25/10/2010
Il Sebeto, il Tevere napoletano, come lo chiamava in un eccesso di benevola fantasia Jacopo Sannazaro è stato sempre un fiume fantasma, sconosciuto per gli stessi napoletani. Ricordato dalla splendida fontana barocca di Largo Sermoneta e cantato dai poeti, sorgeva nelle viscere del monte Somma, divenendo già palude nelle campagne di Volla, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio e fertilizzando le terre dei parulari, i quali ringraziavano ‘o ciummetiello per la messe rigogliosa di pomodori e meloni, scarole e finocchi, che quotidianamente venivano venduti nei mercati cittadini.
Giambattista Marino lo definiva” picciolo sì, ma di delizie pieno, quanto ricco d’onor, povero d’onde”, mentre il Boccaccio, candidamente confessava” secondo alcuni scorre presso Napoli e io ricordo di non averlo giammai visto quando dimorai colà”.
Caro alle ninfe, oggi, è divenuto uno squallido rigagnolo, pieno di zoccole panciute e di sguaiati trans, ivi appostati di buon mattino per placare i lubrici desideri di una clientela scalcagnata, mentre tutto intorno, a fare compagnia a capannoni industriali dismessi e a puteolenti baracche di rom, luride pozzanghere si alternano a cumuli di monnezza differenziata, nel senso che ve ne è di ogni tipo e dimensione: materassi sfondati, carrozzerie di auto sfasciate, carogne di animali, bottiglie di plastica e scarpe vecchie.
Sembra inspiegabile vedere ancora oggi le cinque poderose arcate del Ponte della Maddalena, che ha assistito a tanti cruciali episodi di storia napoletana, come la battaglia finale tra giacobini e sanfedisti nel 1799, ma soprattutto lo stupefacente avanzata della lava del Vesuvio durante la calamitosa eruzione del 1631, che minacciava di distruggere Napoli, come già avvenne nel 79 dopo Cristo per Ercolano e Pompei, se non fosse intervenuto a fermarla, con la poderosa mano destra protesa verso l’alto, l’inesausto protettore della città: San Gennaro. Ed a ricordare la mitica impresa vi è ancora in loco la sua statua realizzata da Francesco Celebrano, purtroppo da anni con le dita mozzate per la scriteriata furia devastatrice degli scugnizzi partenopei. Analoga sorte toccata al santo dirimpettaio, il boemo Giovanni Nepomuceno, fustigatore di alluvioni ed annegamenti con il braccio spezzato da tempo infinito.
L’episodio è stato immortalato da numerosi pittori del secolo d’oro, da Scipione Compagno a Micco Spadaro, il quale ci ha fornito una cronaca visiva della grandiosa processione organizzata dalle autorità per impetrare la grazia dell’intercessione del già celebre santo, che da allora ha conquistato un posto a tempo indeterminato nel cuore dei napoletani, amplificato anno dopo anno dal ripetersi del prodigioso fenomeno della liquefazione del suo sangue, davanti agli occhi increduli ed increduli di laici e miscredenti.
La processione si svolse il 17 dicembre del 1631, partendo dal Duomo e durante il mesto peregrinare lungo le vie cittadine, secondo il racconto di numerosi testimoni oculari, il santo apparve ai questuanti, come raffigurato nel quadro, dove è rappresentato in volo a cavallo di una nuvola. Possiamo a distanza di secoli, con l’immediatezza di un reportage fotografico, vedere il baldacchino con il busto reliquario del santo, mentre un sacerdote porta le ampolle con il sangue miracoloso. Dietro il baldacchino possiamo riconoscere il viceré spagnolo, l’unico ad avere il capo coperto con un largo cappello, il cardinale Buoncompagni, numerosi prelati ed i principali rappresentanti dell’aristocrazia napoletana, mentre il popolo non assiste direttamente alla processione, ma vi assiste affollandone i lati ed affacciandosi dai tetti e dalle terrazze.
Un tripudio straripante di plebe vociante per invocare, come avvenne, un lieto finale per un evento disastroso.
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