sabato 12 novembre 2011

IL BAROCCO TRA APOLOGETI E DENIGRATORI Il sogno inesausto di un cromatismo straripante


Il Barocco ha rappresentato il linguaggio della Controriforma trionfante in pittura, scultura ed architettura, dopo un periodo segnato dalla severità e dal grigio rigore tridentino. La Chiesa vuole celebrare la propria gloria e la potenza della fede, uscita vittoriosa dal confronto con i protestanti. Vi fu un’ansia quasi smodata di celebrare il rinnovato potere. La nuova corrente nasce a Roma intorno al 1630 con artisti del calibro di Bernini, di Borromini e di Pietro da Cortona e da lì si irradierà in gran parte dell’Europa cattolica.

In Italia conobbe momenti di debordante felicità cromatica a Napoli grazie a Mattia Preti, convertitosi al nuovo verbo dopo una prima adesione alla lezione caravaggesca, a Luca Giordano ed al Solimena, fino al De Mura attivo a metà del Settecento e toccò anche Lecce e la Sicilia. La versione genovese ha l’uomo di punta in Gregorio de Ferrari, un pennello di gusto già rocaille ed a Venezia fu un’ondata che si fermò solo nel secolo successivo con Piazzetta e Tiepolo.

All’estero dalla Spagna  il movimento si diffuse a macchia d’olio in America meridionale sulla scia dei Gesuiti, fu molto vivo nella Germania meridionale ed in Austria, territori riconquistati alla religione cattolica e toccò il vertice in Belgio con il Rubens e con la ritrattistica aulica del Van Dyck. Non ebbe fortuna in Francia dove a lungo vi fu una polemica tra poussinisti e rubensisti e dove dettava legge una cultura ufficiale di stampo classicistico.

Esso rappresentò la fine per consunzione dell’arte rinascimentale: Raffaello, Michelangelo e gli altri giganti dei secoli d’oro avevano toccato la perfezione e non vi erano più traguardi da raggiungere. Il Barocco nasce da questa esigenza di nuovo, oltre che dal desiderio della Chiesa di esaltare i suoi trionfi. Essa diventa per molti anni l’unica committente, in mancanza di un ceto borghese con un gusto laico, come invece era la regola per i paesi protestanti dove gli artisti non erano costretti a lavorare per un mecenate assecondandone le richieste, ma potevano lavorare per una clientela anonima di mercanti, imprenditori, professionisti, artigiani ricchi. Nelle opulente case del nord non vi è spazio alcuno per l’apologia né per il compiacimento delle virtù, mentre paesaggi, nature morte, meticolose indagini anatomiche e scene della vita di ogni giorno del villaggio sono molto diffuse.

In precedenza nel Quattrocento e nel Cinquecento la Chiesa non aveva goduto di una preminenza da monopolio, per la presenza di potenti mecenati laici. Un artista licenziato dal papa o da un cardinale avrebbe trovato subito sistemazione presso un Medici o un Gonzaga, se non alla corte di un doge, inoltre l’umanesimo aveva permeato anche i religiosi, che tolleravano quei pittori che plasmavano le loro madonne con una sensualità più carnale che celeste.

L’arte sacra era anche profana e perciò riuscì a raggiungere i livelli più alti.

Dopo il Concilio di Trento questa tolleranza viene meno e vengono fissati dei canoni severi ai quali bisogna sottomettersi, pena l’intervento dei gendarmi spagnoli, braccio armato di una Chiesa che esercitava una rigida censura sulla libertà di pensiero e di espressione. Non vi era altra scelta che enfasi e declamazione, solennità ampollosa e glorificazione di santi e madonne.

Tutta l’arte viene costretta ad esprimersi entro binari ben determinati e l’unica evasione per l’artista risiede nel poter sfogare senza limiti la sua fantasia coloristica e la bizzarria decorativa fino alla pura farneticazione. Grande maestria, ma anche tanto mestiere,  nel creare quell’orgia di forme e quel diluvio cromatico, quella teatralità di sfondi, quei contorsionismi muscolari esagitati nella scultura, quella falsa solennità scenografica nell’architettura.

Il trionfo del Barocco si raggiunge quando si può dare libero corso alle ragioni del cuore più che della mente, dare ascolto alle voci varie e mutevoli dell’universo traducendole in fantasie ed emozioni variopinte. In  questo abbandono dei sensi il sogno di levità, di delizia e di rapita eleganza del secolo si esprime in una radiosa tastiera cromatica, in grado di sciogliere la forma in luce, radiosa e vibrante , mentre la materia si scorpora e si smaterializza come un tenero miele di sole che scorre dappertutto e tutto intride con la sua dolcezza.

Nell’Ottocento il Barocco, oramai soppiantato da altre mode ed espressioni artistiche, fu condannato in un clima di rigore neoclassico e fu definito come strampalattezza e cattivo gusto. Anche Croce condannò il movimento, ma il suo giudizio era riferito alla letteratura del tempo ed a certi aspetti del costume seicentesco, anche se poi il suo parere è stato erroneamente esteso anche alle arti figurative.

Vi furono come in ogni tempo buoni e cattivi artisti, i primi agitati da un pathos interno che domina gli spazi, flette le superfici architettoniche, agita i marmi, imprime la vita al bronzo e fa turbinare con eguale energia glorie celesti ed allegorie profane, mentre i meno ispirati, appesantiscono con pesante orpello le superfici sfacciatamente dorate in una volgare combinazione di forme grevi e di colori stridenti.

Queste brevi considerazioni sul Barocco hanno costituito il nucleo principale di una lezione da me tenuta, su invito del professor Loire, davanti ad un pubblico giovane ed entusiasta, costituito da appassionati e non da specialisti, al College de France, una celebre e preziosa istituzione, che autorizza i relatori ad affrontare i temi assegnati con una certa libertà e di questa possibilità dobbiamo essere grati in egual misura a Guillaume Budé e a Francesco I.

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