venerdì 7 marzo 2014

Un diplomatico di ferro

Renato Ruggiero

Renato Ruggiero, nato a Napoli nel 1930 e spentosi nel 2013 è stato un abile diplomatico, dove ha raggiunto i vertici della carriera, tra cui direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Dedicatosi alla politica è stato più volte ministro.
Laureatosi in giurisprudenza all'Università di Napoli nel 1953, Renato Ruggiero entra in carriera diplomatica nel 1955, ed è subito inviato in Brasile, presso il consolato italiano a San Paolo. Nel gennaio 1959, è assegnato all'ambasciata italiana a Mosca e, nel 1962, all'ambasciata italiana a Washington. Nel 1964 rientra in Italia per ricoprire l’incarico di capo-segreteria della Direzione generale per gli Affari politici del Ministero degli Affari esteri; nel 1966 è cancelliere presso l'ambasciata di Belgrado.
Nel 1969, Ruggiero è inviato a Bruxelles alla rappresentanza italiana permanente presso la CEE. Nel luglio 1970 è Capo di gabinetto del Presidente della Commissione europea Franco Maria Malfatti. In questo ruolo, partecipa ai negoziati che portano all'ingresso nella CEE di Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda. Dopo le dimissioni di Malfatti (giugno 1972), Ruggiero resta per un breve periodo alla Presidenza della Commissione CEE come consigliere politico del nuovo Presidente Sicco Mansholt, per essere poi incaricato della Direzione generale per la Politica regionale della Commissione europea (1973-77). Nel 1977 diviene portavoce di Roy Jenkins, successivo Presidente della Commissione europea, che assiste nei negoziati per il lancio del Sistema monetario europeo. Tra il 1978 e il 1980, Ruggiero rientra a Roma ed è consigliere diplomatico del Presidente del Consiglio dei Ministri e Capo di Gabinetto di due Ministri degli esteri; in tali vesti è tra i negoziatori dell'entrata dell'Italia nel Sistema monetario europeo e si occupa anche di alcune situazioni critiche quali, ad esempio, la cosiddetta "Crisi di Sigonella".
Nel 1980 raggiunge il grado di ambasciatore ed è nuovamente inviato a Bruxelles come rappresentante permanente dell'Italia presso la Comunità europea, sino al 1984. In seguito rientra in Italia, come Direttore Generale per gli Affari Economici della Farnesina (1984-1985) e, per due anni, dal 1985 al 1987, è Segretario generale del Ministero degli esteri, cioè la più alta carica della diplomazia italiana.
Dopo le elezioni politiche del 1987, Ruggiero entra in politica, ed è nominato Ministro del Commercio estero nel Governo Goria (28 luglio 1987-13 aprile 1988), in quota PSI; è confermato al medesimo ministero nei successivi governi De Mita e Andreotti, sino al 12 aprile 1991. Tra il 1991 e il 1995 è responsabile delle relazioni internazionali del gruppo FIAT, e riveste vari incarichi dirigenziali e di consulenza presso società italiane ed europee. Nel 1995 è eletto direttore generale del WTO, con sede a Ginevra, carica che terrà sino al 1999; durante tale periodo promuove la liberalizzazione su scala mondiale delle telecomunicazioni, delle tecnologie informatiche e dei servizi finanziari. In seguito è nominato Presidente dell'ENI e (a settembre 1999) vicepresidente internazionale e Presidente per l'Italia di Schroder Salomon Smith Barney.
L'11 giugno 2001 Renato Ruggiero è chiamato da Silvio Berlusconi a ricoprire la carica di Ministro degli esteri nel suo secondo governo. Tale nomina sorprende favorevolmente gli ambienti politici, sia per l’indiscusso prestigio del neo-ministro, sia per la sua sostanziale indipendenza dai partiti politici. Ma dopo appena sei mesi, Ruggiero rassegna le dimissioni per incompatibilità della sua politica europeista e liberista con il localismo del partito di governo della Lega Nord.
Tra il 2006 e il 2008, Ruggiero ha ricoperto l'incarico di consigliere per la Costituzione europea del Presidente del Consiglio Romano Prodi.
Nei giorni febbrili della doppia moneta, quando l’euro affiancava la lira, il ministro allora più europeo di tutti (per cultura, curriculum, modernità) dovette dimettersi. Finì così, la sera del 5 gennaio 2002, l’avventura di Renato Ruggiero come ministro degli Esteri del secondo governo Berlusconi. Un ministro anomalo e “indipendente” in tutto e per tutto. Non solo come etichetta politica. Il diplomatico di Napoli non era legato a nessuna delle forze politiche allora al governo: Forza Italia, An, Lega Nord e Biancofiore (una delle tante modulazioni dei cristiano-democratici). Mentre era stato in passato legato ai socialisti. Ma indipendente, anche, nel suo attivismo. Che lo portò in un’intervista a lamentarsi, proprio nei giorni in cui i negozi avevano i doppi cartellini (euro-lira) dei troppi euroscettici del governo. Episodio che segnò l’acuirsi di una contraddizione che forse era già la sua presenza in quel governo, durata fino a quei giorni neanche sei mesi.
Ruggiero era un ministro del centrodestra che piaceva al centrosinistra. Un curriculum da diplomatico formidabile: ambasciatore a Mosca e Washington, segretario generale della Farnesina e tra i negoziatori dell’ingresso dell’Italia nel sistema monetario europeo. Era già stato nei governi De Mita, Goria, Andreotti VI come ministro del Commercio estero. Ed era stato anche il direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (il WTO) dal 1955 al 1999, unico italiano a ricoprire questa carica. Si fece preferire - e non era facile – al candidato di Bill Clinton che era l’ex presidente del Messico Salinas. Un incarico in cui ha lasciato traccia (promosse la liberalizzazione di telecomunicazioni, tecnologie informatiche e servizi finanziari) e che di riflesso gli ha conferito un prestigio internazionale che trasferì nel ruolo di ministro degli Esteri, quando Berlusconi lo scelse, nel giugno 2001. Su pressione, o invito – raccontano le cronache dell’epoca – di tanti nomi importanti: il presidente Carlo Azeglio Ciampi, Gianni Agnelli, Henry Kissinger, Berlusconi accettò e gli assegnò l’etichetta di «tecnico», nel senso più riduttivo possibile, e cioè di ministro ininfluente sulla linea del governo. Ruggiero portò nel suo incarico tutta la sua energia e il progetto – che non potè concludere – di una riforma delle carriere diplomatiche. Facendosi carico anche delle incombenze più creative, come quando partì per un tour nei Paesi arabi subito dopo una dichiarazione di Berlusconi sulla «superiorità» del mondo occidentale. Per rassicurare, spiegare, ricucire. E anche le sue dimissioni furono eleganti, e nonostante la delusione non passò all’Ulivo di Romano Prodi. Prima e dopo le esperienze diplomatiche e di governo fu presidente dell’Eni, ed ebbe ruoli chiave nella Fiat come in altri colossi internazionali e a Bruxelles. Ma la sua avventura più “rivoluzionaria” forse fu proprio quella alla guida politica della Farnesina, finita troppo presto. Con Renato Ruggiero scompare non solo un grande ambasciatore, che aveva saputo interpretare la carriera diplomatica nel senso più dinamico e moderno, ma anche un europeista convinto, che con la sua azione permise all’Italia di mantenere il suo percorso in Europa, nonostante le difficoltà frapposte da una classe politica farraginosa e autoreferenziale.
Al di là dei numerosi e prestigiosi incarichi da lui ricoperti al massimo livello alla Farnesina (come segretario generale, capo di gabinetto, rappresentante permanente a Bruxelles presso la Ue), alla Commissione europea (come capo gabinetto del presidente della commissione Malfatti, direttore generale per i fondi strutturali, portavoce di Roy Jenkins) e al Wto come primo direttore generale di quella organizzazione internazionale, e poi ancora come ministro del Commercio estero e ministro degli affari Esteri, mi piace ricordare due episodi che danno la misura della statura, della tempra e delle capacità dell’uomo.
Nel 1978, in pieno governo di unità nazionale, Ruggiero rivestiva l’incarico di coordinatore per quella che allora era la Comunità economica europea e si era riproposto di far entrare l’Italia nello Sme, il sistema monetario europeo, una sorta di anticamera alla moneta unica.
La classe politica in generale vedeva con diffidenza l’ingresso dell’Italia in un sistema di cambi fisso che avrebbe di fatto tolto al governo la leva del tasso di cambio, che consentiva attraverso le cosiddette svalutazioni competitive di assicurare al Made in Italy quote di mercato grazie ad una concorrenzialità fittizia e controproducente. Anche la Banca d’Italia nutriva forti perplessità verso questa scelta e non ne faceva mistero. Ancora più feroce l’opposizione del partito comunista, guidato da Berlinguer, che guardava con sospetto a un’integrazione troppo avanzata dell’Italia in un’Europa considerata ancora come espressione del grande capitale, della grande industria e della finanza.
Ricordo bene come Ruggiero riuscì a convincere Andreotti sulla assoluta necessità di non perdere la grande opportunità che si prospettava per l’Italia con l’ingresso in un sistema monetario che avrebbe aperto la strada alle riforme di cui il Paese aveva bisogno. Ruggiero negoziò le condizioni più favorevoli per l’Italia: una banda di oscillazione più ampia del tasso di cambio, e misure di sostegno all’economia del mezzogiorno. Andreotti si convinse della necessità della scelta ed ebbe il coraggio di affrontare in Parlamento un duro dibattito, che, dopo la scomparsa di Moro, segnò praticamente la fine del governo di unità nazionale.
L’altro episodio significativo fu la sua esperienza come ministro degli Esteri nel secondo governo Berlusconi. Fu chiamato per assicurare la continuità della politica europea dell’Italia. Riuscì a controllare Berlusconi in molteplici occasioni, ma nulla potette contro la rozzezza di Bossi e della Lega che mise a dura prova la sua diplomazia e il suo carattere. Senza attendere più un minuto Riggiero, quando capì che non avrebbe avuto nessuna possibilità di conservare all’Italia una politica decorosa in Europa, dette le sue dimissioni segnalando al Paese e ai partners europei il suo dissenso profondo con le scelte di politica estera di quel governo. Renato Ruggiero ha portato nella diplomazia italiana nuove concezioni e un soffio di modernità.
Cruciale fu anche il suo ruolo per disinnescare la crisi di Sigonella in un momento in cui i rapporti con gli USA rischiavano di deteriorarsi gravemente. Da segretario generale tentò una profonda riforma del ministero, tesa a svecchiare la carriera e a migliorarne la proiezione esterna. Purtroppo i corporativismi incrociati dei sindacati fecero fallire questo importante disegno che avrebbe potuto rappresentare una svolta per il rafforzamento del ministero e della politica estera dell’Italia. Con Ruggiero se ne va un grande commis dello Stato, la cui azione ha segnato profondamente la nostra politica estera, consentendo all’Italia, nonostante la sua classe politica, di preservare il suo ruolo di grande Paese in Europa e nel mondo.
Il più toccante ricordo di Ruggiero è stato quello di un collega di lusso Sergio Romano dalla sua stanza del Corriere della Sera. 
Personalmente ho avuto con lui un rapporto iniziato al ministero degli Esteri e cresciuto sino a diventare vera amicizia a mano a mano che ciascuno di noi prendeva strade alquanto diverse da quella che avevamo cominciato a percorrere più o meno negli stessi anni.
L’ho conosciuto e frequentato soprattutto quando era segretario generale della Farnesina, ministro del Commercio Estero nel governo Goria, vicepresidente della Fiat, direttore dell’Organizzazione per il Commercio internazionale, vicepresidente di una grande banca americana, membro della Trilaterale, ministro degli Esteri per pochi mesi nel secondo governo Berlusconi. Venturini ha ragione quando scrive che il dato comune, in ciascuna di queste incarnazioni, era il suo europeismo. Apparteneva a una generazione che aveva «scoperto» l’Europa sui banchi dell’Università e aveva avuto la buona sorte d’incrociare a Bruxelles, nella rappresentanza italiana e negli uffici della Commissione, i più brillanti esponenti della prima generazione unitaria. Non era uomo incline alle nostalgie e ai rimpianti. Ma so che negli ultimi quindici anni della sua vita, dopo il trattato di Maastricht, rifletteva spesso sulle occasioni perdute, le false partenze, l’europeismo ambiguo e ipocrita di una larga parte della classe dirigente italiana.
Non è difficile immaginare, quindi, le ragioni per cui il suo passaggio alla Farnesina come ministro degli Esteri sia stato travagliato e breve. Ruggiero non poteva ignorare le ragioni per cui il suo nome era stato suggerito a Berlusconi da Giovanni Agnelli e Henry Kissinger. L’ex segretario di Stato americano e il presidente della Fiat si chiedevano, con qualche preoccupazione, quale sarebbe stata la politica estera di un governo popolato da euroscettici, euro fobici, euro-indifferenti. Ruggiero fece del suo meglio per raddrizzare qualche decisione e per spiegare ai suoi colleghi quali rischi l’Italia avrebbe corso se avesse fatto una politica europea tiepida o addirittura ostile. Se ne andò quando capì che la sua permanenza al governo sarebbe stata una ipocrita copertura.
Le sue dimissioni, quindi, non mi sorpresero. E mi piacque in particolare lo stile del suo rifiuto. Altre persone, al suo posto, avrebbero ceduto alla tentazione di sbattere la porta per creare un caso nazionale. Il suo gesto sarebbe piaciuto a una parte dell’opposizione e gli avrebbe probabilmente consentito di prenotare un posto per sé nella politica italiana degli anni seguenti. Ma non era questo il suo modo di concepire il servizio pubblico. Molto tempo prima avevo avuto con Ruggiero un breve dissapore sul ruolo del Sud nella politica italiana. Quando appresi le sue dimissioni dovetti fare ammenda e riconoscere in cuor mio che nel suo modo di uscire dal governo vi erano i tratti della migliore signorilità napoletana.

Ex ministro Renato Ruggiero

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