ma consistente barriera, tra capitalismo avanzato occidentale ed economie sottosviluppate del terzo mondo, circostanza che ha messo in concorrenza i lavoratori di diversi Paesi, scatenando una corsa al ribasso nelle remunerazioni.
Il ruolo ed il peso economico di interi gruppi sociali è andato progressivamente declinando, mentre la quota di ricchezza che remunera il lavoro è andata progressivamente diminuendo a favore di quella che remunera il capitale. Nello stesso tempo vi è sempre meno bisogno del fattore lavoro per produrre la stessa, se non maggiore, quantità di beni e servizi.
Nella nostra società la dignità del lavoro ha goduto sempre della massima considerazione e la perdita del suo valore economico ha mortificato anche il suo valore morale e sociale, mettendo in crisi le stesse fondamenta su cui si basano le nazioni occidentali. Il lavoro non è visto soltanto come mero mezzo per procacciarsi del denaro, con il quale acquistare dei beni, ma anche come segno di distinzione e di collocazione nel tessuto sociale.
Esiste un rapporto diretto tra libertà del lavoro e democrazia è lì che si aperta tempo fa la prima crepa nell’assolutismo del potere e probabilmente è proprio lì che potrebbe richiudersi.
L’unica via per sottrarsi a questa concorrenza spietata che in breve lasso di tempo vedrà trasferirsi nei paesi terzi gran parte delle produzioni è un forzato ritorno al protezionismo. L’alternativa è accettare un vertiginoso aumento della disoccupazione ed una estrema precarietà nella durata dei contratti ed una sempre più bassa remunerazione del lavoro.
Vi è anche un’altra possibilità, difficile da percorrere e che può in ogni caso riguardare una piccola quota di lavoratori: specializzarsi in attività ad elevato contenuto di tecnologia e competenza oppure indirizzare le risorse verso settori ad alto benessere sociale. Per essere più espliciti favorire attraverso opportune tassazioni la costruzione di autobus e treni invece che automobili o scooter, o meglio ancora meno telefonini e più investimenti nell’istruzione. Sarebbe necessario che la politica riprendesse il controllo dell’economia, un’ipotesi in controtendenza con l’andazzo attuale che vede la finanza dominare il mondo rendendo vane e risibili le decisioni dei governi. Una riorganizzazione delle scelte consumistiche e degli obiettivi di una società incrinerebbe anche il dominio della concorrenza tra i produttori ed il martellamento della pubblicità, che ci spinge ad acquistare beni e servizi dei quali non abbiamo alcun bisogno.
Sindacalisti e politici affermano continuamente che il lavoro è un diritto. L’affermazione è una vecchia litania populista, demagogica e gravemente fuorviante che non ha alcun fondamento. Il lavoro, quello che consente di creare ricchezza lo creano le imprese le quali ovviamente non hanno alcun dovere. La nostra Costituzione nell’affermare che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro indica un obiettivo che tutte le istituzioni e le parti sociali, ognuna nel proprio ambito di competenze devono porsi. Di conseguenza se il lavoro fosse un diritto ogni disoccupato avrebbe pieno titolo di perseguire, in tutte le sedi possibili, non esclusa quella giudiziaria, chi questo diritto gli nega, già ma chi?
Il lavoro precario: maledizione o necessità?
Il lavoro precario è una maledizione (fig. 05) per i giovani, i quali non hanno più punti fermi che permettano di fare progetti per il futuro: formarsi una famiglia, fare dei figli, comprarsi una casa con un mutuo, godere un domani della pensione.
fig. 05 - Il lavoro come maledizione
La scuola fino a quando il problema non avrà trovato una soluzione dovrà impegnarsi a fornire ai giovani una preparazione multidisciplinare, in previsione che, nel corso della vita, siano costretti più di una volta a cambiare completamente tipo di attività. Lo Stato ed i sindacati devono impegnarsi ad elaborare e rispettare una legislazione che preveda la possibilità reale di licenziamento per giusta causa, allo scopo di sfatare il pregiudizio (in gran parte vero) che un datore di lavoro che assuma un dipendente lo debba assumere a vita. Bisogna convincersi che una strenua difesa del lavoro comporta una palpabile penalizzazione per chi lo cerca.
Gli economisti debbono spiegarci se la precarietà è una condizione favorevole dello sviluppo economico e prospettarci modelli alternativi, nei quali un maggiore rispetto dei diritti del lavoratore sia compatibile con un incremento della produzione.
I politici debbono recepire la gravità del problema e, coraggiosamente, proporre soluzioni anche contro i poteri forti, spesso sopranazionali e sempre onnipotenti. Il loro compito è il più gravoso e necessita di un grosso appoggio per evitare il senso di solitudine delle scelte decisive, in mancanza delle quali non esisterà un futuro, non solo per i giovani ma per la nostra civiltà.
Lavorare è necessario?
Il progresso scientifico e l’automazione (fig. 06) negli ultimi anni hanno fatto sì che, con una quota minore di lavoro, si riesca a produrre una maggiore quantità di beni e servizi, una cosa certamente positiva che nel tempo potrà liberare l’uomo dalla maledizione biblica di essere costretto con gran sudore a procacciarsi il necessario per vivere. Paradigmatico è l’esempio di quanto produce un contadino americano ed uno africano: il primo grazie ai fertilizzanti, alla cospicua irrigazione ed all’uso di macchinari riesce a produrre quanto cento dei suoi colleghi africani, per cui, ipotizzando che in futuro anche loro potranno usufruire degli stessi accorgimenti, fra non molto il lavoro di uno solo potrà bastare a produrre il cibo per gli altri 99, i quali potranno anche non lavorare, se però colui che produce sia disposto a dividere con gli altri il frutto del suo lavoro. E qui nascono le difficoltà forse insormontabili per l’egoismo dell’uomo, probabilmente bisognerà creare una rotazione nel lavoro: un giorno ogni cento. Una prospettiva allettante che invita però alla meditazione sulla sua fattibilità, dopo che per anni abbiamo ascoltato l’utopico slogan “lavorare meno lavorare tutti”. In numerosi altri campi la riduzione del lavoro è stata massiccia, mentre il prodotto ha continuato ad aumentare senza sosta, riuscendo a soddisfare gli scriteriati bisogni crescenti di una civiltà dominata dall’imperativo categorico di consumare, consumare ed ancora consumare.
fig. 06 - Robot al lavoro
Non è ipotesi fantascientifica immaginare un mondo nel quale il lavoro non sarà necessario (fig. 07) ed i beni ed i servizi necessari saranno realizzati dalle macchine e dai robot. Il problema drammatico sarà costituito dalla distribuzione dei prodotti, venuto meno anche l’uso del denaro o quanto meno del modo per procacciarselo al quale siamo abituati. Ed a complicare ulteriormente il quadro vi è il moloch della globalizzazione, che annulla le decisioni e le volontà non solo dei cittadini, ma degli stessi Stati, impotenti davanti al potere cieco delle multinazionali.
Potremo in futuro, quanto prima, liberarci dal fardello del lavoro, ma dovremo affrontare e risolvere una serie di non facili problemi: distribuire equamente la ricchezza e creare una reale uguaglianza tra nazioni e cittadini. Un compito arduo ed affascinante che dovrà essere l’obiettivo delle nuove generazioni.
fig. 07 - Lavoratori sul lastrico.
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