venerdì 16 giugno 2023

La storia della camorra delle origini

 

Rappresentazione storica
 di un "capintesta" con il corpo tatuato.
Era consuetudine tra i malavitosi l'uso del tatuaggio come segno di distinzione e prova di coraggio

Storicamente la Camorra si organizzò molto prima della mafia siciliana e della 'ndrangheta, deriverebbe dalla Gamurra del XIII secolo, un'associazione di mercenari Sardi al soldo di Pisa. Sulla nascita della camorra esiste anche la fantomatica data del 1820, quando Pasquale Capuozzo che praticava l’estorsione, promosse una riunione segreta nella chiesa di Santa Caterina a Formello nel cuore di Napoli. In quella specifica occasione si dovevano decidere le regole per “fare camorra” e regolamentare un gruppo di delinquenti e cani sciolti così Capuozzo fu nominato dunque il primo capintesta della città.
Quel che è certo è che l'embrione dell'organizzazione venne varato subito dopo la fallita rivoluzione partenopea del 1799, tra il 1810 e il 1820. A dimostrazione della sua primogenitura tra le altre organizzazioni mafiose, va segnalato che il termine "Camorra" era presente già nelle Procedure per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle province infettate, meglio note come legge Pica, nel 1863: il termine "mafia" entrò nel codice penale solamente con la legge n.575 del 31/05/1965 "Disposizioni contro la mafia", approvata dopo la Strage di Ciaculli.
Risale invece al 1842 uno statuto a firma di un certo Francesco Scorticelli, in cui si parla della camorra come "Bella società riformata". Il prototipo del "mafioso" della famosa commedia "I Mafiusi della Vicaria" del 1863 era ricalcato inoltre su un camorrista realmente esistito che spadroneggiava nelle carceri borboniche e "camurrìa" in dialetto siciliano significa proprio "fastidio, impiccio".
Negli anni della Restaurazione borbonica, subito dopo il Congresso di Vienna, la Camorra si diede un'organizzazione che prevedeva tre livelli gerarchici: picciotto, camorrista e capintesta. L'aspirante camorrista, prima di poter intraprendere questo particolare cursus honorum, era chiamato "tamurro". Ogni quartiere di Napoli, suddiviso a sua volta in "paranze", aveva un "caposocietà", per un totale di dodici: questi, a loro volta, eleggevano un "capintesta" generale della Camorra, ruolo che per molti anni fu egemonizzato dalla famiglia Cappuccio del quartiere della Vicaria. Ogni capo della Camorra poteva fregiarsi del titolo di "Masto" (Maestro, Padrone). La medesima struttura era presente anche nell'area ristretta tra Caserta, Marcianise e Santa Maria Capua Vetere (allora chiamata Terra di Lavoro), ma il capintesta veniva eletto solo tra i capisocietà di Napoli. I comuni, anche capoluoghi di provincia, erano equiparati ai quartieri di Napoli ed eleggevano un solo caposocietà.
Per entrare a far parte della Camorra bisognava rispondere a criteri precisi: a mero titolo d'esempio, erano esclusi dall'affiliazione gli omosessuali passivi e chiunque avesse una moglie o una sorella prostituta (anche se quest'ultimo divieto era il più frequentemente disatteso). La prova di coraggio con la quale si stabiliva l'idoneità del candidato consisteva o nell'esecuzione di un omicidio o nello sfregio di uno dei nemici dell'organizzazione. Gli sfregi col rasoio erano in particolare la punizione per chi infrangeva il codice d'onore, sia che fosse affiliato o che non lo fosse. Una volta giudicato idoneo, il candidato doveva pronunciare un giuramento di fronte a due coltelli incrociati e combattere in un duello all'arma bianca contro un camorrista estratto a sorte. I duelli con il pugnale erano il rito di passaggio da un grado all'altro nella gerarchia criminale: raramente erano duelli all'ultimo sangue, avevano uno scopo prevalentemente cerimoniale. Il pugnale restava comunque l'arma preferita del camorrista per compiere i propri delitti. 

 

Volti sfregiati con il rasoio 
 il rasoio era l'arma preferita dai camorristi 


Come criminalità urbana, la camorra esercitava la sua principale attività, l'estorsione, soprattutto nelle carceri, vero luogo di reclutamento dell'organizzazione: qualsiasi attività ed eventuale disponibilità materiale del detenuto era "tassata" del 10%. Altri fronti delle attività camorristiche erano i mercati (dove veniva imposta una percentuale sulla vendita di farine, creali, frutta, pesce, carne etc.) e le case da gioco, nonché la prostituzione. A Napoli in pratica non vi era attività commerciale che non prevedesse il pagamento di una tangente alla Camorra. L'addetto agli affari economici e finanziari dell'organizzazione era il "contarulo", nominato da ciascun capososcietà alla gestione del "barattolo", dove finivano tutti gli introiti delle estorsioni.
Ogni quartiere, inoltre, aveva un suo tribunale, che si chiamava "Mamma": il tribunale supremo della città era la "Gran Mamma", presieduto dal capintesta, che in quella funzione assumeva il titolo di "Mammasantissima". Del resto, la stessa polizia borbonica assicurava impunità in cambio di tutela dell'ordine pubblico da parte della Camorra, che dopo la fallita insurrezione liberale del 15 maggio 1848 venne impiegata anche per raccogliere informazioni sulle manovre degli oppositori politici al governo borbonico.
Secondo quanto raccontato da Monnier, a metà degli anni Cinquanta il "Comitato d'Ordine" (gruppo clandestino di cospiratori patriottici anti-borbonici) strinse un accordo con la Camorra, nell'illusione di conquistarne i favori e dirigerla verso la causa dell'Italia unita: i termini dell'accordo imposti dai capi camorristi della città erano che il Comitato avrebbe dovuto versare la somma di 10mila ducati a ciascun caposocietà. Una volta ricevuto il denaro, la Camorra si preoccupò più di ricattare i patrioti, estorcendo loro altro denaro, piuttosto che organizzare "la rivolta patriottica" promessa.
Tutto ciò almeno fino al novembre 1859, quando lo Stato borbonico ordinò una grande retata di camorristi, spedendone parecchi sulle isole-prigione al largo della costa: questo, insieme ai successi in Sicilia del maggio 1860 di Garibaldi, indussero la Camorra ad abbandonare a se stesso il Regno delle Due Sicilie e a schierarsi con la causa patriottica definitivamente. Non per convinzione, ma per mantenere intatti i propri traffici criminali. Tanto che il ministro borbonico dell'Interno Liborio Romano invitò a casa sua il capintesta Salvatore De Crescenzo (Tore 'e Criscienzo), proponendogli di trasformare capisocietà e picciotti rispettivamente in commissari/ispettori di polizia e in guardie cittadine, in modo da garantire l'ordine pubblico nell'imminente arrivo a Napoli di Giuseppe Garibaldi. La nuova legittimazione in città permise ai camorristi di fare il bello e il cattivo tempo nel periodo di transizione al nuovo regime liberale.
Quando infatti il 7 settembre 1860 Garibaldi arrivò a Napoli, fu accolto da una folla straordinaria di persone, da bande musicali e dai tricolori italiani, sventolati dai camorristi stessi che fino a qualche mese prima militavano convintamente nelle fila borboniche. Camorristi che sfruttarono l'autorità temporanea incaricata di governare il Mezzogiorno in nome dell'eroe dei due Mondi per massimizzare i propri traffici criminali, in particolare l'estorsione e il contrabbando. Le dogane furono espropriate dei loro balzelli, che finirono nelle casse della Camorra: al grido "è roba d'o zi Peppe  (Giuseppe Garibaldi). Lasciate passare!", i camorristi esclusero dalla riscossione dei dazi l'autorità pubblica. Le cose andavano talmente bene per l'organizzazione criminale, che domenica 21 ottobre 1860 il sì al referendum per l'ingresso nel Regno d'Italia ottenne un plebiscito tale che la piazza dove si svolsero i festeggiamenti fu chiamata proprio Piazza del Plebiscito.
A risanare le istituzioni pubbliche e a riportare l'ordine a Napoli fu il patriota Silvio Spaventa, veterano delle galere borboniche e profondo conoscitore della Camorra. A poche settimane dal suo insediamento come nuovo ministro dell'Interno del Regno d'Italia, Spaventa non solo ottenne l'estensione delle disposizioni della Legge Pica contro il brigantaggio anche ai camorristi, ma autorizzò il 16 novembre 1860 il prefetto di polizia Filippo De Blasio, coadiuvato dai neocommissari Capuano e Jossa, a compiere una vasta operazione volta a reprimere il contrabbando, utilizzando i carabinieri e le guardie nazionali: in ventiquattro ore oltre 100 camorristi finirono in carcere. L'opera di risanamento di Spaventa si interruppe a seguito di uno scandalo che lo costrinse alle dimissioni: nel luglio 1861 un alto funzionario di polizia, Ferdinando Mele, venne pugnalato a morte dietro l'orecchio in pieno giorno; già camorrista e reclutato nella polizia ai tempi di Romano, Mele era stato ucciso da Salvatore De Mata, un delinquente non affiliato alla Camorra, desideroso di vendetta per l'arresto del fratello. Arrestato, venne fuori che De Mata, già guardia del corpo di Spaventa, aveva ottenuto da lui un posto alle Poste, dove non si presentava mai. Al suo posto arrivò il generale Enrico Cialdini, che attenuò decisamente il fervore anti-camorristico del suo predecessore.
Cacciato da Napoli, Spaventa divenne viceministro dell'Interno a Torino l'anno successivo, ottenendo che la nuova commissione parlamentare d'inchiesta sul cosiddetto "Grande Brigantaggio" si occupasse anche di Camorra: il risultato fu l'istituzione nell'agosto 1863 della legge sul domicilio coatto, per la quale era possibile il trasferimento di qualsiasi persona considerata sospetta in uno dei bagni penali situati nelle isole al largo della costa italiana. Il risultato fu tutt'altro che soddisfacente: i camorristi, lungi dall'essere impossibilitati dall'esercitare la loro funzione criminale in carcere, lo trasformarono in un vero e proprio luogo di reclutamento e iniziazione, come già avevano fatto sotto i Borboni.
Nonostante il clima di belligeranza del nuovo Stato liberale, la Camorra continuava ad operare a Napoli e Provincia. Fino al 6 giugno 1906, quando furono uccisi Gennaro Cuocolo, basista di furti di appartamenti, e sua moglie Maria Cutinelli, ex-prostituta. Ucciso sulla spiaggia di Torre del Greco per essersi appropriato della parte di bottino spettante ai complici finiti in carcere, il caso fu l'occasione per celebrare a Viterbo un "maxi-processo" alla Camorra napoletana che, in assenza di qualsiasi tutela liberale, si concluse con la condanna di oltre 30 pezzi da novanta della Camorra. Fu così che la sera del 25 maggio 1915, nelle Caverne delle Fontanelle, nel popolare rione Sanità, l'organizzazione venne sciolta dai superstiti, presieduti da Gaetano Del Giudice.

Imputati del processo Cuocolo
Il maxiprocesso di Viterbo
 che nel 1912 sgominò la camorra 
 

 


Nessun commento:

Posta un commento