giovedì 11 settembre 2014

In libreria l’ultimo libro di Luciano De Crescenzo



Ti porterò fortuna. Guida insolita di Napoli


L’ultima fatica letteraria di Luciano De Crescenzo è un elogio del vernacolo che da secoli si parla all’ombra del Vesuvio.
Lo spunto che fa partire il racconto è costituito da Carla, una studentessa bolognese che, dovendo compilare una tesi sul grande scrittore, vuole conoscerlo e lui la invita per approfondire il suo pensiero a passeggiare con lui per alcuni giorni per le strade ed i vicoli di Napoli.
Si parlerà così di filosofia e di arte di arrangiarsi, citando Diogene e Raffaele il posteggiatore abusivo, Platone e Taniello il principe degli osti partenopei, ma soprattutto si parlerà del dialetto, che si vorrebbe far morire, fortunatamente senza successo.
Tempo fa un europarlamentare napoletano, Enzo Rivellini, ha pronunciato un discorso a Strasburgo, ad una seduta dell’europarlamento, in perfetto vernacolo, scatenando il panico tra gli interpreti e lo stupore dei colleghi. Intervistato dalla stampa internazionale candidamente ha affermato che il napoletano non può essere assolutamente considerato un dialetto, bensì una lingua a tutti gli effetti, con la sua grammatica e la sua letteratura ed, aggiungeremo noi, con un suo patrimonio canoro conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, grazie ad alcuni celebri ambasciatori, tra i quali, negli ultimi anni, il compianto Pavarotti.
La parlata di Basile, di Viviani, di Eduardo non è certo sottocultura, perché essa è stata definita nei secoli da Vico ”lingua filosofica”, da Galiani ”il volgare illustre d’Italia degno degli ingegni più vivaci”, da Croce “gran parte dell’anima nostra” senza parlare della poesia animata da vivacità e fantasia, passione ed amore, in grado di essere intesa anche da chi non ne riconosce correttamente le parole.
Un altro terreno fertile che ci permette di apprezzare la nobiltà del napoletano sono i numerosi proverbi, frammenti di saggezza antica, come li definiva Aristotele, che mettono in evidenza come il napoletano sia una lingua, non un dialetto, con la sua grammatica e la sua letteratura, ma come tutti gli idiomi ha debiti verso le parlate precedenti, principalmente il latino. Per molti proverbi napoletani corrisponde un’antica dizione nella nobile lingua di Cesare e di Cicerone.
Nel folclore napoletano, pregno di filosofia e di sentenze ammonitrici esiste un immenso patrimonio di modi di dire, spesso in rima, frequentemente dedicati alla donna, che rappresentano l’espressione di una civiltà prevalentemente contadina. Questi motti sono assurti a dignità letteraria soprattutto nel Seicento ed affrontano con occhio bonario le infinite sfaccettature dell’esistenza e per la donna esaltano i piaceri ed i dolori della vita coniugale, le tentazioni della carne, il rapporto con i figli ed il marito, il rispetto di un ferreo codice morale. Alcune immagini posseggono un’icastica potenza, mentre il linguaggio, spesso scollacciato e pittoresco, garantisce una meditazione comica ed accattivante. Dagli adagi napoletani traspare, rispetto a quelli toscani, un’impostazione più benevola e meno graffiante ed una maggiore considerazione delle qualità muliebri, dall’illibatezza alla fedeltà, dal maternità alla riservatezza.
La lingua napoletana non è altro che il volgare latino della regione, come il toscano per la Toscana, al quale si sono poi sovrapposte le parlate degli invasori.  Una vera novità, infatti basta sfogliare qualsiasi vocabolario etimologico del nostro vernacolo per constatare come per la maggior parte delle parole sia stata ipotizzata una radice spagnola o francese.
Al fianco dei proverbi, che furoreggiarono nel Seicento, gli indovinelli caratterizzarono il Settecento, secolo della grazia arcadica e della saggezza sottile. Gli autori anonimi di questi indovinelli, sempre segnati da umorismo e spensieratezza, furono più letterati che popolani, ma danno l’esatta misura di quella prorompente fantasia e di quella innocua malizia che ha sempre contraddistinto lo spirito e l’anima immortale della napoletanità.
Ne citiamo qualcuno breve:

“tutt’efemmene ‘a teneno sotta,
chi ‘a tene sana e chi ‘a tene rotta
chi ‘a tene doie dita
chi a tene quatt’ dita” 
(la piega inferiore della veste)

“papa ‘o ‘ntosta  e mamma l’ammoscia” 
(il sacco di farina)

“ tuosto e liscio o calai
cavere e muscio mo tirai
‘ncuorpo mammete so chiavai” 
(il maccherone)

Considerazioni che mettono in evidenza l’importanza delle tradizioni napoletane e che deve ammonirci a conservare il nostro passato e i nostri dialetti, anche se tutti dobbiamo oramai parlare la stessa lingua, con buona pace di Bossi e dei suoi scriteriati colonnelli.
Un’altra caratteristica pregnante del vernacolo è la presenza di molte parole onomatopeiche, cioè termini che già dal suono rendono l’idea dell’oggetto rappresentato, come il cannarone, che dà la chiara sensazione del passaggio dei liquidi o, volendo essere un poco trasgressivi, la osannata pucchiacca, una vera e propria melodia di rumore.
Achille della Ragione

Brunetti Vito - Tarantella

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