lunedì 8 luglio 2013

Quattro inediti di pittura napoletana


Aggiunte ad Elena Recco, Francesco Fracanzano, Aniello Falcone e Francesco De Mura


La pittura di genere, il paesaggio e, in particolare, la “Natura morta” ebbero a Napoli, nel seicento, grande sviluppo. Tema privilegiato dell’indagine naturalistica di pittori fiamminghi e caravaggeschi, la natura morta subì, nella pittura napoletana, una sorta di trasposizione in chiave barocca, con graduale passaggio dall’effetto di ammirazione per la fedeltà oggettiva della rappresentazione a quello di stupore e meraviglia per la fantasia dell’invenzione compositiva.
Specialisti del genere della natura morta furono, tra i primi, Luca Forte (Napoli 1610/15-prima del 1670) e Paolo Porpora (Napoli1617-1673) che dipinse tavole con ricche composizioni di ortaggi, fiori e frutta e più tardi a Roma (1656-1658), anche insetti e rettili, dai colori vivissimi su fondi di ombra cupa.
Di gusto pienamente barocco, nella fantasia ed esuberanza delle composizioni, nel più graduato dosaggio di luci e penombre, sono le nature morte di Giovanni Battista Ruoppolo (Napoli1620?-1685), veri e propri trofei di vegetali e di animali marini, soggetto quest’ultimo prediletto anche da Giuseppe Recco (Napoli 1634-Alicante 1695), Figlio e, come il Ruoppolo, padre di altri pittori di nature morte, che si recò anche il Lombardia, acquistando un cromatismo raffinato e un chiaroscuro che ha fatto parlare di neocaravaggismo.
Giuseppe ebbe due figli Nicolamaria, autore di tele modeste, quasi una caricatura dello stile paterno, ed Elena, che, molto lodata dal De Dominici, dimorò a lungo in Spagna, dove trovò lavoro alla corte del Re Carlo II.
Per identificare le tele di Elena, spesso fatte passare da antiquari spericolati per opere di Giuseppe, le quali godono di una maggiore quotazione, esiste un segreto: bisogna attentamente osservare le squame dei pesci, caratterizzate costantemente da una tonalità virante dal rosa al rosato, come possiamo constatare nella tela in esame (fig.1) un vero e proprio trionfo marino nel quale distinguiamo triglie, razze, un polipo, un cesto di vimini, posti su un piano di pietra.

Figura 1: Elena Recco - trionfo marino

Il quadro è stato presentato di recente (maggio 2013) in un’asta della “Minerva Audiction” a Roma, correttamente attribuito e con una scheda esaustiva di Valentina Ciancio: «La presente attribuzione si basa su confronti stilistici con altre opere di Elena Recco, a partire dal dipinto firmato raffigurante un trionfo di pescato al castello di Donaveschingen in Germania, da cui sembra ripresa per analogo taglio compositivo, seppure in formato ridotto, la razza nel dipinto in esame. I riflessi argentei e grigio azzurri alternati alla particolare tinta rosata delle squame dei pesci e alla guizzante torsione dei loro corpi sono tutti aspetti che denunciano la mano abile dell’artista, che sa restituire la freschezza e l’abbondanza dei doni del mare».
Di ben maggiore valore venale è la seconda opera che andiamo ad esaminare: un olio su tavola (46x36 cm) raffigurante un San Pietro in preghiera (fig.2) di proprietà dell’antiquario Monsonego di Parigi, il quale richiama a viva voce la paternità di Francesco Fracanzano, allievo assieme al Fratello Cesare, nella bottega del Ribera.

Figura 2: Francesco Fracanzano - San Pietro in preghiera



Francesco originario della Puglia si trasferì giovanissimo a Napoli nella terza decade del Seicento e la sua prima opera documentata è un SS. Onofrio e Antonio Abate, già nella chiesa di Sant’ Onofrio dei ciechi.
Il santo in preghiera ha avuto in passato attribuzioni a Paolo Finoglio, del tutto errata e, più plausibile a Hendrick Van Somer, un fiammingo attivo a Napoli dopo il 1630 ed influenzato dagli esempi naturalistici di Ribera. Ma un esame più attento e la comparazione con figure simili di santi, illustrate nella mia monografia sull’autore, alla quale rimando, per gli opportuni confronti, non lasciano ombra di dubbio.
L’attenta definizione di ogni dettagli anatomico, la minuta lacrima, resa con preziosità caravaggesca, le mani giunte dalle unghie sporche, la pelle rugosa e la barba incanutita, sono particolari, appresi dal Fracanzano nella bottega del Valenzano e costituiranno la cifra stilistica lungo tutto il corso della sua carriera.

Figura 3: Aniello Falcone - battaglia di Poitiers



Una vera e propria sorpresa e di altissima qualità è il terzo dipinto, proposto alla mia attenzione da un celebre banchiere milanese e raffigurante la: “Battaglia di Poitiers” (fig.3) del 732, nella quale il Franco Carlo Martello fermò l’invasione degli Arabi, i quali avevano attraversato i Pirenei.
Fu un’impresa militare costosa , di cui fecero le spese gli usurai fiorentini che avevano finanziato Edoardo III d’Inghilterra.
Si tratta di uno dei capolavori di Aniello Falcone e presenta contemporaneamente quasi tutti gli aspetti patognomici della sua pittura, dalla scena principale ripresa in primo piano, alle montagne in lontananza con il caratteristico polverone, dal morto al centro in basso, al bianco cavalo rampante, il tutto reso con una tavolozza dai colori accesi ed emozionanti, come nella celebre battaglia conservata a Napoli nel museo di Capodimonte, un’aggiunta importante al catalogo dell’artista.
Pittore ammirato e celebrato anche fuori d’Italia, sebbene abbia trascorso l’intera sua lunga e operosa vita a Napoli, Francesco Solimena, detto l’Abate Ciccio (Canale di Serino 1657-Barra Napoli 1747) è da considerarsi il caposcuola della pittura napoletana del Settecento. Più che da Luca Giordano, Solimena, che apprese l’arte nella bottega paterna, guardò fin dall’inizio alle opere del Lanfranco da cui desunse il saldo modellato delle sue figure, e di Mattia Preti, al quale si ispirò invece nella ricerca dei contrastati effetti luministici. Con il Luca Giordano si confrontò invece nelle grandi imprese decorative, come le pitture della sagrestia di San Paolo Maggiore(1689-1690), rivelando tutto il suo talento di organizzatore di grandiose scenografie architettoniche (Solimena fu anche architetto), che si manifesta anche in dipinti di minori dimensioni (Elidoro cacciato dal tempio, Roma, Galleria Nazionale). Dopo un viaggio a Roma, dove ebbe contatti con il Maratta ed altri esponenti della corrente classicista, Solimena consolidò in quella direzione il suo stile, eseguendo opere come la “Cacciata di Eliodoro” (1725) nella Chiesa del Gesù nuovo e gli affreschi della Cappella di San Filippo Neri ai Gerolomini (1727-1730), che rimarranno esemplari per i suoi numerosi allievi e seguaci. Tra questi primeggiarono Corrado Giaquinto, Sebastiano Conca, il quale lavorò a Roma in ambiente classicistico, a Torino, e poi volgendo a modi giordaneschi, col suo rientro a Napoli nel 1751. Ma soprattutto Francesco De Mura (Napoli 1696-1782), il più fedele, almeno agli inizi, allo stile del maestro, autore di vasti cicli di affreschi a Montecassino (perduti) ed a Napoli. 

Figura 4: Francesco De Mura - San Francesco Di Paola



Un notevole inedito, proposto alla Vostra attenzione, è un San Francesco di Paola (fig.4) della collezione Jorio di Cosenza, il quale, con un corteo di angioletti che lo guarda con benevola ammirazione, appare in profonda meditazione con gli occhi rivolti al cielo, alla ricerca di ispirazione, mentre le mani incrociate in preghiera con le dita ossute sembrano indicare una tabella con la scritta charitas.
Questo dettaglio, apparentemente secondario, ci permette viceversa di avanzare il nome di Francesco Di Mura come autore della tela, tanto sorprendente è la somiglianza nella articolazione delle dita con il “Beato Francesco De Girolamo” (fig.5), conservato nella quadreria del Pio mnte della Misericordia, facente parte del lascito del pittore alla sacra istituzione e che Raffaello Causa datava al 1758.

Figura 5: Francesco Di Mura- beato Francesco De Gerolamo



A differenza di un’altra parte della produzione del De Mura, più delicata e dalla tavolozza densa di preziose tessiture cromatiche il “San Francesco di Paola”, come il “Beato De Gerolamo”, è espressione di una ritrattistica attenta alla definizione del dato naturalistico, in sintonia con la lezione caravaggesca, rivisitata e propagandata per decenni a Napoli dal Ribera.
Le dimensioni ridotte del dipinto fanno propendere per una destinazione di devozione domestica e proprio questa particolarità  permette di istituire ulteriori raffronti con il “Sant’ Agostino Cardioforo” (fig.6) sempre conservato nella quadreria del Pio Monte e con un’altra versione del “San Francesco di Paola” (fig.7) fatta conoscere da Gianni Bozzo, caratterizzata da una spiccata luminosità delle vesti, a dimostrazione della varietà espressiva dell’artista.


Figura 6: Francesco De Mura- Sant Agostino Cardioforo



Figura 7: Francesco De Mura- San Francesco Di Paola



BIBLIOGRAFIA
della Ragione – Aniello Falcone opera completa – Napoli 2008
della Ragione – La natura morta dei Recco e Ruoppolo – Napoli 2009
della Ragione – Francesco Fracanzano opera completa – Napoli 2011
della Ragione – La pittura napoletana del Seicento (repertorio fotografico a colori) tomi I e II – Napoli 2011



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