venerdì 22 novembre 2013

Un poeta sulla scena

Enzo Moscato


Enzo Moscato rappresenta maglio di chiunque altro l’anima ed i furori della città. Lo conosciamo attraverso un’intervista di Delia Morea.
Straordinario "vate" di quella che è stata definita, sin dagli esordi, "nuova drammaturgia napoletana", Enzo Moscato in trent'anni di poetica teatrale è stato uno degli innovatori della scena napoletana e nazionale. Scrivendo e mettendo in scena un considerevole numero di pièce di successo (ne citiamo solo alcune: Scannasurice, Pièce Noire, Rasoi, Festa al celeste e nubile santuario, Ragazze sole con qualche esperienza, Sull'ordine e il disordine dell'ex macello pubblico, Cartesiana, Luparella, Trianon, Arena Olimpia, Compleanno, L'Opera segreta, Partitura, Bordello di mare con città, Le doglianze degli attori a maschera. ecc.) ha fatto conoscere anche il volto "nero" della città, quello sommerso, appartenente alla Napoli di "sotto", alla Napoli dei vicoli, eppure profondamente vero. Con un linguaggio teatrale rivoluzionario arcano e moderno insieme, che affonda di prepotenza nella sua cultura letteraria, filosofica, Moscato è poeta della scena ed Insieme intenso, misterioso interprete e, di certo, si può considerare uno dei capisaldi del moderno teatro europeo. 
Sin dagli esordi, all'inizio degli anni '80 lei ha cambiato di prepotenza la drammaturgia napoletana con "Carcioffolà", "Scannasurice", per arrivare ai primi importanti premi: il Riccione/Ater nel 1985 per "Pièce Noire", il premio Critica Italiana e il Biglietto d'oro Agis per "Rasoi" nel 1991, ancora "Embargos" premio Ubu 1994, questo per citarne solo alcuni. Gli inizi degli anni '80 sono stati caratterizzati dal post-terremoto e da una sfrenata voglia di ricostruire, di cambiare anche il modo di fare cultura. Ma qual'è stata l'ispirazione primaria della sua poetica teatrale? 
"Premesso che faccio difficoltà a guardare a tutto ciò pensando che sono trascorsi tanti anni. nasco artisticamente proprio nel 1980 e a Roma dove misi in scena il mio primo testo "Carcioffolà" e se non fosse stato per il terremoto forse non sarei tornato a Napoli. ma questo è stato il mio destino e sono uno dei pochi artisti rimasti qui. Tornato mi misi a scrivere "Scannasurice" che rappresentava una vera e propria discesa negli inferi di questa città. Oggi sembrerà banale e lo fanno un po' tutti ma in quegli anni un napoletano che teatralmente attraversava il "nero" della città era un fatto nuovo. Siamo sempre stati considerati un popolo giocoso, pulcinellesco, sempre troppo solare, invece questa katabasi nelle viscere della città mi configurava forse come un novello Enea. Naturalmente questo è un ragionamento che ho fatto aposteriori, all'epoca avevo solo voglia di fama questa cosa, di affrontare questa esperienza anche se avevo una formazione diversa, lontana dal teatro: ho studiato filosofia poi l'ho insegnata. ma alla fine il teatro è stato il mio approdo. Quando nel 1986 mori Annibale Ruccella, il sodale (ci chiamavano i Diascuri), l'altra anima di questa drammaturgia che allora si definiva nuova, ricordo che stavamo a via dei Mille, sulle scale che portavano al Teatro Sancartuccio ed io pensai: Dio mio abbiamo appena cominciato ed è già finito. Perché tra me ed Annibale c'erano tante affinità: eravamo due giovani che avevano fatto studi simili ( tutte e due in filosofia poi io mi ero laureato appunto in filosofia e lui in antropologia), e teatralmente c'era, in realtà. una identificazione totale e dunque alla sua morte ci fu un grande smarrimento. Oggi penso che questa nuovo teatro, nonostante il trascorrere degli anni stenta ancora a decollare realmente: la città, poi, è cambiata, è più cinica, indifferente, convenzionale e potrebbe non esseno. Non voglio fare il nostalgico ma mi sembra che negli anni '80 ci fosse un altro tipo di umanità. Le persone erano mosse da curiosità mentali, vedeva una folla di giovani impegnati e motivati anche in altri campi, oltre che in teatro, sentivo accanto a me come un'onda d'urto di grandi interessi e pensavo che il cambiamento poteva verificarsi, visto che la nostra giovinezza era stata punteggiata da argomenti come le mani sulla città, il colera, la camorra, ecc. Oggi parlano solo quelli che stanno bene, quelli che non stanno bene non lo fanno: se ne vanno o si suicidano. Non c'è più entusiasmo, siamo soli. Questa è una città affollata ed isolata insieme e il fenomeno teatro è diventato sempre più emarginato. Anni dì studi, fatica, applicazione e rinunce e poi hanno voce in capitolo quelli che entrano in un certo sistema. La precarietà che avevo 30 anni fa l'ho ancora oggi. Ho avuto una breve parentesi col Festival di Benevento ma è durata poco. Oggi ci sono orizzonti chiusi e prospettive quasi nulle anche e soprattutto per i giovani. Ripeto mi sembra ieri che tutto sia accaduto ma l'ufficialità è ancora ferma a prima di 30 anni fa Abbiamo vissuto sulla nostra pelle questo ritardo ed è come se fossimo ancora figli di famiglia ... "
Nel suo teatro, nella sua scrittura drammaturgica il linguaggio: innovativo e barocco, letterario e magmatico, arcaico e moderno insieme, che affonda nella sua grande cultura ha, a mio avviso, un peso fondamentale e diventa corpus teatrale. Ritiene che questa lettura sia giusta? E quanto prevale questo linguaggio nei suoi spettacoli? 
"Con i linguaggi della scrittura ho avuto sempre un rapporto anticonformistico. Ho scritto per Il teatro ma lo spettro della mia scrittura è molto ampio. La scrittura per il teatro deve nascere come scrittura del corpo e sul corpo anche se quando scrivi può accadere di essere lontano dal personaggio perché agli antipodi da te, ma la scrittura è destinata al corpo. La corporarietà nel discorso teatrale è centrale. Agli esordi dicevano che io e Annibale scrivevamo sui corpi. Per noi era radicale farlo, era una questione politica. Significava scrivere sul corpo e del corpo di Enzo ed Annibale. cosa che prima in teatro non si era mai verificata. Prima c'era la scrittura scenica attoriale ma non era scrittura drammaturgica. In realtà una forma teatrale, la nostra, politicamente nuova. senza fare tanto chiasso sulla nostra differenza. Tutta questa trasgressiva differenza veniva fuori come atto implicito. Poi l'atto del teatro è cosi: devi passarlo agli altri io ed Annibale avevamo un rapporto viscerale con la scena, Questo atto poetico di scrivere i testi teatrali come si scrivesse sui corpi è andato avanti e si è evoluto. Intanto è un dato acquisito e gli altri, se vogliono, la possono leggere questa tranche di teatro italiano. Oggi scrivo soprattutto per il piacere di scrivere, è una necessità, non posso farne a meno nonostante gli orizzonti chiusi. È una dipendenza terapeutica, sono abituato sin da ragazzino alla funzione della scrittura che serve come consolazione della vita." 
Ritiene che il teatro oggi, compresa la scena napoletana, abbia subito mutazioni? 
"Ci riporta al discorso di prima. Credo che le rivoluzioni sono accadute ma sono state rimosse. lo stesso credo di essere stato rimosso. Ruccello no: ha avuto la sfortuna terribile di morire giovane senza la possibilità di evolversi o involversi, in 30 anni si ha il tempo che ciò possa accadere in un caso o nell'altro. L'altra sua sfortuna è che i suoi testi sono ancora attivi ma in mano a scaverachiuovi che ne fanno quello che vogliono. C'è la moda di rappresentarlo. La morte, forse, consacra, ma un autore è tanto più vivo quanto più ha la possibilità di sperimentarsi. Tornando alla domanda: tutto sarebbe potuto cambiare ma non è cambiato. Non vedo genialità in giro né da parte degli uomini, né delle donne. Credo che oggi la vera genialità é quella di chi lavora su se stesso perlomeno da 20 - 30 anni. Gli altri no oggi ci sono più fenomeni mediati ci che realtà concrete. Non ci sono più Leo De Berardinis, Carmelo Bene. La gente non viene colta più nell'ambito della profondità ma sulla superficialità. Ci sono stati altri grandi esempi dì Genialità. penso a Toni Neiwiller, grande poeta della scena. Gennaro Vitiello. ma oggi sono stati sommersi Alla fine tutto ciò che è complesso, che è veramente diverso e sconvolge gli assetti, oggi non si può accettare," 
A distanza di tanti anni dai suoi esordi, quanto è cambiata la sua poetica teatrale e se è cambiata? 
"Le cose cambiano ma mantenendo ferma Una identità. Non ritengo che l'Enzo che ha scritto "Scannasurice" sia tanto diverso dall'Enzo di "Gli Anni Piccoli". Oggi è più trionfante l'immagine del senex che quella del puer degli inizi ma l'una non esclude l'altra. Con grande sincerità devo dire che mi accorgo che alcune cose le ho già dette, però non ho mai liquidato una pagina che c'era da mettersi vergogna." 
Il suo essere autore teatrale e insieme attore imprime al suo teatro, a mio avviso, un segno di profonda coesione nella perfetta fusione delle due figure. Nei film che ha girato (cito per tutti: Libera di Pappi Corsicato, Il Resto di niente di Antonietta De Li Ilo, Mater Natura di Massimo Andrei, I Vesuviani di Martone, De Lillo, Corsicato, Capuano, Incerti) è stato diretto da altri registi e in teatro soltanto da Mario Martone (con "Rasoi" e "Opera Segreta") e Armando Pugliese ("Angeli all'Inferno" di Francesco Silvestri), ma accetterebbe di fare esperienze diverse con altri registi teatrali? 
"Ho accettato in passato di farmi dirigere perché sono curioso del lavoro degli altri e lo farò ancora: l’inverno prossimo con la regia di Armando Pugliese interpreterò De Pretore Vincenzo di Eduardo De Filippo. Un De pretore molto musicale. Ci saranno anche Enzo Gragnaniello, Pietra Montecorvino, Ernesto Lama. Io voglio molto bene ad Amando Pugliese e con lui ho collaborato spesso, ho tradotto anche uno spettacolo Chantecler che ha messo in scena. Ha diretto il mio Festa al Celeste e Nubile Santuario, c’è una collaborazione. Mi occuperò sempre della mia compagnia teatrale, nel mio piccolo sono un capocomico, ma ora è un momento diverso e sento di voler fare questa esperienza. Inoltre le cose, a mio avviso, con le persone affettive."
Oltre ai testi teatrali, ha pubblicato anche testi letterari, penso a "Occhi gettati ed altri racconti". È recentissima la sua autobiografia "Gli anni piccoli" (Guida) che racconta di infanzia e di adolescenza, del mondo dei quartieri spagnoli. Corredato da uno scritto introduttivo del giornalista Enrico Fiore e chiuso da un testo del musicologo Pasquale Scialò, che rintraccia gli elementi della musicalità nella sua parola letteraria, è un piccolo volume di grande intensità. Quando ha inteso in sé di scriverla? 
"Tra "Gli Anni Piccoli" e "Occhi gettati" (1989) sono trascorsi più di 20 anni. Quando mi rivolgo ad una scrittura non destinata al teatro mi concedo più tempo. Questa biografia in frammenti ho iniziato a scriverla molti anni fa i miei familiari che si affacciano nel racconto nel frattempo sono tutti morti tranne una sorella che vive in America, io sono l'unico che ha conservato la memoria di quegli anni e mi è rimasto l’obbligo di tramandarla anche ai miei nipoti. Il libro è dedicato a Salvio l'ultimo fratello scomparso e in gran parte racconto tutte verità. Di come facevo filone a scuola (ho smesso di farlo in l° liceo classico) perché venendo dai quartieri spagnoli mi sentivo catturato, compresso nella scuola. Filonavo facendo lunghe passeggiate e cosi ho avuto modo, ragazzino, di conoscere la città, anche di sfidare il pericolo, ma il pericolo l'ho sempre sa pula gestire forse proprio perché venivo dai vicoli. Una volta sono passato davanti al Salone Margherita, sono stato attratto dall'odore strano che emanava, di chiuso (era molto fatiscente allora) e ci sono entrato. Ero curioso di tutto. Se non sei curioso non nasce la scrittura. E poi il mio incontro fondamentale è stato con i libri e le bancarelle di via Costantinopoli, Port'Alba. La lettura é sempre stata importante per me, mi ha salvato nei momenti di lutto, nei momenti di dolore." 
Questo discorso continuerà, ad esempio, con un romanzo vero e proprio? 
"Ognuno scrive un romanzo a modo proprio. Ogni scrittore da un apporto al romanzo a modo suo lo credo che per me il modo sia quello di scrivere in frammenti e anche in teatro io non scrivo storie ma esplosioni di storie. Credo che sia il riflesso dell'esterno della vita che viviamo e anche della nostra interiorità odierna. È difficile oggi trovarsi di fronte ad una storia è tutto molto frammentario, noi stessi siamo ridotti a frammenti." 
Un'ultima domanda sullo spettacolo "Ta Kai Ta" che presenterà nell'ambito della nuova edizione del Napoli Drammaturgia Festival, alla fine di settembre, al Teatro Nuovo. Può darmi qualche anticipazione? 
"Armando mi ha chiesto di fare un testo di Eduardo che farò, ed io, invece, ho avuto l'idea di scrivere un testo su Eduardo. Il titolo deriva dal greco antico e significa Questo e Quello. È una frase che disse lo stesso Eduardo in una intervista. Ho sempre avuto rispetto e ammirazione per le grandi penna, come lo è Eduardo De Filippo e questo testo fa uso della fantasia, dell'immaginazione come strumento conoscitivo per parlare di lui. Ho applicato tutto ciò alla vita interiore ed esteriore di Eduardo. Niente di quello che c'è nel testo è storicamente fondato: a me interessa la fantasia, la reverie." 
Quale é stato lo spunto? 
"Ricordo che quando Pasolini morì, fecero una intervista a Eduardo e mi colpi molto una sua affermazione. Lui che è sempre stato dipinto come un cattivo, un personaggio difficile. disse queste parole: hanno ucciso un poeta ed era un uomo molto buono. Lo disse con un tono di profonda verità Raccontò anche che avrebbe dovuto girare un film con lui sulla figura di San Paolo che si sarebbe chiamato "Ta Kai Ta" Dunque Eduardo parlò di Pasolini in termini buoni in un momento in cui di lui si diceva tutto il possibile e non sempre in termini positivi. Attraverso questa affermazione di Eduardo che lo mostra in qualche modo diverso, voglio indagare sugli aspetti non visibili del suo carattere, anche sulla bontà, la generosità, il suo rigido giudizio su Napoli mai venuto meno. È un altro Eduardo quello che vado ad investigare. Con me in scena ci sarà Isa Danieli che è l'altra parte di Eduardo. Il testo l'ho scritto 3 o 4 anni fa ed ora Luca De Fusco e il Napoli Teatro Festival mi danno la possibilità di metterlo in scena." 
La narrazione è figlia del celebre Cunto. Scampoli di storie. spesso frammentate, sono affidate a un'umanità che mette in scena se stessa e il ricordo di un passato eroico: 96 ore di resistenza contro i tedeschi. la storia dei lazzari «stracciati» che mettono in fuga gli invasori. Napoli '43. Scenario evento per il 70° «D-Day» napoletano. scritto e diretto da Enzo Moscato, debutterà il 28 settembre al Teatro Mercadante, nel giorno in cui settant'anni fa cominciò la rivolta. Sul palcoscenico, insieme con Moscato, l'annuario degli attori partenopei, 25 interpreti - il più vecchio Antonio Casagrande. 82 anni e una carriera cominciata con Eduardo De Filippo, il più giovane Giuseppe Affinito18 anni, in scena con Moscato da quando ne aveva sei - che hanno accettato la scrittura nonostante le precarie prospettive economiche (a pochi giorni dalla prima non sono ancora stati pagati perché la delibera non è stata firmata). 
Saranno cantastorie distratti, evasivi, grevi, sentenziosi, disgustosi e solenni. Portatori di una memoria perduta. senza cadere però nella trappola della retorica. Perché, come spiega Moscato, «a Napoli serve una nuova frontiera, il teatro lo è ma non basta. 
Uno spettacolo così può aiutare il cambiamento? 
«Sì, ma di una persona su cento. A me la vita l'ha cambiata la scoperta dei libri a 11 anni. ma ai miei fratelli, bravissime persone, i libri non hanno fatto nessun effetto. Per una vera rinascita c'è bisogno di una visione e di progetti a lungo termine».
Le scene sono di Mimmo Paladino, le luci di Cesare Accetta, i costumi di Tata Barbalato, le musiche originali di Claudio Romano. Alla prima del Mercadante è atteso il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Poi lo spettacolo si sposterà al Teatro Nuovo dei Quartieri Spagnoli. 
«Napoli fu la prima città nel mondo a liberarsi dai te deschi. Ci riuscì con poche anni  e senza l'aiuto 
di un partito, di una organizzazione. Sono passati 70 anni da quei giorni e il ricordo langue, molti giovani li ignorano. E io stento a riconoscere nei cittadini di oggi la forza, l’eroismo, la dignità, dei cittadini di allora, che pagarono spesso con la vita il rifiuto dell’invasore nazista. Ecco perché ho scritto “Napoli ‘43”».
Enzo Moscato torna al suo amore per la Storia e la mette al servizio del proprio teatro. Il 28 settembre, al Nuovo, l’unica sala che gli ha dato finora ospitalità, proporrà «Napoli ‘43»: 25 attori inscena per evocare fatti e personaggi delle Quattro Giornate in cui la città costrinse le truppe del colonello Walter Schöll a battere in ritiro. Moscato metterà in scena dei personaggi
«Rita la mandolinista, Zezzeniello, la spia tedesca donna, Carmela d’’ecartuline, Bellella Be’; ma evocherò anche il sacrificio del carabiniere Salvo D'Acquisto, quello di Adolfo Pansini, Studente del liceo Sannazaro, l'assassinio del marinaio toscano, Leluccia, la partigiana di Materdei. tutte figure che si stagliano: sulla folla anonima, perché non dimentico che le Quattro Giornate furono una sollevazione interclassista e di massa."Napoli '43" non ha intento celebrativo, ma solo quello di risvegliare la memoria, perché la città oggi ha raggiunto un degrado senza precedenti, l’oblio, la trascuratezza, l'ignoranza che circondano le Quattro giornate ne sono un segno».
Così, «Napoli ‘43»; diventa un simbolo della dignità passata e dell’incapacità odierna. Moscato: «La ribellione popolare di quei giorni è morta. La gente non si indigna più, distratta dal consumismo. Non c'è più reazione al male. Pasolini sbagliava quando scrisse che 
i napoletani sono l'ultima tribù d'Europa. No. Anche i napoletani sono rimasti vittima della mutazione genetica globale; lo divennero nel momento in cui consegnarono ai soldati americani i fucili usati per cacciare i tedeschi ed ebbero, in cambio, la cioccolata». 
Quanto allo stile, «Napoli '43» è una «suite», un «cunto leggendario»: «Evitando il racconto storico e la mimesi - conclude Moscato - il mio teatro evoca quei giorni attraverso il frammento, le filastrocche, le voci e i silenzi, i fantasmi, e l’energia e l’anarchica dei bambini. "Napoli ‘43 "  è un’Ade, un altrove dove vive tutto l’orgoglio che la città ha dimenticato». 
Il cuore ideologico di «Napoli '43», il testo di Enzo Moscato presentato al  Nuovo nel settantesimo anniversario delle Quattro Giornate, risiede nel corto circuito stabilito fra lo slancio (vitale e passionale) di quell'evento e l'astenia (morale e culturale) della Napoli di oggi. Mentre la potenza espressiva rimane affidata all'espediente di conferire ai testo medesimo - per mezzo di una fitta serie di rime interne o baciate l'andamento di una ballata popolare, «camme fosse no ‘na guerra, ma ‘na festa ‘e Piedigrotta, cu tammorre e tammurrelle, banderelle e lampiuncielle!».
Si tratta, con ogni evidenza, di un espediente adottato per battere in breccia la retorica che sempre s'annida fra le pieghe del ricordo. E a questo scopo obbedisce anche la frequenza con cui Moscato semina nel testo noti proverbi napoletani. Fino («et pour cause», visto che si parla di tedeschi) all'ironica citazione straniante di Nietzsche nel punto in cui il racconto dello stagnaro partigiano Totore viene intitolato «Also sprach Zezzeniello». Senza contare il Don Abbondio manzoniano che qui diventa «’o curato d’’a parrocchia d’’Ascenzione».
Rifulge poi ancora una volta, e spinto addirittura al parossismo scatologico (per scaricarli sui crucchi dalle finestre, «a manèse tenitevi viecchie ciesse, nonché càntari scardati de rinàli!», il barocco degradato che sempre m’è parso di poter individuare come il tratto decisivo della scrittura di Moscato; e, per esempio, prende corpo nel ricalco del rutilante espressionismo di Majakovskij mescolato con la carnale protervia della «parlesia».
Infine, il testo si coagula e si esalta nella mischia, fuoco vivo, fra la dolente rievocazione dei napoletani che morirono nei lager e l’invettiva risentita contro i tanti napoletani di oggi che hanno dimenticato. Giacché questo, insomma, è un alto merito di «Napoli ‘43» : il suo porsi come una testimonianza civile. Ulteriormente potenziata dal terribile paradosso conclusivo secondo cui soltanto un ritorno dei tedeschi potrebbe ridestare nei napoletani l’orgoglio e la capacità di reagire.
Non a caso, poi la regia, dello stesso Moscato, utilizza l’insieme dei personaggi come un vero e proprio coro greco, ma composto da tanti coriferi: sono le «escrescenze» vittoriose e anarchiche di un «corpo» minacciato dalla sconfitta e dal conformismo. E in tal senso vanno lette anche le immagini sceniche di Mimmo Paladino, segni filiformi e slabbrati che suggeriscono l’idea di cicatrici: così richiamando da un lato il «il lungo grafismo magro come una lettera». al quale Foucault assimilò Don Chisciotte, simbolo della frattura tra le parole e le cose; e, dell’altro, «Co’Stell’Azioni», il precedente testo di Moscato – autentica profezia di questo «Napoli ‘43» - in cui, per l’appunto, i Morti vengono tra i Vivi «per farvi sapitori ‘e sta ferita».
Pure sotto il profilo della forma (ciò che parla di una significante coerenza strutturale) siamo, dunque, di fronte alla separazione fra un passato luminoso e un presente buio che costituisce il cardine dello spettacolo. E sempre in tema di coerenza, s’adegua perfettamente, a un simile contesto, la prova risentita degl’interpreti: primi fra i quali, accanto all’autore e regista, Antonio Casagrande, Benedetto Casillo, Cristina Donadio, Gino Curcione e Salvatore Cantalupo.
Ma resta negli occhi, come toccante sigla poetica della rappresentazione, soprattutto la scena dei bambini che dal fondo arrivano al proscenio per deporre al fianco dei giovani delle Quattro Giornate uccisi dai tedeschi i loro animaletti di peluche: è il monito a ritrovare l’innocenza, nel senso dello sguardo franco che solo può consentire di cambiare la realtà, riconoscendola nella sua effettiva consistenza oltre ogni preconcetto ed ogni illusione.

Napoli '43 - scene di Mimmo Paladino



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