sabato 1 febbraio 2014

Tutti i volti della povertà a Napoli





La povertà è stata sempre un fenomeno endemico, accentuatosi paurosamente negli ultimi anni. Del problema hanno trattato, in tempi diversi, personaggi del calibro di Goethe e Gramsci con un serrata indagine storica che parte dello stereotipo dei lazzari, oziosi e scansafatiche.
Mi sia concesso citare due mie lettere al Direttore, la prima del 2004, pubblicata da tutti i giornali napoletani (Il Mattino 30 luglio – Il Roma 22 giugno – Corriere del Mezzogiorno 8 luglio): 
“Barboni, non possiamo far finta di non vederli”
Ad ogni angolo della città possiamo osservare uomini e donne di tutte le età, che bivaccano in condizioni igieniche spaventose, avendo fatto del marciapiede la loro casa. Discutendo del problema con amici, si sente dire spesso che la scelta del barbone di vivere per strada è libera e non spinta da necessità. 
Per rendermi conto della verità ho assunto direttamente informazioni presso il dormitorio pubblico di via Grande Archivio a Napoli, ed ho scoperto con angoscia che ogni sera decine di persone non trovano ricovero e sono costretti a passare la  notte per strada. Notizia confermatami dal coraggioso parroco della vicina chiesa dei Ss. Severino e Sossio, il quale ha organizzato un servizio di assistenza spirituale. 
Ma anche il corpo ha le sue improrogabili necessità e credo che il dormire sotto un tetto sia una delle principali. Come potremo continuare placidamente ad addormentarci la sera nei nostri letti ora che sappiamo che uomini e donne più sfortunati di noi sono costretti a cercarsi un giaciglio di fortuna sulla pubblica strada!
La seconda è di questi giorni è sta trovando ospitalità sui principali quotidiani del paese.
“L'esercito dei poveri”
Vi è un vecchietto che si sorregge ad un albero con la testa appoggiata sul braccio e piange disperato come un bimbo in punizione. I passanti pensano ad un malore, qualcuno vuole chiamare un'ambulanza. L'ottantenne scuote la testa: "non ho bisogno di un medico, semplicemente non ho i soldi per fare la spesa e mi vergogno a chiedere l'elemosina. A volte cerco un qualsiasi lavoro: pulizie o piccole commissioni, ma difficilmente lo trovo. Tra i presenti qualcuno si commuove e gli da qualche euro per tirare a campare un altro giorno. Il nostro anziano è uno dei tanti di un esercito di nuovi poveri in continuo aumento, che non riescono a sopravvivere con una pensione da fame. Guardano le vetrine dei supermercati, come l'eden perduto e le rare volte che possono entrarci, arrivati al pagamento possono spendere solo una piccola cifra ed il resto lo debbono sconsolati lasciare alla cassa.
Nelle società contemporanee c'è una costante. Il rifiuto degli ultimi: i lavavetri, i matti i tossici, i migranti (quelli poveri, naturalmente), i mendicanti (...). A infastidire la società sana non è più la miseria ma la sua visibilità (con la sgradevolezza che, spesso, la accompagna), In un'Italia dove la povertà assoluta tocca 5 milioni di persone, e in una città come Napoli dove è povera una famiglia su tre, potremmo dire di essere di fronte a una società simile a quella descritta da Dickens nei suoi romanzi sociali, se non fosse che 1'autore vittoriano ai poveri dava volto e voce, mentre oggi sono solo numeri, incasellati in statistiche, etichette o stereotipi.
Oggi più che mai - dice Morniroli - il racconto delle biografie, la restituzione di volti, di nomi propri, di storie è elemento fondamentale per recuperare una cultura che rimetta al centro le persone». Napoli è  più vulnerabile di altre città, ma può divenire un laboratorio per la costruzione di politiche sociali di contrasto alla povertà, la quale si allarga sempre più includendo persone che non avevano problemi di sopravvivenza.
A mezzogiorno davanti alla mensa della parrocchia di Santa Lucia ci sono gli ultimi degli ultimi, quelli che non sono riusciti ad accaparrarsi uno dei novanta posti disponibili a tavola e ora aspettano l'arrivo dei panini che i volontari distribuiscono per non lasciare nessuno a digiuno. Tra di loro immigrati, ma anche molti, moltissimi italiani. Ci sono quelli che hanno perso il lavoro da poco, le madri e i padri separati che non riescono ad arrivare a fine mese, gli ammalati, i cassintegrati. I cosiddetti nuovi poveri che ormai affollano la città e rappresentano ormai il 50 percento di quelli che chiedono aiuto. Lo dicono le cifre, lo testimoniano i combattenti della trincea della solidarietà. I dati dell'Istat studiati da Ciro Grassini e Maria Ciotola nella pubblicazione della Caritas «il territorio della Diocesi di Napoli tra problematiche e speranze» parlano di una città che ha un tasso di occupazione (quello che si calcola sull'intera popolazione) inferiore di venti punti rispetto alla media italiana. Nel Paese la percentuale degli occupati è del 56,9 per cento, a Napoli del 37 per cento. In sostanza per un napoletano che lavora ce ne sono altri due che restano a casa. Una situazione ai limiti della sopravvivenza. E gli «osservatori» della Caritas, 315 sparsi sul territorio della Diocesi, selezionati dai ricercatori con il criterio della rappresentatività, ritengono che la mancanza di lavoro sia il secondo problema più grave che affligge la città, preceduto soltanto dal «disinteresse per il bene comune». Secondo il 54 per cento degli intervistati la crisi economica punisce gli anziani, ma per il 43,9 per cento le vittime sono soprattutto le famiglie. «La povertà oggi colpisce soprattutto i nuclei familiari. La crisi delle; reti parentali ha messo in difficoltà quello che per anni era stato il primo ammortizzatore sociale. Le difficoltà in passato sono spesso state superate grazie al cosiddetto welfare familiare. C'era l'anziano che si occupava dei bambini, ma anche la famiglia intera che si occupava degli anziani. La mancanza di politiche di sostegno ha mandato in frantumi questo modello». 
E a farne le spese sono gli emarginati. Spiega Benedetta Ferone della Comunità di Sant'Egidio: «Noi raggiungiamo quotidianamente ottocento persone. Fino a qualche mese fa avvicinavamo soprattutto immigrati, anziani, barboni. Adesso le cose stanno cambiando. Di notte distribuiamo i pasti in strada. Da qualche settimana viene a chiederci un piatto caldo la moglie di un uomo finito agli arresti domiciliari. Poi c'è la mamma di due bambini abbandonata dal marito. Ci sono i pensionati che non arrivano a fine mese. Gente che fino a poco fa riusciva a sbarcare il lunario e che adesso non ha nemmeno un piatto da mettere in tavola. Arriva di notte senza farsi notare, vergognandosi di una povertà che solo ora comincia a conoscere». 
Lo strumento principale per superare la crisi, secondo gli intervistati, è la lotta alla camorra che impedisce lo sviluppo economico del territorio (34 per cento) seguito dalla formazione dei giovani (29,8 per cento) ritenuta sempre più importante in un mercato diventato spietato e dove la battaglia per accaparrarsi un lavoro è ormai spiegata. «Lavoravo a nero in un supermercato - racconta Giuseppe - poi ho avuto un incidente domestico e sono restato a casa per diverse settimane. Il mio posto è stato preso da uno straniero. Da anni mi giro da un grande magazzino all'altro. Non mi chiedono nemmeno quello che so fare, ma vogliono sapere solo che stipendio voglio. Chiedo 500, 600 euro. Ma loro trovano sempre un filippino o un rumeno che si accontenta di meno». Ancora a nero, ovviamente. E nella giungla creata dal lavoro separato dai diritti si conta un numero crescente di rinunciatari. Salvatore ha ormai deposto le armi: «Lavoravo in una macelleria - dice - sono stato licenziato. Mia moglie mi ha lasciato e io ho deciso di vivere da solo, in strada, giorno per giorno. Non ce la faccio più a combattere e a perdere sempre». 



Le storie dei nuovi poveri sono tante e tutte commuoventi.
«Due affitti da pagare, non mi resta che venire qui» 
Marco ha 44 anni e due figli. Da quando si è separato dalla moglie vive in un centro di accoglienza e frequenta le mense delle parrocchie. Eppure un tempo aveva un buon lavoro da tecnico specializzato, una vita normale. Jeans e giubbino scuri, anfibi e sciarpa al collo non assomiglia neanche lontanamente a un barbone. Eppure. «Eppure della mia vita di un tempo non è rimasto niente. Tutto distrutto, spazzato via in pochi mesi. Lavoravo al montaggio di impianti termotecnici. Poi sono stato licenziato e adesso vado avanti con contratti e contrattini. Tutti a termine, naturalmente. A volte riesco a mettere insieme tre o quattro mesi di stipendio all'anno, quando va male anche meno». Troppo poco per pagare due affitti. «Quando posso racconta - verso a mia moglie gli alimenti che le debbo per Maria Pia che ha quindici anni e studia al liceo linguistico. Il ragazzo più grande, invece, ha venti anni e sta cercando di entrare in Aeronautica. Loro vanno avanti tra quello che posso dare io, quello che mette insieme la mia ex e l'aiuto che arriva dalla sua famiglia. In qualche modo riescono a sopravvivere e spero che i ragazzi possano anche sistemarsi. lo mi arrangio come posso, tiro avanti alla meno peggio, vivo alla giornata. Quando lavoro va meglio, ma le occasioni sono sempre più rare». Fortunatamente per lui, come per tutti gli altri, ci sono le mense luna trentina) e i dormitori (una ventina) organizzati dalle associazioni di volontariato. La comunità di Sant'Egidio ha realizzato «Dove» una guida con l'elenco dei posti dove rifugiarsi, ma anche quell'elenco rischia di essere decimato: i, fondi scarseggiano per tutti. «Fortunatamente c'è il «binario della solidarietà» che offre vestiti, docce, e laboratori che ci permettono di sopravvivere e anche di guadagnare qualcosa - spiega Marco - In strada c'è chi ruba, chi si prostituisce e chi, come me, si arrangia». 
«In libreria dopo pranzo, così leggo senza spendere» 
Lo incontro alla mensa della parrocchia, ma per raccontarmi la sua storia mi dà appuntamento alla libreria Feltrinelli dove lui passa i pomeriggi per leggere tranquillo. Antonio ha poco più di sessanta anni, per anni ha lavorato come perito di una compagnia assicurativa, poi la malattia e la crisi lo hanno spinto nel mondo di chi non riesce ad arrivare a fine mese. «Un tempo arrivavo a casa della gente con il libretto degli assegni - racconta - e consegnavo anche rimborsi milionari. Vivevo nel centro storico e mio figlio frequentava una scuola privata». Poi nel 2004 è stato colpito da un ictus e trenta anni di servizio non sono bastati ad assicurargli una pensione decente «La compagnia per la quale lavoravo aveva dichiarato bancarotta per due volte e quindi io mi sono trovato a ricominciare sempre daccapo». Risultato: una pensione da seicento euro. «Di affitto ne pagavo mille e due. Così mi sono trovato a non potermi permettere più l'appartamento dove abitavo. A quel punto, persa la casa, la mia famiglia si è sfasciata. Mia moglie e mio figlio, che all' epoca studiava al liceo scientifico, sono andati a vivere da mia suocera in Calabria. lo sono rimasto a Napoli e sono diventato ospite fisso di mio cugino. Poi il ragazzo si è diplomato e ho sperato che le cose si aggiustassero, ma non è ancora riuscito a trovare un lavoro nonostante i suoi sforzi e i nostri tentativi di trovare qualcuno che lo raccomandasse». La vita di Antonio si è stabilizzata in un tran tran desolato. «Per non pesare sui miei parenti vado alla mensa parrocchiale. Ma là si mangia , male, mai una fettina di carne, mai un piatto cucinato come si deve», spiega. i pomeriggi, invece, li passa quasi tutti in libreria «La lettura è sempre stata una mia passione». Ogni tanto arriva la moglie a fargli visita. O gli telefona il figlio sul telefonino al quale non ha mai rinunciato: «Ieri mi ha chiamato e mi ha detto: se non ci mandi dei soldi siamo costretti a staccare la spina del frigorifero. Ma io non sono più in grado di aiutare nessuno, nemmeno me stesso». 
Vorrei chiudere con un’esperienza personale risalente al 1998. Ogni anno con mia moglie Elvira organizzavamo un torneo di poker a cui partecipavano 54 amici che si svolgeva nel corso di un week-end, con un monte premi di circa 10 milioni tra quote di iscrizione e rientri. Essendo i partecipanti tutti facoltosi, stabilii di sostituire i premi in denaro con delle semplici coppe per destinare l’incasso in beneficenza. Tra gli enti il primo anno scelsi il Don Orione, l’istituto dei ciechi e le suore di Madre Teresa di Calcutta, dove mi recai personalmente, facendo la fila assieme ai disperati che volevano consumare un pasto, i quali, vedendo un volto nuovo, cercarono di cacciarmi. Arrivato al cospetto della Madre Superiora: una teutonica di bell’aspetto, a differenza delle consorelle, tutte poco piacevoli e provenienti dal terzo mondo, versai il denaro in contanti sulla sua scrivania e chiesi una ricevuta. «Perché offri questi soldi?», . «Perché ne ho troppi», . «Ed a cosa serve la ricevuta?», «Semplicemente per mostrarla ai miei amici, che generosamente hanno contribuito».



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