lunedì 16 dicembre 2013

L’amore nella musica



Più che la letteratura o le arti figurative la musica e la danza, senza utilizzare parole o immagini, sono in grado di raggiungere il cuore dell’uomo e rendere sottili le sfumature dell’amore.
In principio la musica fu imitazione della natura, il canto degli uccelli, il fruscio del vento, la goccia della pioggia in una vasca, il rimbombo del tuono fra le pareti rocciose della montagna. Non è facile per noi uomini della civiltà metropolitana immaginare lo stupore dell’homo sapiens primitivo. Né tanto meno gli stadi per i quali questi suoni naturali si sono trasformati in qualcosa di autonomo, di artificiale.
A differenza delle pitture rupestri di Altamura – documento meraviglioso dell’abilità pittorica e manuale dei nostri antenati – la musica è qualcosa d’impalpabile, transeunte e sfuggente (e forse anche per questo tanto più prezioso) che si percepisce non attraverso la vista, ma attraverso l’udito. Possiamo solo immaginare la sofferenza di Beethoven per la tragica, progressiva condanna alla sordità. Che tuttavia, nell’Inno alla gioia, per una sorta di straordinario ribaltamento metafisico, si trasforma in amore per l’umanità.
Intorno alla musica – dono degli dei e motore dell’universo, e “trasumanar” dei sensi e delle parole nell’armonia del Paradiso di Dante – si sono arrovellate le menti dei filosofi,  dei matematici e dei poeti.
Poesia, ritmo, melodia ed armonia costituiscono una sola indivisibile materia. Ora l’esaltazione iperbolica delle passioni. “Lasciatemi morire” implora Arianna rimembrando il tempo dell’amore. Ma eguale forza spirituale possiede l’invocazione ardente di Sant’Agostino: “Chi canta prega 2 volte”.
Se approfondiamo il canto di alcuni uccelli rimaniamo stupefatti ed ammirati. Vi è un piccolo uccello dell’Amazzonia l’uirapurù, poco più grande di un passero, ma dal piumaggio variopinto dal rosso corallo con venature di giallo al nero della livrea. Il suo canto, cui gli indigeni dell’Amazzonia brasiliana attribuiscono un valore profetico sulla vita e sull’amore, si esprime con note perfette: un do e un sol (tonica e dominante), primo e quinto grado della scala pitagorica.
Scoperta importante, se si pensa che il linguaggio ornitologico delle varie specie canore è ricchissimo di trasgressioni melodiche, mentre lo scricciolo andino con queste due note fondamentali – di stasi e tensione, di quiete e movimento – traccia la mappa della musica occidentale. In esse riconosciamo i rudimenti primitivi, i pochi frammenti (notazione) della musica greca antica, il canto gregoriano, il madrigale, il melodramma e la cantata barocca, Bach, Haydn e Beethoven… e i Beatles. Forse anche per questo il compositore Heitor Villa-Lobos, autore di diverse Bachianas Brasileiras (come si vede Bach continua a ispirare la musica del Novecento) gli ha dedicato nel 1917 il poema sinfonico Uirapurù. 
Sembra la dimostrazione lampante di come la celeste armonia della musica da Monteverdi a Beethoven e Wagner si fa imitazione e ripetizione della natura. Olivier Messianen, musicista, ma anche grande ornitologo era affascinato dal canto degli uccelli, che riteneva i più grandi musicisti dell’intero universo. Nel suo catalogue des oiseaux, usando artifici di note sovrapposte ed altre “diavolerie”, trascrive (adatta) perla tastiera del moderno pianoforte e per l’orchestra anche il cinguettio più bizzarro e meno ortodosso, anzi opposto al canone suggerito dal nostro uirapurù. Per il compositore francese, dichiaratamente cattolico, tutte le creature alate lodano – francescanamente – la presenza di Dio nel mondo. Un linguaggio così spurio ed esotico – le cui tracce avvertiamo in opere importanti come la Sinfonia Turangalila e il San Francesco d’Assisi.
E allora che sarà dell’Amore? Domanda da lasciar cadere. Forse basta lasciarsi trasportare dall’onda dei suoni. Credo ergo sum. La lyra e l’aulos (flauto), la poesia lirica e la poesia aulica. Saffo e Catullo: «Su, lira divina, parlami, fa risuonare la tua voce» (Saffo); «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris / Nescio, sed fieri sentio et excrucior» (Catullo). Non serve altro per dire che l’amore canta se stesso, «che move il sole e l’altre stelle», l’«Amor ch’a nullo amato amar perdona», l’amore «croce e delizia», eccetera.
Pitagora ha scoperto le leggi matematiche che regolano la musica: rapporti fra un tono e l’altro della scala musicale, differenze nell’altezza dei suoni espressi in numeri interi per cui metà di una corda dà (suona come) l’ottava superiore; tre quarti della stessa rivela la quarta; due terzi, la quinta. L’amore supera l’aritmetica, può essere limitato o illimitato, meschino o sublime.
Ecco con quanta emozione Wagner annunciava a Liszt, nel 1854, il progetto di una nuova opera (rappresentata a Monaco di Baviera nel 1865). E’ la storia di un amore procurato da un filtro bevuto per errore: «Ho sbozzato nella mia testa un Tristano e Isotta; un concerto musicale della massima semplicità, ma puro sangue; col bruno vessillo che sventola in fine del dramma [in cui] voglio avvolgermi per morire. Per morire o per nascondersi, perché si avverte in nuce che è il dramma stesso dell’autore, costretto dallo scandalo di una vicenda amorosa a fuggire a Venezia.Qui, «in una notte d’insonnia, affacciatomi al balcone verso le tre del mattino, sentii per la prima volta – scrive in una nota autobiografica – il canto antico dei gondolieri. Mi pareva che il richiamo, rauco e lamentoso, venisse da Rialto. Una melopea analoga rispose da più lontano ancora, e quel dialogo straordinario continuò così a intervalli spesso assai lunghi. Queste impressioni restarono in me fino al completamento del secondo atto del Tristano». Forse il più lungo duetto d’amore della storia del melodramma. 

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