Tullio Pironti |
Tullio Pironti scugnizzo, pugile, libraio, editore nasce a Napoli nel 1937, ha iniziato l’attività editoriale nel 1972 con il libro-reportage La lunga notte dei Fedayn scritto dal giornalista Domenico Carratelli all’indomani della strage di atleti israeliani e sequestratori palestinesi durante le Olimpiadi a Monaco di Baviera.
I suoi avi iniziarono l’attività libraria dopo la persecuzione subìta nel regno borbonico da Michele Pironti, magistrato, imprigionato insieme a Luigi Settembrini, Carlo Poerio e altri patrioti, che fu poi ministro della Giustizia dopo l’Unità d’Italia.
Come editore ha collezionato grandi successi, dal Camorrista di Giuseppe Marrazzo a Vatican Connection di Richard Hammer, a In nome di Dio. La morte di Papa Luciani di David Yallop, e ha pubblicato, spesso per primo in Italia, testi di scrittori come Don DeLillo, Bret Easton Ellis, Anna Rice, Raymond Carver e il premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz.
Fra gli autori italiani l’editore Pironti annovera Giuseppe Marrazzo, dal cui libro Il camorrista sul bandito Raffaele Cutolo (e relative complicità) venne tratto un film di successo; e, più di recente, Fernanda Pivano con Dopo Hemingway, serie di saggi sulla letteratura nordamericana degli anni ruggenti per l’impegno pacifista e libertario, accompagnata dalla biografia - anche per immagini - della famosa scrittrice e traduttrice.
Il giornalista Carratelli ha curato l’autobiografia di Tullio Pironti, Libri e cazzotti nella quale egli narra il percorso da scugnizzo nato nel cuore antico di Napoli (via Tribunali) a pugile (40 incontri, convocato nella Nazionale italiana Pugilato, pesi Welter) e infine librario ed editore. È stato tradotto in America, se ne farà un film.
Il suo secondo libro è Il paradiso al primo piano, con un attenzione particolare alle donne, all’educazione sentimentale e allo svezzamento sessuale riparte dal 18mo compleanno.
Tullio Pironti è piazza Dante, i vicoli dei Tribunali, Forcella, le viscere della città borbonica. Faccia totemica come poche. Maglione nero modello dolce vita e bavero alzato. Il naso è intatto. Le mani escono dalla tasca del cappotto solo per l’essenziale, accendere una Pall Mall, dare le carte a poker e tranciare l’esagerata pizza di Esterina. Le usa anche, le mani, per mostrare come si proteggeva da pugile negli anni ’50. La destra sulla mascella destra, la sinistra sul mento e la spalla a guardia della mascella sinistra. «Come una testuggine», spiega furbo lo scugnizzo settantenne con la licenza della terza media. «La mia boxe? Una sintesi di paura e talento». Fifone con i guantoni, audace, quasi pazzo quando maneggia libri. Scappava e colpiva da pugile. Da editore colpisce e basta. Incassa comunque, che vinca o che perda, ma sempre per kappao. «Un grande pugile mancato e un grande editore mancato», si definisce lui. La sua autobiografia ora la traducono in America. «Libri e cazzotti», due generi in via di estinzione.
Sono tanti i Pironti a Napoli e vendono tutti libri. Tullio vive a piazza Dante, tra gli uffici della casa editrice e la sua libreria, un’istituzione in città. Gli piace raccontare storie. Uno che, come scrive Ermanno Rea, «terrebbe sveglio anche un moribondo». Quando gli prende la malinconia va dal suo amico, O’ Pacioccone, a Santa Lucia, e affitta una barca. «O’ Pacioccone è immenso. Appena mi vede mi chiede una sigaretta. Una volta mi addormentai sulla barca e venne a stuzzicarmi con la punta del remo. Pensava fossi morto. Il mare per me è come la musica. Mi dà calma. Quando le cose mi girano storto vado in barca e la notte ascolto i Pink Floyd, Another brick in the wall.
«Fare l’editore a Napoli è difficile, ed io, come tanti napoletani, mi sono “inventato” questo mestiere, senza mezzi e senza progetti. Sin dall’inizio la mia politica editoriale è stata caratterizzata dalla pubblicazione di libri di denuncia e, successivamente, scommettendo con me stesso, ho portato in Italia autori allora sconosciuti ma entrati poi nei cataloghi dei grandi editori. Devo riconoscere, comunque, che ho avuto la fortuna di conoscere persone giuste che mi hanno dato consigli giusti».
Quando cominciò a fare l’editore era un momento in cui, oltre al potere di Mondadori ed Einaudi, esisteva la grande realtà di Editori Riuniti. A quell’epoca i giovani erano molto impegnati politicamente. Poi d’un tratto il vento cambiò, le ideologie iniziarono a tramontare, e fu anche l’inizio del ridimensionamento di Editori Riuniti. A quel punto cominciò la scalata editoriale dell’Adelphi. Dopo l’uscita di scena di Giulio Einaudi, che guidava la più grande casa editrice italiana, il nostro orgoglio nazionale, anche questa – come altre – iniziò a svolgere una politica editoriale in cui l’aspetto commerciale cominciava a prevalere sui contenuti culturali. Questo nuovo orientamento ha via via caratterizzato quasi tutto il mondo dell’editoria.
I rapporti con gli scrittori e gli intellettuali napoletani «sono stati rapporti fatti di incontri e scontri. In quello con Marcello d’Orta, ad esempio, c’è un po’ di rammarico. Ricordo che mi spedì il suo primo dattiloscritto, una descrizione di Napoli di appena trenta pagine. Era un lavoro, a prima vista, inconsistente, e non gli diedi nessuna risposta. Poco tempo dopo, lo stesso autore mandò un nuovo libro a tutti gli editori napoletani tranne che a me – lui, che era un mio ammiratore – perché ero stato così scortese da non rispondergli. Il nuovo libro era “Io speriamo che me la cavo”, che ha venduto milioni di copie ed è stato tradotto in circa venti Paesi. Quello con Peppe Lanzetta, invece, è stato un incontro più fortunato, anche se non fino in fondo. Pubblicai il suo primo libro, “Una vita postdatata”, che ebbe grande riscontro di pubblico, ma poi l’autore decise di “emigrare” da un grande editore, Feltrinelli. Voglio ricordare, infine, la mia grande amicizia con Joe Marrazzo. È con lui che è nata la mia casa editrice. Buona parte di quello che ho fatto, la devo a lui. Nel mio lavoro editoriale non ho mai perso di vista la mia città. Sognavo di dare a Napoli una casa editrice di importanza nazionale, ma realizzare questo progetto da solo era troppo difficile. Forse le istituzioni avrebbero potuto aiutarmi – sia dal punto di vista materiale che morale – come è stato fatto per la Sellerio dalla Regione Sicilia. Ma i rappresentati delle istituzioni napoletane forse nemmeno conoscevano autori come Raymond Carver, Naghib Mahfuz, Bret Easton Ellis, Philippe Sollers, Edmond Jabès: scrittori che per primo, con tanti sforzi, sono riuscito a portare in Italia».
Nella copertina di “Libri e cazzotti” c’è il boxeur non l’editore.
«Avevo una paura tremenda ma ho fatto il pugile per sentirmi protagonista. Funzionava con le donne. Era l’epoca dei Tiberio Mitri e dei Marcel Cerdan, il bombardiere di Casablanca, amante della Piaf. Ricordo il ritiro collegiale di Porto Recanati, le donne ci aspettavano a frotte. Schivare e rientrare era la nostra boxe. Benvenuti faceva un passo indietro uno avanti, io quattro indietro e uno avanti. Quando smise, Nino venne a trovarmi a Napoli. Vendeva enciclopedie a rate. Un giorno mi scontrai con uno zingaro si chiamava Tongo Troianovic. Era una montagna. Mi nutrivano con latte e carne di cavallo, niente sesso per mesi. Il ring era a Capua nel loro campo profughi. Un inferno. Avevo una tale paura che lo colpii con una violenza inaudita, indietreggiando. Poi lui morì in una rapina a New York. Quando salivo sulle navi americane ci spruzzavano di ddt prima di combattere con i loro soldati. Scendevamo con le tasche piene di whisky, sigarette e cioccolata».
«Federico Fellini voleva pubblicare i suoi ritratti di donne nude, mi ricevette a casa sua. Gli brillavano gli occhi ma poi non se ne fece più nulla. Seppi che fu Giulietta Masina a mettersi di traverso. In quell’album c’erano tutte le donne che Fellini aveva desiderato e amato, tutte tranne che lei».
«Il mio secondo libro autobiografico si chiamerà “Il paradiso al primo piano”, un verso tratto da “Via del campo” di Fabrizio De Andrè. Le prime pagine sono ambientate al “Gianna”, il bordello di Mezzocannone dove andai la prima volta. Incontrai tutti i professori universitari di Napoli».
« Per i piccoli editori non vi è futuro, in Italia si pubblica troppo, ma io non mollo, non so fino a quando, mio padre ha vissuto 102 anni. Ma lui non beveva, non fumava e fotteva. Io sono l’opposto, bevo, fumo e non fotto».
Ripetute volte ho incontrato Tullio Pironti, in veste di acquirente nella sua libreria. Invece come editore lo incontrai la prima volta per pubblicare il mio repertorio di 2000 foto a colori sui pittori del Seicento napoletano in una spettacolare veste tipografica, simile a quella di una precedente analoga opera sull’ottocento. Era necessario uno sponsor ed era pronto il Banco di Napoli, grazie all’interessamento del Presidente Pepe, assiduo frequentatore delle mie visite guidate, che aveva assicurato l’acquisto di 300 copie per farne omaggio alla clientela pregiata dell’Istituto. Purtroppo vicissitudini giudiziarie del professore Pepe mandarono a monte l’operazione che conclusi con un editore minore ed una veste più modesta.
Altre due occasioni mancate furono quando Pironti pubblicò “L’elogio del culo” di Tinto Bass, pur apprezzando il mio “Elogio del sedere femminile” seguito dal reiterato”Panegirico del posteriore muliebre”. E’ quando pubblicò “Munnezopoli” di Paolo Chiariello, al posto del mio “Monnezza, viaggio nella spazzatura Campana”, edito dal Brigante.
Infine, il più madornale, paradigmatico di come gli editori, anche in presenza di un libro di potenziale successo, ragionando da tipografi, chiedendo all’autore un ingiustificato contributo spese, come avvenne nel 2008, quando gli proposi il mio “Tribolazioni di un innocente”, ancora inedito che in rete ha avuto 70000 lettori.
Oggi l’editoria mondiale attraversa una crisi profonda per il diffondersi di E-Book e della stampa digitale. Sono curioso di vedere come se la caverà il vecchio (nel senso di esperto) Tullio Pironti.
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