fig.1 - Carlo Sellitto - Sansone e Dalila - 127 x150 - Napoli, collezione Fabio |
Abbiamo avuto la fortuna di poter visitare una importante collezione privata napoletana e ci siamo trovati davanti a due capolavori.
Il primo quadro raffigura una nota iconografia: Sansone e Dalila (fig.1), un’opera dal chiaroscuro di indiscutibile derivazione caravaggesca ed in passato alcuni studiosi avevano ipotizzato potesse essere stata eseguita da Massimo Stanzione ai suoi esordi, ma la tela appartiene viceversa, come si evince chiaramente dall’esame di alcuni particolari (fig.2–3–4) a Carlo Sellitto, ipotesi confermata da un parere orale espresso al proprietario da Stefano Causa, tra i massimi conoscitori di quel periodo.
Il catalogo dell’artista, morto nel 1614, è relativamente esiguo, ed ora possiamo aggiungere con certezza un altro tassello.
Tra i pittori napoletani che tributarono al Merisi l’accoglienza più entusiastica vi è in prima fila, assieme a Battistello Caracciolo, Carlo Sellitto, nato culturalmente in ambito tardo manierista filtrato dall’insegnamento del fiammingo Lois Croise, per accogliere poi il nuovo messaggio e dar luogo a composizioni drammatiche, animate da un’intensa tensione emotiva e da una spasmodica ricerca di verità, con un dominio della luce che modella le immagini attraverso un sottile gioco di ombre patognomonico del suo stile.
La sua prima opera documentata, unica firmata, è del 1606 e si trova in provincia ad Aliano. Essa raffigura una Madonna in gloria con donatore e nonostante l’impronta manieristica baroccesca presenta in basso un’immagine del committente dalla precisione ottica stupefacente, a lampante dimostrazione dell’abilità dell’artista come ritrattista. Sempre in Basilicata, terra natia del pittore, è conservata a Melfi una Madonna del suffragio con anime purganti, intrisa di naturalismo con la luce che evidenzia le figure ed i gesti, sottolineando la drammaticità della scena.
In ambiente napoletano la sua più importante commissione lo impegnerà dal 1608 al 1612 in Sant’Anna dei Lombardi nella cappella Cortone, nell’esecuzione di un ciclo su San Pietro, dove ha l’occasione di lavorare al fianco di Caravaggio attivo nella cappella Fenaroli e del Caracciolo operante nella cappella Noris Correggio. Un cataclisma, distruggendo la chiesa nel Settecento, non ci ha permesso un confronto tra le opere in gran parte distrutte. Delle cinque eseguite dal Sellitto se ne sono salvate soltanto due, segnate da un fascio luminoso potente che scandisce i corpi nel ritagliarsi violento delle ombre.
In seguito egli esegue, tra il 1610 ed il 1613, il San Carlo per la chiesa di Sant’Antoniello a Caponapoli e la splendida Santa Cecilia all’organo per la chiesa della Solitaria, entrambe oggi a Capodimonte, l’Adorazione dei pastori per la chiesa degli Incurabili e la Visione di Santa Candida per Sant’Angelo al Nilo, percorsa da un brivido di luce calda e avvolgente.
Altre opere da aggiungere al suo scarno catalogo sono la Santa Lucia del museo di Messina ed il David e Golia del museo nazionale della Rhodesia.
Un segno tangibile del prestigio raggiunto dal pittore presso la committenza fu l’incarico, nel 1613, di eseguire una Liberazione di San Pietro da collocare su un altare del Pio Monte della Misericordia, ma l’opera per l’improvvisa morte del Sellitto fu poi affidata al Battistello.
Egli lasciò nella sua bottega numerose tele incompiute, tra cui il Crocefisso per la chiesa di Portanova, oggi purtroppo scomparso per un ignobile furto ed il Sant’Antonio da Padova per i governatori di San Nicola alla Dogana, ricco di un gioco luminoso sui volti ed in cui si può leggere come segno distintivo, quasi una firma nascosta del pittore, il classico tocco di luce sulle fisionomie dei personaggi, che si può apprezzare anche nella famosa tela di Santa Cecilia all’organo.
Nel suo atelier vi erano anche una serie di quadri di natura morta, di paesaggio ed è inoltre noto dai documenti che fu celebre ritrattista, ricercato da nobili e borghesi, una produzione al momento completamente sconosciuta agli studi eccetto poche esempi. Tra questi possiamo segnalare il Ritratto di gentildonna in vesti di Santa Cecilia, transitato più volte sul mercato, nel quale si avverte un contemperamento dei caratteri caravaggeschi con intenerimenti classicistici e preziosismi cromatici di matrice reniana, consentaneo alla presenza a Napoli nel 1612 del divino Guido.
Il primo quadro raffigura una nota iconografia: Sansone e Dalila (fig.1), un’opera dal chiaroscuro di indiscutibile derivazione caravaggesca ed in passato alcuni studiosi avevano ipotizzato potesse essere stata eseguita da Massimo Stanzione ai suoi esordi, ma la tela appartiene viceversa, come si evince chiaramente dall’esame di alcuni particolari (fig.2–3–4) a Carlo Sellitto, ipotesi confermata da un parere orale espresso al proprietario da Stefano Causa, tra i massimi conoscitori di quel periodo.
Il catalogo dell’artista, morto nel 1614, è relativamente esiguo, ed ora possiamo aggiungere con certezza un altro tassello.
Tra i pittori napoletani che tributarono al Merisi l’accoglienza più entusiastica vi è in prima fila, assieme a Battistello Caracciolo, Carlo Sellitto, nato culturalmente in ambito tardo manierista filtrato dall’insegnamento del fiammingo Lois Croise, per accogliere poi il nuovo messaggio e dar luogo a composizioni drammatiche, animate da un’intensa tensione emotiva e da una spasmodica ricerca di verità, con un dominio della luce che modella le immagini attraverso un sottile gioco di ombre patognomonico del suo stile.
La sua prima opera documentata, unica firmata, è del 1606 e si trova in provincia ad Aliano. Essa raffigura una Madonna in gloria con donatore e nonostante l’impronta manieristica baroccesca presenta in basso un’immagine del committente dalla precisione ottica stupefacente, a lampante dimostrazione dell’abilità dell’artista come ritrattista. Sempre in Basilicata, terra natia del pittore, è conservata a Melfi una Madonna del suffragio con anime purganti, intrisa di naturalismo con la luce che evidenzia le figure ed i gesti, sottolineando la drammaticità della scena.
In ambiente napoletano la sua più importante commissione lo impegnerà dal 1608 al 1612 in Sant’Anna dei Lombardi nella cappella Cortone, nell’esecuzione di un ciclo su San Pietro, dove ha l’occasione di lavorare al fianco di Caravaggio attivo nella cappella Fenaroli e del Caracciolo operante nella cappella Noris Correggio. Un cataclisma, distruggendo la chiesa nel Settecento, non ci ha permesso un confronto tra le opere in gran parte distrutte. Delle cinque eseguite dal Sellitto se ne sono salvate soltanto due, segnate da un fascio luminoso potente che scandisce i corpi nel ritagliarsi violento delle ombre.
In seguito egli esegue, tra il 1610 ed il 1613, il San Carlo per la chiesa di Sant’Antoniello a Caponapoli e la splendida Santa Cecilia all’organo per la chiesa della Solitaria, entrambe oggi a Capodimonte, l’Adorazione dei pastori per la chiesa degli Incurabili e la Visione di Santa Candida per Sant’Angelo al Nilo, percorsa da un brivido di luce calda e avvolgente.
Altre opere da aggiungere al suo scarno catalogo sono la Santa Lucia del museo di Messina ed il David e Golia del museo nazionale della Rhodesia.
Un segno tangibile del prestigio raggiunto dal pittore presso la committenza fu l’incarico, nel 1613, di eseguire una Liberazione di San Pietro da collocare su un altare del Pio Monte della Misericordia, ma l’opera per l’improvvisa morte del Sellitto fu poi affidata al Battistello.
Egli lasciò nella sua bottega numerose tele incompiute, tra cui il Crocefisso per la chiesa di Portanova, oggi purtroppo scomparso per un ignobile furto ed il Sant’Antonio da Padova per i governatori di San Nicola alla Dogana, ricco di un gioco luminoso sui volti ed in cui si può leggere come segno distintivo, quasi una firma nascosta del pittore, il classico tocco di luce sulle fisionomie dei personaggi, che si può apprezzare anche nella famosa tela di Santa Cecilia all’organo.
Nel suo atelier vi erano anche una serie di quadri di natura morta, di paesaggio ed è inoltre noto dai documenti che fu celebre ritrattista, ricercato da nobili e borghesi, una produzione al momento completamente sconosciuta agli studi eccetto poche esempi. Tra questi possiamo segnalare il Ritratto di gentildonna in vesti di Santa Cecilia, transitato più volte sul mercato, nel quale si avverte un contemperamento dei caratteri caravaggeschi con intenerimenti classicistici e preziosismi cromatici di matrice reniana, consentaneo alla presenza a Napoli nel 1612 del divino Guido.
fig.2 - Carlo Sellitto - Sansone e Dalila - 127x150 - (taglio dei capelli) - Napoli, collezione Fabio |
fig.3 - Carlo Sellitto - Sansone e Dalila - 127 x150 - (Dalila) - Napoli, collezione Fabio |
fig.4 - Carlo Sellitto - Sansone e Dalila - 127 x150 -(soldato) - Napoli, collezione Fabio |
fig.5 - Francesco Solimena - Miracolo di San Mauro - 67 x157 _ Napoli, collezione Fabio |
L’autore del secondo dipinto (fig.5) non ha bisogno di presentazioni, trattandosi di un gigante: Francesco Solimena, che tra le tante opere eseguite nella sua lunga vita ha eseguito più redazioni dello stesso soggetto: Il Miracolo di San Mauro, il cui bozzetto (fig.6) si trova nel museo di belle arti di Budapest, mentre l’originale, assieme a altri dipinti della stessa serie, si trovava presso l’Abbazia di Montecassino, distrutta, come è noto, durante l’ultima guerra mondiale dalle criminali bombe sganciate dagli Americani, da poco divenuti i nostri pseudo alleati. Di questo quadro parlano sia Roberto Longhi, che lo colloca cronologicamente tra il 1695 ed il primo decennio del Settecento, che Ferdinando Bologna, autore di una monumentale monografia sull’artista, pubblicata nel 1958.
Il quadro di cui ci interessiamo presenta misure identiche a quello conservato in Ungheria e come ci riferisce il proprietario il primo ad esaminarlo è stato il prof. Alberto Chiesa, capo del Dipartimento Old Master Paintings di Sotheby's, il quale non solo lo attribuiva al Solimena ma affermava che la cornice in cui è inserito è certamente napoletana e coeva al dipinto stesso.
In seguito furono mostrate al professor Bologna delle foto del dipinto ed alcuni dettagli (fig.7–8–9) indussero lo studioso ad affermare che si trattava di una redazione autografa di altissima qualità e davanti al parere di così illustri studiosi non abbiamo nulla da aggiungere se non invitare i lettori ad approfondire le foto di un vero capolavoro.
Il quadro di cui ci interessiamo presenta misure identiche a quello conservato in Ungheria e come ci riferisce il proprietario il primo ad esaminarlo è stato il prof. Alberto Chiesa, capo del Dipartimento Old Master Paintings di Sotheby's, il quale non solo lo attribuiva al Solimena ma affermava che la cornice in cui è inserito è certamente napoletana e coeva al dipinto stesso.
In seguito furono mostrate al professor Bologna delle foto del dipinto ed alcuni dettagli (fig.7–8–9) indussero lo studioso ad affermare che si trattava di una redazione autografa di altissima qualità e davanti al parere di così illustri studiosi non abbiamo nulla da aggiungere se non invitare i lettori ad approfondire le foto di un vero capolavoro.
fig.6 - Francesco Solimena - Miracolo di San Mauro - 75 x153 Budapest, museo nazionale di belle arti |
fig.7 - Francesco Solimena - Miracolo di San Mauro - 67 x 157 (particolare) - Napoli, collezione Fabio |
fig.8 - Francesco Solimena - Miracolo di San Mauro - 67 -x157 (particolare) - Napoli, collezione Fabio |
fig.9 - Francesco Solimena - Miracolo di San Mauro - 67 x157 (particolare) - Napoli, collezione Fabio |
Bibliografia
Bologna F., Francesco Solimena, 1958, p.249
Achille della Ragione
Buongiorno Achille grazie di queste tue, sempre molto interessanti; questo nuovo approfondimento è pubblicato da qualche parte? Sarebbe bello condividerlo anche su artapartofcult(ure) come " contributo"... Attendo feedback...
RispondiEliminaBuon lavoro E a presto.
Barbara Martusciello
BM
Professore,
RispondiEliminaMolto interessante il dipinto di Sellitto. Grazie della notizia.
Cordiali saluti,
John T. Spike
Due quadri degni di un museo
RispondiEliminaBellenger