sabato 9 novembre 2013

A caccia di virus


Giulio Tarro

Giulio Tarro nato a Messina nel 1938, si è laureato in Medicina a Napoli, dove ha studiato con il Prof. F. Magrassi problemi di chemioterapia antivirale. Quindi si è trasferito per 4 anni negli Stati Uniti dove ha lavorato ha lavorato con Sabin, il celebre premio Nobel, impegnato a dimostrare l’associazione degli herpesvirus con alcuni tumori dell’uomo. Da cui è scaturito il primo marker tumorale etiologico.
nel 1973 fu in prima linea nel contrastare l’epidemia di colera a Napoli,  come pure nel ’79 isolò il virus respiratorio sinciziale responsabile della morte di numerosi bambini durante il così detto “Male oscuro a Napoli”. Attualmente è impegnato nel separare antigeni tumorali ed identificare il loro valore nell’immunoterapia.
Ha ricoperto numerose cariche accademiche ed è stato dal 1971 al ’75 direttore di progetto del National Cancer Institute negli Stati Uniti.
Primario di Virologia presso il Presidio Ospedaliero D. Cotugno di Napoli USL 41 (1/6/73) dal 1981. Presidente a vita della Fondazione T. e L. de Beaumont Bonelli, per le ricerche sul cancro.
Tra i premi e riconoscimenti: Premio internazionale Lenghi dell’Accademia dei Lincei, Roma, per studi di Virologia, 1969. Medaglia d’oro del Ministro della Pubblica Istruzione, conferita dal Presidente della Repubblica (1975). Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio (1985). Pubblicazioni oltre 300. Laurea Honoris Causa University Cattolica Albany (New York), 1989. Il 23/11/2006, data del suo pensionamento è stato nominato Primario emerito presso l'A.O. "D.Cotugno".
In data 2/1/2007, è stato nominato Presidente della Commissione sulle Biotecnologie della Virosfera UNESCO, a Parigi
Tra i numerosi titoli ricordiamo: Membro Senato Accademico University Providence (Rhode Island), 1990. Presidente della Società Italiana di Immuno-oncologia, dal 1990. Commendatore al merito della Repubblica Italiana, (1991). Laurea Honoris Causa Accad. St. Teodora (New York), 1991. Biografia riportata su Who’s Who in the World 1991/92, a seguire; in America, 1994-1998; in Science and Engineering 1992/93, 1994/95, 1996/97. Presidente della Lega Internazionale Medici Antivivisezione, dal 1992. Membro Senato Accademico Univ. Pro Deo (New York), 1994. Biografia riportata sulle pubblicazioni di International Biographical Centre, Cambridge, England. Biografia riportata sulle pubblicazioni di The American Biographical Institute, Raleigh, N.C., USA. Ha ottenuto numerose onoreficenze e riconoscimenti diversi, tra cui 19 premi internazionali. Membro del Comitato Nazionale per la Bioetica dal 1/1/95. Nel 1996 diventa giornalista pubblicista ed è iscritto all’Albo dei Giornalisti. Laurea Honoris Causa, The Constantinian University, Cranston (R.I.) USA - 1996. Nel 1997 Membro dell’International Informatization Academy (United Nations).
Nel quarantennale della ultima grande epidemia dell’Europa così ha rievocato quei giorni.
«Napoli è un terreno infiammabile. Basta un cerino per innescare l’incendio». Quaranta anni dopo il colera Giulio Tarro, infettivologo di fama mondiale, pur escludendo la possibilità di un ritorno della epidemia del ‘73 parla delle emergenze sanitarie che possono essere innescate nella nostra città, nella nostra provincia. 
Ai «tempi del colera» Giulio Tarro - oggi-professore associato alla 'Temple University di Filadelfia - era un giovane primario di Virologia al Cotugno, l'ospedale dove fu curata 1'epidemia. All' epoca, la fama di Giulio Tarro era ,già di livello internazionale perché il medico-scienziato, dalle origini messinesi aveva collaborato, a metà degli anni Sessanta, al fianco del grande Albert Sabin nella messa a punto del vaccino contro la poliomielite. Tarro, oggi, ricorda quei drammatici giorni.
Professore, ci racconti di quel tragico agosto di quaranta anni fa. Come seppe del primo caso di colera?
«Lo seppi proprio dal Mattino. Ero a New York. Acquistai alla libreria Rizzoli, come ogni giorno, il quotidiano della mia città. In prima pagina un titolo a nove colonne annunciava "Colera a Napoli". Rimasi basito». 
E cosa fece?
«Presi il primo volto per l'Italia. A Fiumicino mi vaccinai. Poi proseguii per Napoli. Una volta al Cotugno, dove ero primario di Virologia - e docente di Virologia oncologica, prima cattedra in Italia - trovai tutti i miei colleghi. Erano stati precettati. E non potevano lasciare l' ospedale per questioni di sicurezza». 
Che situazione trovò?
«L'allarme era maggiore nella popolazione che nella struttura ospedali era. Ricordo che arrivò 1'allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone per visitare i colerosi. Qualche collega pensò bene di mettergli una benda alla bocca per proteggerlo dal vibrione. La foto del presidente sulla copertina del "Time Magazine" fece il giro del mondo. Ma fece ridere il mondo sanitario dell'intero pianeta: il virus, infatti, è una malattia gastroenterica. La benda si mette per quelle a diffusione respiratoria. E il vibrione non salta. Diciamo che fu un eccesso di zelo». 
Quanti erano i colerosi al Cotogno?
«Quando arrivai ce n’erano alcune decine. La mortalità, comunque, fu del dieci per cento, sette-otto casi se non ricordo male. ma percentuale fu comunque alta se si considera che in Bangaldesh è dell'uno per cento. Ciò che spaventò, comunque, in quei giorni, fu la psicosi generata nella popolazione. Una paura atavica dalle nostre parti. Eppure il vibrione è uno degli agenti di malattia infettiva più labile che esiste. È facilmente controllabile sotto l'aspetto igienico. L'intervento principale, infatti, consiste nel curare soprattutto la disidratazione sia con flebo che per via orale». 
Ma venne poi accertato che erano le cozze all' origine dell'epidemia?
«Le cozze "incriminate" provenivano dalla Tunisia. Fu in quei mitili giunti dal Nord africa, infatti, che venne intercettato l’inquinamento dal vibrione del colera. In particolare quelle cozze avevano assunto il vibrione dagli scarichi fognari. Per questo nei giorni del colera a Napoli venne vietato l'uso della fauna marina. Ricordo che in un noto ristorante napoletano uno chef mi servì petali di garofano al posto delle vongole».
C'è la possibilità di una nuova epidemia?
«Tendo ad escluderlo. Potremmo forse registrare qualche caso singolo di qualcuno che viene contagiato in un altro paese e arriva da noi con la malattia. Ma, ripeto, tendo ad escludere nuove epidemie. Peraltro il vibrione è sensibile all'acqua bollente. La cozza se fatta bollire e assolutamente innocua. li vibrione, insomma, è talmente fragile che anche l'esposizione al sole può distruggerlo». 
L’emergenza rifiuti, lo stato di degrado igienico possono innescare altre malattie nella nostra città, nella nostra regione? 
«Le salmonellosi sono il pericolo più immediato. Ma la vera preoccupazione sono le malattie generate dall' inquinamento dell'acqua. Ed è questo un problema che interessa più la provincia, il cosiddetto "triangolo della morte" ;vale a dire Marigliano-Nola-Acerra». 
Quali sono i pericoli? 
«Malformazioni nei neonati, tumori». 
Lei ha raccontato quella sua esperienza in un libro? 
«Sì. Realizzai una specie di epicrisi sulla situazione di cui eravamo stati testimoni. Una pubblicazione dal titolo: «Condizioni igieniche e sanitarie di una città dolente». Quel mio lavoro corredò il famoso «Libro bianco della Campania» del 1977 . 
Qualche anno dopo, però, pure vennero registrati dei casi, non è vero? E in città ritornò la psicosi!
«Si trattò di una "bufala" . Ricordo che all' epoca il ministro della Sanità era De Lorenzo. La notizia venne smentita. Stroncata senza mezzi termini. Infatti non era vera. Ma la paura ritornò nei napoletani. E ci volle molto per convincerli che il colera non era ritornato». 
I meriti del Cotugno in quella drammatica vicenda vennero riconosciuti dal mondo scientifico. Perché ? 
«Innanzitutto il merito più grande del nostro ospedale fu quello di aver isolato il vibrione. Comunque il successivo "male oscuro" fu decisamente un evento più grave». 
Il "male oscuro"? Ce lo ricorda brevemente? 
«Mi riferisco alla viro si respiratoria denominata virus sinciziale che fece una ottantina di vittime tra i bambini. Ebbene allora ci vollero quattro mesi per capire di cosa si trattava. Era il 1979. Per questo venne denominato "il male oscuro"». 

prime pagine dell'epoca

Goffredo Fofi


Su quei giorni terribili interessante la testimonianza di Goffredo Fofi.
Quando scoppiò il colera, a Napoli, in quell’agosto del 1973, Goffredo Fofi c’era già da qualche mese. Deluso dalla deriva violenta del movimento del Sessantotto a Milano, era tornato all’amato Sud (dopo le giovanili lotte in Sicilia sulle orme di Danilo Dolci che l'avevano spinto a lasciare la sua Gubbio a diciott' anni), stabilendosi questa volta all'ombra del Vesuvio. Qui, con Fabrizia Ramondino, compagna di Lotta Continua come Cesare Moreno e Geppino Fiorenza e un’ area cattolica del dissenso che faceva capo alla parrocchia del Vomero di padre Dini, partecipò, proprio nell'anno dell'epidemia del colera, all'esperienza della Mensa dei bambini proletari di Montesanto, che aggregò attorno a, se gran parte della «meglio gioventù» partenopea. Intellettuale engagé, come Si sarebbe definito un tempo, una vita dedicata all'impegno sociale, Fofi - saggista, critico letterario e cinematografico - ricorda oggi il colera a Napoli, dopo quarant'anni, come un evento che fece emergere allo stesso tempo il peggio e il meglio della città. A quella epidemia dedicò, insieme con Cesare Moreno e Gennaro Esposito, anche un instant-book edito da Feltrinelli e intitolato «Anche il colera. gli untori di Napoli», raccogliendo interviste e testimonianze.
Fofi, quali apparvero ai suoi occhi, mentre Napoli viveva il dramma del colera, le vere cause dell'epidemia?
«Sappiamo che lo Stato dette la colpa di tutto al mitili, che furono usati come capro espiatorio dell'epidemia. Santa Lucia fu assediata da forze militari di aria, terra e mare che ebbero l’ordine di distruggere tutti gli allevamenti di cozze, sia quelli legalizzati che quelli abusivi, con grande danno per l'economia del quartiere. Per me invece fu chiaro da subito che le vere cause erano nel sistema fognario della città che versava m condizioni disastrose». 
Era un sistema fognario che risaliva all'epoca borbonica. Si trattava di fogne a cielo aperto.
«Assolutamente sì. Era merda che passava sotto gli occhi. Mi ricordo che con il fotografo Tano D'Amico girammo tutti i Regi Lagni della zona, fogne scoperte che convogliavano gli scarichi verso la costa. Ci infilammo in alcuni di questi posti con un certo tremore, per fotografarli». 
Dunque le condizioni igieniche della Napoli di quegli furono la causa principale dell'epidemia? «Era evidente a chiunque vivesse a Napoli. La mortalità infantile era altissima, il sovraffollamento nelle case in alcuni quartieri del centro, e soprattutto nelle periferie, come Ponticelli, o il Rione Traiano, era tremendo, a livelli del terzo mondo. All'epoca avevo letto, ovviamente, «La peste» di Camus, e mi ricordo la viva impressione che provavo nel vedere a Napoli gli stessi topi morti ai lati dei vicoli descritti nel romanzo. Non era la peste, certo. Ma era arrivato il colera». 
Cos'altro ricorda di quei mesi? 
«L'ossessione per l’amuchina. Era diventata una specie di toccasana: tutto si doveva lavare con l’amuchina, seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie. E poi ricordo alcune scene che vedevo dal terrazzino di casa mia, una soffitta a salita Tarsia che affacciava sull'Ospedale Gesù e Maria, che accoglieva i sospetti infettati dal vibrione. Vedevo le fila dei parenti che dalla strada parlavano con i ricoverati, come se fossero dei carcerati». 
Al Cotugno, invece, l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, in visita agli ammalati, non trovò niente di meglio da fare che il gesto scaramantico delle corna per scongiurare il pericolo. Che impressione le fece all'epoca quel gesto?
«Fu un gesto che fece il giro del mondo. Non l'avevo mai visto fare in quel modo, a parafulmine: cioè con la mano sinistra alzata verso il cielo e la destra per scaricare a terra le energie negative. Fu il simbolo del modo fatalista con cui le autorità ed una certa cultura potevano affrontare un evento come quello». 
In quei giorni si scatenò, inevitabilmente, anche la caccia all'untore. 
«Questo perché lo Stato non volle assumersi la responsabilità dell'arretratezza in cui versavano - Napoli e tutto il Meridione. A un certo punto si disse pure che c’era la possibilità che a portare l'infezione fossero stati i rimpatriati dalla Libia cacciati da Gheddafi. E si disse che non era stata disposta la quarantena perché c'era un'attenzione mediatica elevata per il dramma degli italiani libici. Senza pensare, poi, che proprio l’epidemia di colera era destinata a colpire l'immaginario internazionale in maniera impressionante». 
E la città, invece, come affrontò l'epidemia?
«Mi colpì soprattutto la reattività. La città reagì. E per fortuna alla fine il numero dei morti non fu elevato. Sarebbe potuto andare molto peggio. Noi della Mensa dei bambini proletari mettemmo in campo tante energie. Si organizzò nel quartiere un presidio sanitario con molti giovani medici volontari, tra cui i fratelli Greco, per fare le vaccinazioni. La mensa fu l'immagine simbolo della Napoli migliore, quella che seppe dare una risposta interclassista di mobilitazione e solidarietà, alla quale parteciparono sottoproletari, proletari, operai, borghesi, alto borghesi e perfino nobili. Anche la sinistra giovanile trovò un'unità rara di coordinamento, che permise anche di boicottare il comizio che Giorgio Almirante voleva fare in quei giorni a Pozzuoli con chiari intenti eversivi. Fu questo tipo di solidarietà emersa in quei giorni tra la nuova sinistra e una certa borghesia intorno ai problemi sociali di Napoli a portare poi alla giunta Valenzi, che aprì un nuovo capitolo nella storia di Napoli».
Vorrei chiudere con un ricordo personale. Nel 1973 lavoravo a Cava De’ Tirreni e nel giorno delle vaccinazioni, nella piazza antistante l’ospedale si radunò una folla di oltre 5000 persone, mentre noi avevamo poche centinaia di dosi. I colleghi furono presi dal panico, ma io non persi il sangue freddo e feci incetta di tutti i flaconi di fisiologica e di glucosata di cui disponeva il nosocomio. I primi 500 furono vaccinati, gli altri 4500 si dovettero accontentare di un placebo!!

vaccinazioni


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