31/10/2010
Scrivere sulla pazzia è difficile, ancor più difficile è far un film sul dramma della vita nel manicomio e renderlo appetibile ad un pubblico che quando va a cinema spesso vuole soltanto svagarsi e si rifiuta di pensare, perciò la Pecora nera, opera prima di Ascanio Celestini, non ha avuto nelle sale lo stesso successo che aveva fatto presagire il lungo applauso con il quale era stato accolto alla Mostra di Venezia, dove in platea vi erano spettatori più sensibili e qualificati.
La pellicola, assai singolare e dissonante, deriva da un testo teatrale prima e letterario poi dello stesso autore che vuole rappresentare una denuncia delle tristi condizioni in cui sono relegati i diversi. Girato nel padiglione 8 dell’ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà a Roma e derivato da una serie di interviste ad ex pazienti, narra la storia di Nicola, reduce da ben 35 anni di internamento, il quale è affetto da un irrefrenabile soliloquio demenziale, provocato da una serie di diagnosi superficiali, di terapie inadeguate e di elettroshock punitivi. Da sempre ospite di un manicomio, dove già da bambino visitava la madre ricoverata, il protagonista aiuta la madre superiora ogni giorno a fare la spesa nel supermercato, altro luogo di alienazione e divide la stanza con un amico, affetto da fobie sessuali irrisolte.
A Venezia da noi intervistato il regista cantastorie ci ha detto di essersi spostato dalla dimensione politica a quella etica, dalla società all’individuo, perché se ce ancora una speranza è nelle persone che va cercata. La sua non è tanto un’operazione di denuncia quanto un’analisi surreale e suggestiva.
Lei ama descrivere l’apocalisse culturale e la crisi di identità dell’uomo contemporaneo, perché ha scelto il manicomio?Il manicomio somiglia a tante altre istituzioni come le carceri e le stesse scuole, nelle quali l’individuo è deresponsabilizzato e ridotto ad una terribile condizione infantile.
Perché è tanto interessato ad esplorare il disagio?Oggi viviamo un momento delicato quello che i filosofi definiscono il passaggio dall’epica alla tragedia: gli dei svaniscono trasformando gli esseri umani in esili burattini senza fili che si accasciano al suolo. Per questo che mi ha sempre affascinato raccontare la perdita di senso nei confronti delle grandi istituzioni: il prigioniero nel lager, l’operaio alla catena di montaggio, il giovane nell’anonimato del call center, il ricoverato nel manicomio.
Ascanio ci ha poi confidato che da tempo pensa di misurarsi con l’efferatezza del pianeta carcere, ma ha bisogno di molto tempo per documentarsi; ci ha però promesso che quanto prima farà sentire la sua voce di denuncia sulle intollerabili condizioni di vita dei nostri penitenziari.
Nella Pecora nera la querelle sulla legge Basaglia e la chiusura dei manicomi con la sua trance scenica e la voce narrante fuori campo, suadente e declamatoria, somiglia ad una piece alternativa in auge negli anni Sessanta e rinvia ad un nuovo e più impegnativo progetto la possibilità di indagare con maggiore profondità la realtà contemporanea, che Celestini potrà raggiungere quando avrà imparato a disciplinare meglio la sua vena creativa.
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