Quando ero ragazzo facevo i bagni a Lucrino, al Lido Napoli e verso l’ora di pranzo, mi spingevo verso la spiaggia libera, dove, salendo alcuni gradini si trovava la casa di un vecchio artigiano, il quale, appena mi vedeva, mi salutava togliendosi il cappello e mi invitava ad entrare: “vuoi favorire?” Accompagnato da un sorriso affabile.
Non mangiava mai né carne, né pesce, ma sempre un’insalata mista: cipolle, basilico, peperoni, qualche oliva, qualche acciuga, ma soprattutto pomodori, tanti, tantissimi pomodori che stesso lui produceva nei pochi metri quadrati che circondavano la sua casetta, in compagnia di tre secolari alberi di ulivo.
Con grande pazienza rubava la terra ai sassi, rafforzava muretti, livellava il terreno, sbriciolava zolle, piantava canne ed annaffiava, con parsimonia, i suoi amati pomodori.
Per lui il pomodoro costituiva il cibo più prelibato, non la salsa, né la pasta o il riso, che considerava eccessi da signori, ma da solo, puro, con un po’ d’olio e un po’ di sale.
Il pomodoro è il frutto supremo del Mediterraneo, indorato, accarezzato dai raggi del sole, che favoriscono lo sviluppo della polpa, sostanziosa, in cui affondare i denti, la pelle delicata, i semi, il profumo, il colore rosso come il fuoco. Mangiandolo si può assaggiare il sapore del sole, trasformato per incanto in una pianta.
Insieme al cattolicesimo, ha costituito l’essenza della nostra civiltà mediterranea, stemperando gli eccessi ascetici della religione, invocando indulgenza per i nostri peccati, non solo di gola, ricordandoci che noi siamo, in primo luogo, dei corpi.
Oggi i pomodori di una volta non esistono più, quelli che vengono portati a tavola, in qualsiasi regione, hanno quasi tutti la stessa forma, mentre il vero pomodoro ha forme diverse, complicate, con spaccature e screziature multiple e talvolta generose espressioni barocche, che tanto piacevano ai pittori napoletani del seicento, tanto abili nel trasfonderli sulla tela da farci percepire il gusto saporoso.
Con la fine del pomodoro tradizionale abbiamo perso molto più di quanto immaginiamo, una volta la polpa, il succo ed il colore entravano nel cervello, irrorandolo, come il pomodoro veniva irrorato e penetrato dal sole.
Dobbiamo consolarci al pensiero che, sull’altra sponda del Mare Nostrum, dalla quale oggi ci dividono anacronistici scontri di civiltà, pomodori eccellenti come quelli di una volta, vengono coltivati nelle oasi del Sahara, vicino alle palme. Lì per fortuna l’acqua è poca, le rare sorgenti scorrono pigramente, per inabissarsi tra le profondità del deserto.
L’Italia è tra i massimi produttori dell’oro rosso, ma consumiamo gran parte di ciò che nasce dalle nostre fertili terre, specie al Sud.
L’Olanda è la maggiore esportatrice, nel 2012 ne ha venduto all’estero per quasi 2 miliardi di euro, nonostante il terreno destinato alla coltivazione è di soli 1700 ettari, a fronte delle superfici italiane di 16.000 ettari, mentre quello da inscatolare supera i 75.000.
Fino alla metà dell’ottocento i maccheroni e gli spaghetti si mangiavano solo in bianco, cosparsi di formaggio. Quando si cominciò ad operare la salsa, sorse la difficoltà delle forchette, le quali avevano solo tre denti ed afferravano la pasta facendo scivolare il condimento. Perciò incoraggiato da Ferdinando II di Borbone, il ciambellano di corte inventò una forchetta a quattro rebbi, molto più efficace.
Prima dell’arrivo della salsa di pomodoro, per dare un sapore aspretto ai sughi si adoperavano le arance.
Cirio, il primo a mettere i pomodori in scatola, nel 1856, fu Francesco Cirio, manovale piemontese di Nizza Monferrato. Impiantò un’industria a Torino nel 1867 e presentò i suoi prodotti all’Esposizione Universale di Parigi e iniziò a esportare in tutto il mondo (il re Umberto I gli diede la “Commenda della Corona d’Italia”). Nel 1981, però, l’azienda fallì provocando il crollo del Credito Mobiliare, principale finanziatore. Francesco Cirio allora emigrò a Napoli e nel 1894 aprì la nuova sede a San Giovanni a Teduccio. Nel 1990, anno della sua morte, l’azienda da lui fondata, era la più importante d’Europa.
Negli Stati Uniti, gli americani tassavano la verdura ma non la frutta, fatto che aveva acceso una disputa intorno alla vera natura del pomodoro. Così il 10 Maggio 1893, la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che il pomodoro era una verdura e, in base alla cosiddetta «legge bastarda» del 1893, andava tassato al 10%. Sentenza sbagliata, i pomodori, essendo il prodotto della fecondazione dell’ovario, rientrano in pieno nella definizione botanica di «frutto».
Attraverso tecniche d’ incrocio delle specie e combinando differentemente il licopene e la clorofilla presente sulla buccia, si sono ottenute colorazioni diverse: pomodori di colore marrone scuro (Nero di Crimea), verde-avorio (Green Zebra), rosso- arancio con striature bianche (Tigerella) e viola (Sun Black).
Nei laboratori dell’università della Florida, a Gainesville, è nato il pomodoro perfetto: rosso intenso, profumato, saporito e resistenti agli effetti deleteri della refrigerazione e del trasporto. I ricercatori hanno prima centrifugato i vari tipi di pomodoro coltivati nelle serre americane, ne hanno estratto i composti aromatici e li hanno quantificati e classificati. In seguito hanno sviluppato ibridi che esaltassero al massimo il meglio, riducendo al minimo il peggio.
Harry J. Klee, responsabile dell’èquipe di ricerca, è convinto che tra 4-5 anni il prodotto sarà pronto per la coltivazione a fini commerciali.
In conclusione mi permetto di avanzare una timida proposta. Non vi è da qualche parte un audace imprenditore, capace di far rinascere i pomodori? Non ci vogliono grossi capitali, soltanto semi eccellenti, poca acqua, tanto sole, diligenza, attenzione e tanto tanto amore.
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