domenica 25 agosto 2013

DUE ANNI DI BUDDISMO A REBIBBIA


Da circa due anni sono, per quanto innocente, “gradito ospite” (definizione  dell’Ispettore Capo Giannelli quando presentai il mio ultimo libro sulla napoletanità al Palazzo Odescalchi di Roma), nel carcere di Rebibbia. 
Dal primo momento ho seguito un interessante corso di buddismo diretto, con alcuni validi collaboratori, da Antonello, figlio del compianto Mario Riva, leggendario presentatore del Musichiere, una delle trasmissioni cult della Rai. E qui scatta l’ipotesi del Karma perché a 10 anni avevo partecipato, vincendo, ad una puntata del Musichiere riservata ai bambini (a 25 anni parteciperò al Rischiattutto di Mike Bongiorno).
Mi avvicinai al corso di buddismo non solo per curiosità ma soprattutto perché all’inizio, nell’equipe degli istruttori, vi era una psicanalista che venne a trovarmi più volte al reparto 68, con la quale contavo di illustrare questa pratica,  che cerca la pace interiore e la serenità dell’animo, come possibile rimedio per tollerare meglio le asperità e le tribolazioni della vita da recluso.
Con tale finalità sono anche in contatto con uno studioso americano che da anni compie esperimenti su tipo “arancia meccanica” inducendo, attraverso la visione forzata di episodi violenti, a disintossicarsi dalla debordante carica di aggressività insita in molti abitanti del pianeta carcere. 
Presi in esame, senza alcuna preclusione ideologica, la meditazione trascendentale e la ricerca della fede, lo yoga e l’ipnosi al fine di creare un utile vademecum, da pubblicare e distribuire nei penitenziari, che costituisse una bussola alternativa al metodo adoperato attualmente come unico mezzo per tenere calmi i bollenti spiriti di molti, che sconfina costantemente nella somministrazione massiccia di psicofarmaci che, in breve, trasformano tante, troppe persone da uomini, cui è stata tolta, oltre alla libertà anche la dignità, in pallidi ectoplasmi, automi disarticolati, marionette impazzite.
Questo libro è ancora incompleto e la pratica del buddismo ne costituirà un capitolo fondamentale.
Mi ero già avvicinato allo studio del buddismo una decina di anni fa.
L’evento scatenante fu un pellegrinaggio a Medjugorje compiuto da una cugina di mia moglie, cattolica tiepida e preside, la quale accompagnò una sua allieva gravemente malata e 2-3 volte, nel corso delle preghiere, ripetute ossessivamente, cadde, senza saperselo spiegare, in estasi.
L’episodio mi incuriosì e, da laico inveterato, andai alla ricerca di una spiegazione razionale dell’accaduto.
Con l’aiuto di un docente universitario di fisica, esperto in acustica, esaminammo accuratamente la lunghezza d’onda delle litanie lauretane e scoprimmo che era identica a quella del ritmo incalzante del “nam myoho renge kyo”, parola d’ordine della Soka Gakkai, la corrente buddista più seguita in Italia, la stessa insegnata a Rebibbia.
Proprio in questi ultimi anni, recenti studi di neurobiologia, utilizzando la PET, hanno dimostrato che questi suoni, riprodotti in laboratorio, fatti ascoltare a volontari, stimolano “loci cerebrali” specifici, deputati al raggiungimento dell’estasi e dell’orgasmo.
Torniamo al corso di Rebibbia, facendo una premessa: il buddismo nell’ultimo secolo ha assunto il ruolo di  religione cosmopolita sia per i fenomeni migratori legati alla globalizzazione, che hanno visto trasferirsi comunità di asiatici in Europa, America del Nord ed Australia, sia perché lassismo dei costumi, crollo delle tradizioni e decadenza spirituale hanno indotto molti a convertirsi alla nuova credenza.
In Italia, in particolare, la scuola buddista più seguita, la già citata Soka Gakkai, sta aumentando il numero di proseliti al ritmo del 10% annuo ed ormai, con 70.000 fedeli ufficiali (quelli che hanno ricevuto il “Gohonzon”, sorta di battesimo) ed i praticanti occasionali sono ormai il doppio degli ebrei e, dopo cattolici e musulmani, costituiscono la terza comunità religiosa del Paese.
In Italia questa scuola è arrivata da una cinquantina d’anni e, pur basandosi sugl’insegnamenti del Budda storico, vissuto nel V secolo a.C., s’impernia su una lettura riformata ed anticonvenzionale di Nichiren Daishonin, una sorta di San Francesco nipponico, contemporaneo del Patrono d’Italia.
Il buddismo, a differenza dell’induismo, non crede all’esistenza di un’anima immortale e descrive l’uomo come una combinazione di forze ed energie fisiche e mentali, ritenendo che ognuno passi da una vita all’altra attraverso innumerevoli rinascite (Samsara) che dipendono dalle azioni passate (Karma).
La cantilena dei praticanti, cui abbiamo accennato: “nam myoho rengekyo”, si può letteralmente tradurre: “dedico la mia vita al Dharma, alla legge mistica del Sutra del loto”.
In parole povere, il seguace della Soka si rammenta e crede fermamente, che ogni nostro pensiero ha un impatto, negativo o positivo, non solo sulla felicità personale ma su quella dell’intero universo.
Da qui nascono le nobili battaglie in favore della pace, dell’ambiente e per il rispetto reciproco tra etnie e religioni.
Un programma propositivo degno di essere accettato ed incoraggiato, perché si propone la felicità collettiva ed una forma, a mio parere, di immortalità surrogata.
Non vorrei dilungarmi e concludo con ciò che ha rappresentato per me la frequenza di questo corso di buddismo: il rafforzamento della mia convinzione che il comportamento dei singoli deve perseguire non solo la propria felicità ma anche quella del prossimo.
Milioni di uomini di antiche e sagge civiltà hanno creduto e credono nella comunione del destino di tutti i viventi.
Sono pensieri che ci danno l’idea della nostra miseria e della nostra nobiltà: sperduti nell’infinita immensità dello spazio, destinati a vivere un lampo a confronto dell’eternità, non riusciamo a credere che la nostra coscienza si sia accesa per caso, a contemplare un universo ostile o quanto  meno indifferente al nostro destino. 

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