Tra le tante gemme nascoste nel tessuto urbano di Napoli un posto di rilievo lo occupa Palazzo Tirone Nifo, oggi trasformato in scuola, nel cui interno si può ammirare un grandioso dipinto di Francesco Solimena (fig.01), una cappella affrescata da Paolo De Matteis (fig.05) e delle gioiose decorazioni floreali eseguite da Gaetano Brandi (fig.02-03). Tutto negato alla fruizione di turisti e indigeni ed ignoto agli stessi specialisti. Una pecca imperdonabile che cercheremo di colmare attraverso questo articolo.
01 - Solimena Franceso -ALESSANDRO DEI MEDICI CHE ENTRA IN FIRENZE |
Il palazzo Tirone Nifo
Il "poggio delle Mortelle" chiamato così già dal sec. XVII, probabilmente per i numerosi alberi di mirto (in napoletano monelle), oppure per le proprietà della famiglia De Troyanis Y Mortela, agli inizi del 1600 doveva essere una zona così amena, silenziosa e ricca di alberi e giardini, che numerosi ordini religiosi, dopo il Concilio di Trento, decisero di istituirvi dei conventi.Tra i primi religiosi vi furono i Carmelitani della Concordia, poi alla fine del '500 i Conventuali che fondarono S. Maria Apparente, gli Agostiniani nel 1618 S. Nicola da Tolentino, i Barnabiti nel 1616 S. Carlo alle Mortelle. Sorsero anche edifici destinati a religiose, come il Suor Orsola Benincasa nel 1633 ed il ritiro di Mondragone nel 1653.
Non minore attenzione al fascino della zona prestarono alcune famiglie aristocratiche come i Calà Ulloa e i Brancaccio ed illustri giureconsulti che vollero in quel luogo la loro residenza.
Nell'ultimo decennio del '600 la zona compresa tra S. Maria Apparente e S. Carlo alle Mortelle, dove ancora la collina si presentava ricca di alberi e giardini e dalla quale si godeva un' incantevole vista a mare, un ricco commerciante napoletano, Giuseppe Tirone, comprò un'abitazione e, per non farla essere da meno alle altre, la volle più grande e decorata dai migliori artisti dell'epoca.
Non si sa chi progettò l'edificio, ma certamente quello al vico S. Maria Apparente, dove attualmente ha sede la scuola media statale Vittorio Emanuele II, ha subìto numerosi rimaneggiamenti per assecondare i vari usi ai quali è stato adibito. L'ultimo restauro, quello dopo il terremoto del 1980, è stato forse il più dannoso per l'edificio, sia per le ulteriori trasformazioni che ne hanno sempre di più snaturato la conformazione, sia per l'introduzione e la sovrapposizione di scale di sicurezza in ferro e di profilati metallici.
La facciata su vico S. Maria Apparente, forse presenta ancora oggi l'aspetto originale: due portali d'ingresso e tre ordini di aperture simmetriche incorniciate dal piperno, per l'interno, invece, non è possibile risalire alla struttura originale, in quanto l'edificio aveva anche l'ingresso da via Filippo Rega con dei corpi di fabbrica quindi, a livelli diversi che digradavano sulla collina probabilmente intervallati da giardini terrazzati, da cortili e spazi interni.
Il palazzo doveva essere dotato di stalle, ingresso per le carrozze e stanze per il personale.
Sicuramente il secondo piano doveva essere quello di rappresentanza per la presenza delle due sale affrescate dal Solimena e dal De Matteis, e l'impegno economico del committente dovette essere notevole, perché anche altri ambienti dovevano essere stati decorati, lo dimostra la presenza di tre logge sulla stessa verticale, ma su piani diversi, due delle quali sono ancora intatte e presentato un pregevole soffitto decorato da Gaetano Brandi (fig.02 - 03) in cui vi è un magnifico effetto trompe l'oeil.
Non si riesce a datare l'affresco del Solimena, De Dominici non ne fa cenno, ne parla il Ceva Grimaldi (1857), il Pavone, che ne ha fatto uno studio approfondito, ritiene che il pittore lo abbia dipinto nell'ultimo decennio del sec. XVII, opinione sulla quale concordiamo.
Il dipinto è celebrativo e, probabilmente, vuole essere un omaggio alla famiglia De' Medici, come si evince dal grande stemma che chiude il decoro dell'affresco. Nel 1737 l'edificio viene trasferito da Carlo III di Borbone agli Scolopi perché fondassero un collegio per i giovinetti nobili della città che si chiamò "Collegio di sopra S. Carlo alle Mortelle". I padri Scolopi di Puglia furono ben felici dell'incarico anche perché dovevano lasciare la loro sede di Posillipo ed erano in cerca di un edificio per educare i giovani.
E' il momento in cui la struttura subirà le prime trasformazioni per essere adattata all'ospitalità dei giovani che venivano separati in camerate in base all'età ed erano sorvegliati giorno e notte da un religioso ed un cameriere e vigilati dal Padre Ministro.
Gli allievi erano accolti dai 6 ai 10 anni, fino ai 16, 19 anni, gli insegnamenti impartiti comprendevano sia materie umanistiche che scientifiche, particolare rilievo veniva dato ad attività di laboratorio (ricchissimo il gabinetto di fisica). Si dava spazio, inoltre, allo studio dell'eloquenza, della calligrafia, della scherma e della danza.
In pochi anni il collegio divenne famoso e importante soprattutto sotto la direzione del Padre Carcani e del Padre De Nobili (ricordato nell'iscrizione marmorea posta nell'ex Cappella al secondo piano), diventando di esempio per il suo regolamento agli altri collegi che si andavano fondando.
Era divenuto un tale modello educativo, che nel 1809, quando il Murat requisirà tutti i beni ecclesiastici, risparmierà il collegio considerandone l'alto valore educativo.
All'epoca numerose erano le richieste di iscrizione e per controllare e seguire un numero sempre maggiore di allievi, raddoppiò il numero di Padri Scolopi che nel 1850 divennero circa 40.
Fu il periodo più fulgido del collegio, i Padri rinnovarono la Cappella al secondo piano facendola decorare di stucchi e quadri sulla vita e le opere di Giuseppe Calasanzio, loro fondatore, e ponendovi due lapidi in onore di Maria Assunta in Cielo ritratta nell'affresco centrale e di Padre O. F. De Nobili rettore del collegio che contribuì alla beatificazione del Calasanzio.
Gli ultimi anni di attività del collegio, che si chiuse per esproprio nel 1867, furono problematici per le discordie che nacquero tra i padri, infatti quando il Governo centrale lo chiude, questi si divideranno.
Non è possibile datare le trasformazioni che subì l'edificio durante e dopo la gestione dei Padri Scolopi, certamente intorno al giardino centrale (ora un brutto cortile) doveva esservi un chiostro e poi sulla sinistra un'altra Cappella più ampia dove attualmente sono le due palestre della scuola.
Qualche segno del passato si intravede in alcune aule dove c'è uno stucco, una nicchia, ecc. Del collegio sono rimasti i libri di iscrizione degli allievi e numerose macchine del laboratorio di fisica, inoltre varie suppellettili.
Dopo gli Scolopi l'edificio ospiterà altre scuole, dal Liceo Ginnasio Principe Umberto, all'Istituto femminile Vittorio Emanuele II per il ricamo ed il cucito, di cui sono rimaste una serie di antiche macchine da cucire e delle piante dell'edificio così come veniva utilizzato per i vari laboratori.
Dopo avere ospitato anche un Magistero parificato, l'edificio dal 1962 è sede della Scuola Media Statale Vittorio Emanuele II.
02 - Brandi Gaetano - Decorazioni - documentato 1696 |
03 - Brandi Gaetano - Decorazioni - documentato 1696 |
"ALESSANDRO DEI MEDICI CHE ENTRA IN FIRENZE"
Nella Scuola media statale Vittorio Emanuele II di Napoli il soffitto della Galleria presenta un importante affresco di Francesco Solimena (fig. 01), ignorato dalle fonti, ma citato dal Ceva Grimaldi con la giusta intitolazione di "ALESSANDRO DEI MEDICI CHE ENTRA IN FIRENZE" (fig.01).
Dallo stemma presente sulla ricca fascia a festoni che circoscrive l'affresco, è possibile risalire alla famiglia Nifo, il cui più autorevole membro, Agostino, nel 1520 era stato introdotto nella famiglia Medici da Papa Leone X (Giovanni de' Medici) ed aveva ricevuto, per se e per i suoi discendenti, altri privilegi anche da parte di Carlo V. l'artefice del rientro di Alessandro in Firenze nel 1530.
Nel Museo di S. Martino esiste un disegno preparatorio (n. 20909) di questo affresco, che fu commissionato al Solimena dal commerciante Giuseppe Tirone, nel momento in cui si stabilì nel suo palazzo di vico S. Maria Apparente.
Indipendentemente da tale commissione, sarebbe stato ugualmente possibile risalire al Solimena attraverso la grande somiglianza di tre figure della scena centrale con altrettante presenti in due opere, di cui il pittore fu indubbio autore. Si tratta dell'Angelo in volo, che ritroviamo nel "Sogno di S. Giuseppe" di Strasburgo (1686), e delle figure femminili che impersonano la storia e Firenze e trovano momenti di identità tipologica e certamente, anche di vicinanza cronologica, con la Storia e la Figlia del Faraone, presenti nell' "Allegoria di Luigi XIV" di Leningrado (1690).
L'affresco celebra un avvenimento storico del 1530, che si inquadra nella lotta tra Francesi e Spagnoli (1521‑1544), per il predominio in Europa, più precisamente, per la conquista della Borgogna, delle Fiandre, del Ducato di Milano, zona strategica per le comunicazioni tra i possedimenti spagnoli orientali e quelli occidentali di Carlo V.
Per comprendere meglio il suo significato, è bene fare un breve accenno agli avvenimenti che precedettero e consentirono il rientro dei Medici in Firenze.
Cario V, re di Spagna, salì sul trono nel 1516, epoca in cui Francesco I, re di Francia, battuti gli Sforza, aveva conquistato il Ducato di Milano. Iniziò, quindi, tra i due una lotta che portò alla sconfitta di Francesco I, che, da prigioniero, promise di abbandonare definitivamente le sue mire espansionistiche, ma, una volta libero, riprese la lotta, forte dell'aiuto della Signoria di Firenze, della Repubblica di Venezia e del Papa Clemente VII (Giulio del Medici), timorosi tutti dell'eccessivo potere che Carlo stava acquistando.
Francesco I fu sconfitto a Pavia (1525) e, condotto prigioniero in Spagna, fu costretto a firmare il Trattato di Madrid, con il quale rinunciava definitivamente alla Borgogna, alle Fiandre, all'Artois e al Ducato di Milano, che, restituito a Francesco Il Sforza, privo di eredi legittimi, sarebbe divenuto, alla morte di questi, feudo del re di Spagna.
A questo punto Carlo V, per punire il Papa, colpevole di aver preso parte alla guerra contro di lui, inviò a Roma i Lanzichenecchi, soldati mercenari tedeschi, che, giunti nella città, riuscirono a saccheggiarla, seminando distruzione, panico e morte, mentre il Papa, rifugiato in Castel Sant'Angelo, assisteva, impotente, a tanto scempio. Alla notizia della sconfitta dello Stato Pontificio, Firenze insorse e cacciò i suoi Signori, proclamando la Repubblica, che ebbe però breve durata (1527‑1530), in quanto i Medici rientrarono in Firenze, grazie all'appoggio di Carlo V, che, rappacificatosi col Papa in cambio di questo suo intervento militare, si era fatto incoronare imperatore a Bologna (1530).
A tal fine, il forte esercito imperiale strinse d'assedio la città fiorentina che si difese con estremo valore, ma i Repubblicani, dopo dieci mesi di resistenza, stremati dalla fame, sopraggiunta per mancanza di rifornimenti, si arresero all'esercito dell'imperatore ed Alessandro detto anche il "Moro", poté, quindi, rientrare trionfante nella sua città, con il titolo di 1° Duca.
Carlo, anzi, per consolidare maggiormente i legami tra la famosa famiglia fiorentina e la sua Spagna, gli concesse in sposa (29/2/1536) la sua figlia naturale, Margherita, che rimase però subito vedova perché Alessandro, nel 1537, morì di morte violenta (pugnalato) per mano di Lorenzino dei Medici, appartenente ad un ramo cadetto della famiglia.
Nell'affresco Alessandro, accompagnato dalle Virtù (deificazioni allegoriche del valor militare e morale), che rimettono in piedi le Arti del Trivio e del Quadrivio, entra trionfalmente in Firenze, preceduto dall'arrivo dell'aquila imperiale, chiara allusione al sostegno che egli ricevette dall'esercito di Carlo V per poter prendere possesso della sua città.
Fu trionfale tale ingresso perché rappresentò comunque per tutti la prosecuzione di quel mecenatismo e di quella ospitalità generosa e totale che i Medici avevano sempre riservato ad artisti, letterati, filosofi, musicisti..., di quelle tradizioni familiari, alle quali nessun rappresentante si era mai sottratto.
Molte, quindi, le aspettative, infinite le delusioni offerte da questo duca degenere che, fin dal primo momento, si rivelò indifferente a qualsiasi forma di cultura e di arte, un dispotico e tiranno Signore, la cui impopolarità crebbe di giorno in giorno, fino a quando non fu colto da morte.
La nobiltà fiorentina presiede l'evento storico in cui il protagonista viene affiancato dalle figure simboliche del potere mediceo Ercole, simbolo della forza, Minerva, tutrice delle libertà cittadine, simbolo della sapienza e dell'impegno intellettuale e guerriero, l'Abbondanza e la Prudenza, simboli della prosperità e dell'assennatezza.
Al suolo, intanto, abbattute dalle auree sfere dei Medici, presenti nello stemma familiare, cadono le Arpie, uccelli rapaci rappresentati con testa, busto e braccia femminili, che, come simbolo del vizio e della maldicenza, sono costrette ad abbandonare il libro della storia per lasciare il posto ad Alessandro, il quale afferra per un braccio la Storia, nel momento in cui comincia a muovere i primi passi come protagonista della vita politica fiorentina.
Solo nell'affresco avviene l'eliminazione materiale del vizio e della maldicenza della Storia, perché nella successiva realtà ducale ciò non fu possibile, a causa della discussa vita pubblica e privata condotta da questo personaggio: fu vivamente detestato e si sparlò sempre di lui per le vessazioni, per i balzelli imposti al popolo, per la presenza di guardie forestiere al suo servizio, per il divieto assoluto che egli fece a tutti di portare armi (considerato a quei tempi un assurdo sopruso), ma ancor più per i suoi vizi, per la sua corruzione, per i suoi delitti.
Sul lato sinistro della composizione troviamo, infine, quattro cavalli bianchi che tirano il carro trionfale sul quale si baciano la Giustizia e la Pace, mentre le armi soggiacciono definitivamente al passaggio della carrozza.
Giustizia è stata fatta, la pace ormai è definitiva, Firenze può tornare finalmente al suo impareggiabile splendore, quello stesso che nell'opera emana la figura che l'impersona, poggiata sul globo terrestre con nelle mani una penna d'oca, simbolo di cultura e di attività letteraria, ed una statuetta di Minerva, protettrice delle Arti. Nell'affresco emerge chiaramente la presenza di un solo personaggio reale tra le tante che sono figure allegoriche, cioè rappresentazioni concrete di concetti astratti come la Pace, la Giustizia, la Storia.
Si tratta, dunque, di un'opera molto interessate ed il nostro rammarico è quello di non poterlo ammirare nella sua interezza perché quasi una metà è crollata, come possiamo intuire dalla cornice affrescata a festoni, che ci fornisce, grazie alla sua simmetria, con discreta precisione, le misure iniziali che dovevano essere sui tre metri e cinquanta centimetri per dodici metri (se si esclude la cornice).
Francesco Solimena, per accompagnare il tumulto della massa, fa provenire dal lato sinistro della composizione, un'illuminazione molto forte, quasi da riflettore, che viene rotta nella zona centrale da una maggiore ricerca cromatica, da cui scaturisce un perfetto consolidamento delle forme.
Più che scenografo di questa celebrazione è coreografo, perché ci offre uno spettacolo in cui la figurazione non comunica un contenuto, ma soltanto il proprio movimento, non suscita alcun sentimento preciso, ma soltanto uno stato emotivo, non spinge ad elevati pensieri, ma riempie i nostri occhi di osservatori per trasmettere loro un dinamismo in atto.
04 - Ignoto - Giuseppe Calasanzio educatore |
DIPINTI PRESENTI NELLA CAPPELLA DEDICATA ALLA VERGINE MARIA DELLA SCUOLA MEDIA STATALE "VITTORIO EMANUELE II" DI NAPOLI
La Cappella, situata al secondo piano della scuola media statale "VITTORIO EMANUELE II" presenta sulla parete d'ingresso, ai lati della porta, due iscrizioni latine, su lastre marmoree.
La prima, a destra dell'entrata, è stata dedicata dai Confratelli al Rettore del Collegio degli Scolopi di San Carlo alle Mortelle,"Vescovo chiarissimo per prudenza, lettere e virtù", Giovan Francesco De Nobili, che ivi morì all'età di 56 anni (1774) ed ebbe come merito maggiore quello di aver portato a compimento il processo di santificazione del Santo Padre Giuseppe Calasanzio nel 1767, sotto il pontificato di Clemente XIII; la seconda, sulla sinistra, è stata dedicata alla Madre Santissima di Dio, Maria Assunta in cielo, che appare affrescata nella volta della campata centrale della Cappella, con una morbidezza e tenerezza di tinte, tipiche delle Madonne e dei Bambini dipinte da Paolo de Matteis, nel 1695.
Questa seconda iscrizione ha rivestito per noi particolare importanza, perché ci ha fornito notizie utili alla migliore conoscenza del monumento da noi adottato, della Cappella in particolare, che dapprima contenuta nella fornice centrale, fu accresciuta, nel 1856, di una parte di ingresso e di una parte posteriore (attuale abside) ed ornata di marmo, oro, lacunari, stucchi e quadri.
Le tele in essa presenti, che hanno, quindi, una data di esecuzione precisa si riferiscono e celebrano episodi salienti della vita del fondatore dell'Ordine degli Scolopi, Giuseppe Calasanzio. Per effettuare una lettura cronologica delle tele, dobbiamo procedere dal dipinto (fig. 04) in cornice dorata di forma ottagonale, incassato nel soffitto d'ingresso, che ci offre l'immagine luminosa del "Giovane educatore Calasanzio", investito già da un fascio di luce divina, proveniente dall'alto.
Il Santo trasmette il suo amore e le sue conoscenze a cinque fanciulli, che Lo seguono attentamente, e viene aiutato in questo delicato e pio ministero da angeli, sempre presenti, con il loro divino apporto, nelle ricorrenti visioni che Egli aveva in gioventù quando, tra estasi e predizione esatta di avvenimenti futuri, trascorreva la vita nella natia Spagna.
Sulla parete di destra, al Calasanzio e a tre discepoli, mentre si trovano in preghiera nell'oratorio, appare un giorno la " Visione di Maria ", Madre e Regina che, circondata da cinque angeli, stringe tra le braccia Gesù bambino. TI Figlio divino è stato colto nel momento in cui, pregato dalla Madre alza la mano e benedice i presenti ("Benedizione divina").
A Maria il Calasanzio consacrò l'opera delle sue Scuole Pie e Maria, sempre prodiga di sorrisi e benedizioni per il suo Devoto e per la sua opera, che ne diventò l'Augusta Regina.
I suoi figli educatori, gli Scolopi, si chiamano infatti, come il Calasanzio stesso, "Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio", i loro esercizi di devozione furono e sono tutti in Suo onore, così come il loro stemma ebbe il Suo nome.
Sulla parete sinistra, in una cornice di gesso ed oro, il lungo dipinto rettangolare ci offre l'immagine del Calasanzio, anche qui circondato da un alone di santità, seduto in poltrona accanto a una scrivania di uno degli Istituti da Lui fondato e diretto, molto probabilmente quello di San Pantaleo, di cui fu Prefetto dal 1612 al 1648, periodo in cui si dedicò con i suoi confratelli all'educazione dei giovani romani. Il Santo è ritratto nell'atto in cui riceve molti genitori nobili e benestanti, a giudicare dal portamento e dall'abbigliamento, che accompagnano i propri figlioletti per "L'iscrizione al Collegio", agli studi primari che avrebbero consentito loro di imparare "fin dai primi elementi, a ben leggere, a far di conto, la lingua latina e soprattutto la pietà e la dottrina cristiana": lettere, dunque, e scienze, insegnate loro "con massima faciltà possibile, perchè la scuola deve essere per la vita pratica cioè, e realmente proficua".
Dopo essersi inchinati dinanzi al Santo Padre ed avergli baciato la mano, una volta accettati i fanciulli si separano dai genitori ed, accompagnati da due religiosi, si dirigono nelle camerate loro assegnate.
Nella campata centrale incontriamo sulla parete un affresco raffigurante Gesù bambino, circondato da numerosissimi angeli e sotto il soffitto quello attribuito al De Matteis (fig. 05), dedicato alla Santissima Vergine.
Maria, assunta in cielo, è circondata da angeli plaudenti ed inneggianti e dai Dodici Apostoli, nei quali sappiamo che gli Scolopi si sono sempre identificati.
Quell' "Ite et docete" (Andate ed insegnate) che gli Scolopi continuano ancora oggi a professare li eguaglia infatti agli Apostoli, a quei Missionari che, da una parte all'altra del mondo, diffondono la buona nuova della Rivelazione Divina, così come loro si dedicano, con amore e devozione, all'istruzione e all'educazione cristiana dei giovani fanciulli, a quell'insegnamento, che come disse Pio XI, "ispirato alla fede e alla pedagogia cristiana, è fra le più sublimi azioni umane, giacché illustra l'intelligenza e dirige il cuore, ispirando buoni pensieri, santi desideri e risoluzioni prudenti".
L'ultima tela, anche essa di forma rettangolare che potremmo intitolare "Ultima visione e morte del P. Calasanzio", ritrae lo scolopio negli ultimi momenti della sua vita terrena che abbandonò per un'infermità mortale, nelle prime ore del 25 agosto 1648, all'età di 92 anni.
E' un Calasanzio sereno, "più lieto che mai", come disse Lui stesso al Confratelli ed agli alunni, che pregavano e piangevano, stando di fronte, ai piedi o sul letto, perchè si preparava ad andare in cielo, come gli era stato preannunciato dalla Vergine che, circondata da uno stuolo di fratelli scolopi, già passati ad altra vita, lo aveva consolato ed aveva promesso protezione al suo Ordine, in un momento così delicato della sua storia (la Bolla del 16 marzo 1646 aveva ridotti l'ordine a semplice congregazione dipendente dagli Ordinari).
Questa visione è però scomparsa, il Santo appare qui rallegrato dal suo Dio, verso il quale rivolge il suo sguardo, pronto e desideroso di volare in cielo, ma non prima di aver pronunciato il nome augusto di "Gesù" per ben tre volte.
Nella cornice ovale di gesso ed oro dell'attuale abside è affrescato "San Giuseppe in volo tra gli angeli" e, quasi certamente, la sua esecuzione è avvenuta contemporaneamente agli altri affreschi presenti nella Cappella. L'onesto e giusto falegname di Nazareth, scelto da Dio come compagno della Vergine Immacolata e come custode del suo Figlio divino, è rappresentato, secondo la tradizione popolare, con la verga fiorita tra le mani callose, quella stessa che Gli permise di essere prescelto tra gli altri giovani aspiranti alla mano di Maria.
Nell'ultimo dipinto, presente nel soffitto della terza campata, il Santo Padre Calasanzio, strappato ai vivi ormai da tempo, è con gli angeli in cielo che splende di gloria e di luce divina di santità, ('La santificazione del Calasanzio"), grazie alla qualificata e preziosa opera del Rettore del Collegio di S. Carlo alle Monelle, Padre F. De Nobili.
05 - de Matteis Paolo - Assunzione- documento 1695 |
SAN GIUSEPPE CALASANZIO FONDATORE DELLE SCUOLE PIE(1556‑1648)
S. Giuseppe Calasanzio, nato in Peralta de la Sal (Spagna‑Aragona) l'1 l/9/1556, educato dai genitori con ottimi principi di pietà, si recò a studiare filosofia e legge nell'Università di Lerida, successivamente teologia a Valenza ed infine si laureò ad Alcalà. Essendo rimasto figlio unico, per la morte dei suoi cinque fratelli, i genitori si opponevano alla sua intenzione di diventare sacerdote: ciò nonostante prese gli ordini minori nel dicembre del 1583. Immediatamente acquistò fama di uomo altamente virtuoso, tanto che il Vescovo di Figuera lo nominò suo teologo, confessore esaminatore segretario e vicario generale. Dopo essersi dedicato ad impegni ed incombenze molto delicate e dopo essersi disfatto del ricco patrimonio che gli era pervenuto alla morte del padre (lo elargì generosamente a congiunti e a poveri), venne in Italia nel 1591.
A Roma, dove giunse, fu molto protetto dal Cardinale Marcantonio Colonna che lo scelse come suo teologo e come educatore di suo nipote, il principe Filippo. Visitò i più celebri santuari d'Italia, tra cui Loreto e ripetutamente Assisi, dove, mentre pregava, gli apparve San Francesco e tre figure angeliche (alle quali il Poverello lo congiunse in mistiche nozze tramite tre anelli), da lui interpretate come voti di povertà, di castità ed ubbidienza che avrebbero dovuto essere alla base della sua vita religiosa. Colpito grandemente da folle di laceri fanciulli che si abbandonavano a giochi ineducati e a parole invereconde, decise di dedicarsi all'educazione, e non solamente culturale, di questi figli del popolo. Nel quartiere più povero e bisognoso di Roma, a Trastevere, presso la chiesa di S. Dorotea, con la collaborazione del parroco, D. Antonio Branducci, ed altri due sacerdoti, nel 1597, cominciò ad istruire i ragazzi e ad operare per il loro bene tanto da riscuotere gli encomi del pontefice Clemente VIII.
Era questa la prima scuola popolare cristiana europea svolta gratuitamente e come vero Apostolato ed intesa come avviamento alle professioni e occupazioni della vita, a differenza delle altre preesistenti (Scuole di Carità ‑ Milano 1536) che svolgevano solo un'opera pastorale, di cultura religiosa delle anime.
Dopo aver dimorato per otto anni nella casa Colonna, prese una casa in affitto nelle vicinanze di S. Andrea della Valle per farne una scuola pubblica. Nel 1603 si affiancarono al Calasanzio nell'educazione ai fanciulli i rispettabili Tomaso Vittoria di Siviglia, Gaspare Dragonetti di Sicilia e Giulio Ghellini, che morirono in concetto di santità.
Quando i cardinali Antoniani e Baronio, per ordine di Clemente Vili, visitarono le scuole del Calasanzio, si compiacquero molto dell'ordine, della disciplina, dei programmi d'insegnamento relativi alle materie letterarie, scientifiche, tecniche e della preparazione religiosa e civile che i giovani ricevevano.
Il numero degli alunni cresceva di giorno in giorno, così come le lodi, l'ammirazione e gli aiuti al Santo Fondatore.
Furono questi i motivi che spinsero molti invidiosi a propone la soppressione delle scuole a Paolo V, ma questi, avendo ascoltato solo elogi su di esse, da parte dei cardinali Pofferi Aldobrandini e Perretti Montalto che avevano avuto l'incarico di ispezionarle, le dotò di 400 scudi per spese di mantenimento e di un protettore che fu in un primo momento il cardinale Ludovico de Tones e, alla morte di questi, il cardinale Giustiniani.
Nel 1611 il Calasanzio comprò la casa di Donna Vittoria Cenci de Tones, detta S. Pantaleo, e vi trasferì le scuole pie (di cui fu nominato Prefetto), che di là passarono poi al nuovo Collegio, detto Calasanzio.
Per perpetuare le scuole pie, il Calasanzio pensò di unire la sua nascente congregazione a quella della Madre di Dio, da poco fondata dal venerabile Padre Leonardi; ma i Padri di quest'ultima, dopo aver accettato tale unione nel 1614, la rifiutarono nel 1617, ed allora il papa Paolo V il 6/3/1617 istituì le Scuole Pie in una nuova congregazione religiosa, alla quale diede il nome di Paolina (con i voti di povertà, castità, ubbidienza e dall'insegnamento gratuito) e nominò il Calasanzio Prefetto Generale. Furono vestiti di quest'abito il Calasanzio ed altri 14 compagni pochi giorni dopo dal cardinale Giustiniani, protettore, ed il fondatore delle Scuole Pie mutò il suo nome in quello di Giuseppe della Madre di Dio. All'inizio questo ordine era scalzo e fu Alessandro Villa concedergli di calzarsi. 1118/9/1621 Gregorio XV sollevò la congregazione ad istituto con il nome di Chierici regolari poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie, ed il 13/1 dell'anno seguente ne approvò le costituzioni, capolavoro di sapienza cristiana circa il governo dell'Ordine e delle Scuole. Nel 1622 il Calasanzio fu creato Generale del Papa. In breve quest'ordine si sparse per lo Stato Romano, Napoli, Sicilia, Sardegna, Toscana, Liguria, Polonia e Germania. In quasi tutti gli altri luoghi d'Italia il Calasanzio fondò personalmente le case e inizialmente si occupò solo di fanciulli poveri e di studi primari, successivamente anche di quelli superiori, più precisamente dal 1630, anno in cui accettò la direzione del Collegio Nazareno, così chiamato dal suo fondatore cardinale Michelangelo Tonti, arcivescovo di Nazareth.
La sorprendente vitalità dell'ordine suscitò molte invidie interne da parte di chierici operai (laici), aspiranti al sacerdozio al quale non erano destinati, ed esterne dovute a sentimenti contrastanti di opposizione e di emulazione soprattutto da parte dei Gesuiti.
Nonostante quindi il Calasanzio fosse religioso di infinite virtù, fu calunniato al Santo Ufficio, dove vi fu condotto legato, innanzi al Papa Innocenzo X, che distrusse il suo ordine con bolla del 16/3/1646, riducendolo a semplice congregazione soggetta alle dipendenze degli Ordinari, senza Superiore Generale, senza voti, con facoltà ai membri di passare ad altre congregazioni.
Egli si rassegnò ai voleri divini ed il 25/8/1648, come aveva predetto, a 92 anni, volò in cielo fiducioso nell'avvenire del suo ordine.
Per i moltissimi e clamorosi miracoli e per la sua santità il 18 -11 -1748 fu beatificato da Benedetto XIV e poi canonizzato da Clemente XIII il 16/7/1767. Nel 1656 Alessandro VII restituì l'Istituto delle, Scuole Pie a congregazione di voti semplici, con propri Superiori e con le antiche costituzioni del loro Fondatore; Clemente IX nel 1669 lo ricondusse allo stato e i ordine di voti solenni, con tutti i privilegi ed i diritti di cui innanzi godeva e Clemente XII nel 1731, contro ostili accusatori, affermò e riconobbe espressamente alle Scuole Pie il diritto di insegnare a giovani di qualsiasi condizione, nobili o plebei, qualsiasi disciplina letteraria e scientifica, dalle prime classi alle su superiori.
La causa della verità e della giustizia era vinta dunque per sempre!
Quest'ordine ha dato alla chiesa diversi vescovi e molti padri insigni per pietà e dottrina, oltre a molte celebrità tra gli alunni da essi educati nei diversi loro collegi.
Bibliografia
- Ceva Grimaldi F. - Memorie storiche della città di Napoli – pag. 499 – Napoli 1857
- Pavone M. A. – Angelo e Francesco Solimena, due culture a confronto(catalogo della mostra), pag. 67 – 68 - 82 – 83 - Pagani 1990
- AA. VV - Opuscolo sul Palazzo Tirone redatto dalla Scuola Media “Vittorio Emanuele II”. – Napoli 1997
- della Ragione Achille – Repertorio fotografico a colori del Seicento napoletano, I tomo, pag. 8 – 30; II tomo, pag. 116 – Napoli 2011
- della Ragione Achille – Paolo De Matteis opera completa, pag. 7 – 78 – Napoli 2014
RispondiEliminaComplimenti studio ed articolo veramente sontuoso dottissimo veramente superbo
Giancarlo Righi Lancellotti
Caro Achille,
RispondiEliminagrazie per la tua bella ed efficace valorizzazione di uno dei tanti sconosciuti tesori dell'architettura napoletana.
Una piccola osservazione di carattere botanico.
Le "mortelle" di cui al palazzo non credo si riferiscano al mirto (Myrtus communis) tipico della macchia mediterranea, ma piuttosto alla mortella o bosso (Buxus sempervirens) arbusto della flora europea, usato da secoli per creare le siepi tanto comuni nei Giardini all'italiana e non solo.
Lo ricordo perché nel giardino di mio nonno napoletano, Fulco Tosti di Valminuta nell'Alto Lazio, c'erano molte siepi di bosso (che lui definiva "mortella"), oggetto di cure del suo giardiniere.
Cari saluti,
Fulco Pratesi