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(settima puntata)
fig. 1 - Fergola Salvatore- Inaugurazione della Napoli Portici |
La perdita del ruolo di capitale dopo l’unità d’Italia è stato per Napoli l’inizio di una decadenza che ancora non si è fermata dopo 150 anni. Dai primati positivi ed erano tantissimi, la città è passata a quelli negativi, mentre una sistematica opera di falsificazione della realtà è stata portata avanti da storici collusi col potere, il cui verbo distorto è stato propagandato in tutti i libri, divenendo programma di insegnamento nelle scuole.
I conquistatori piemontesi cambiarono i nomi a strade e piazze per cancellare ogni traccia del passato, imponendo toponimi legati alla loro dinastia ed al nuovo corso degli avvenimenti.
L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legato alla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della loro identità perduta.
Interminabili furono i record del Regno delle due Sicilie al cospetto di quelli negativi di oggi, da capitale della monnezza a territorio incontrastato della criminalità organizzata.
Un segno tangibile di inversione di tendenza sarebbe quello di cambiare il nome di alcune strade, per cancellare le tracce della colonizzazione piemontese avvenuta con la truffa dell’Unità d’Italia: piazza del Plebiscito dovrebbe tornare al toponimo di Largo di Palazzo, via dei Mille andrebbe mutata in corso Gianbattista Basile o meglio ancora Achille Lauro, piazza Garibaldi, tolta al famigerato eroe dei due mondi, origine di tutti i nostri guai, va decisamente intitolata al 3 ottobre 1839, giorno dell’inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana (fig.1–2), la Napoli Portici, mentre il corso Vittorio Emanuele, la prima tangenziale del mondo, aspetta ancora giustizia e la dedica al nome del suo ideatore, Ferdinando II (fig.3), che la realizzò in poco più di un anno.
Infatti nel 1853 il re borbone Ferdinando II realizzava in pochi mesi un’arteria di cinque chilometri (fig.4–5), che, superando delicati problemi orografici, metteva in collegamento la parte occidentale della città con la parte orientale, permettendo l’urbanizzazione di vaste aree.
L’opera fu apprezzata in tutta Europa per le soluzioni tecniche e la velocità di esecuzione. I napoletani cavallerescamente vollero dedicarla alla regina Maria Teresa, ma il toponimo ebbe breve durata, perché subito dopo l’unità d’Italia, i Savoia decisero che un nuovo nome: corso Vittorio Emanuele, dovesse ricordare il loro re conquistatore dell’antico regno, anche se la strada era stata realizzata da un altro sovrano.
Questa appropriazione indebita è passata sotto silenzio per 150 anni, ma è giunto il momento per fare giustizia di questi soprusi del passato, grazie al certosino lavoro di coraggiosi storici che, lentamente, ci stanno insegnando a rivalutare la nostra storia gloriosa.
Un invito perentorio va avanzato perciò al sindaco di voler dedicare questa strada a chi l’ha ideata e realizzata nell’interesse della sua amata città: Ferdinando II.
Identico discorso va fatto per il biglietto da visita che la città offre ai forestieri, la quale si è sempre chiamata della Ferrovia, anche se i napoletani preferivano chiamarla da’ stazione (fig.6). Poi giunse Garibaldi con i piemontesi è la musica cambiò, ma soprattutto cominciò l’opera di falsificazione sistematica della nostra storia; infatti il luogo così caro ai napoletani assunse prima, nel 1891, la denominazione di piazza dell’Unità d’Italia, per divenire poi, nel 1914, in coincidenza con l’inaugurazione della statua dell’eroe dei due mondi, piazza Garibaldi.
Ricordo ancora con commozione quando alla testa di un gruppo di cittadini, esasperati dalle lentezze burocratiche, fisicamente sovrapposi a quelle del comune targhe nuove di zecca con l’indicazione di piazza 3 ottobre 1839, una data fatidica della storia napoletana, che i nostri colonizzatori hanno fatto di tutto per farci dimenticare. In quel lontano giorno, prima in Italia e seconda al mondo, sfrecciò la prima ferrovia italiana: la Napoli Portici.
Avevo informato stampa e televisioni delle nostre intenzioni e scelsi come giorno il 4 luglio, bicentenario della nascita di Garibaldi. Presa in prestito una scaletta da un negoziante di tessuti, applicai la nuova scritta ed improvvisai un discorso alla folla, immortalato da 12 emittenti private, che trasmisero in differita l’episodio agli spettatori di diverse regioni, mentre i giornali ne parlarono il giorno dopo entusiasti. La notizia della burla giunse fino in Francia sulle pagine di Le Monde. Due vigili urbani, un uomo ed una donna, incuriositi dall’assembramento, chiesero timidamente alla folla cosa stesse succedendo. Qualcuno rispose: “Quel signore ha cambiato il nome alla piazza”; “Allora va bene, tutto a posto”. Le nuove targhe sono rimaste in loco per mesi, senza che nessuna autorità intervenisse e solo la pioggia le ha portato via.
L’anno scorso l’impresa è stata ripetuta da un’organizzazione neo borbonica, sempre senza riuscire a smuovere l’amministrazione comunale dal suo torpore criminale.
L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legato alla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della loro identità perduta.
Attendere che a ciò provvedano le istituzioni è pura utopia, per cui solo dei liberi cittadini possono sanare una palese ingiustizia.
Tutto il mondo deve sapere che i napoletani sono gente antica e paziente, ma che in passato la città ha rifiutato l’Inquisizione e dato i natali a Masaniello; essa non vuole recidere le radici col passato e vuole un futuro migliore.
Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo ancora distinguere tra il clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed il frangersi del mare sulla scogliera sottostante.
Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e la forza dei Napoletani, gelosi del loro passato ed arbitri del loro futuro, costretti a vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente, del quale ci siamo scocciati e da oggi vogliamo divenire attivi artefici del nostro destino.
Palazzo Donn'Anna (fig.7–8), una delle dimore più famose della città, è la location dove, complice la fertile fantasia di Matilde Serao, sono ambientate una serie di leggende erotiche, che hanno come protagoniste le due regine Giovanna I (fig.9–10) e Giovanna II (fig.11), vissute l'una nel Trecento e l'altra nel Quattrocento, alcune centinaia di anni prima della costruzione dell'edificio, che risale alla fine del XVII secolo.
Nella memoria popolare ed anche tra gli studiosi più accreditati si confondono le figure delle due sovrane, che in comune avevano una condotta sessuale quanto mai disinibita, ma ciò che si racconta deve essere ambientato nei sotterranei del Maschio angioino, complice un famelico coccodrillo, che faceva piazza pulita dei numerosi amanti delle regine, dopo aver espletato le pulsioni sessuali più sfrenate.
Le origini del palazzo risalgono alla fine degli anni trenta del 1600, quando venne innalzato per la volontà di donna Anna Carafa (fig.12), consorte del viceré Ramiro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres (fig.13). Il progetto per la realizzazione fu commissionato al più importante architetto della città di quel periodo, Cosimo Fanzago, che nel 1642 approntò un disegno secondo i canoni del barocco napoletano che prevedesse tra le altre cose anche la realizzazione di un doppio punto d'ingresso, uno sul mare ed uno da una via carrozzabile che si estendeva lungo la costa di Posillipo. Per la costruzione del palazzo, fu necessario demolire una preesistente abitazione cinquecentesca (villa Bonifacio). Il Fanzago, però, non riuscì a completare l'opera per via della prematura morte di donn'Anna, avvenuta in un contesto di insorgenza popolare a causa della temporanea caduta del viceregno spagnolo, con la conseguente fuga del marito della stessa verso Madrid (1648).
L'edificio rimasto incompiuto assunse lo spettacolare fascino di una rovina antica confusa fra i resti delle ville romane, che caratterizzano il litorale di Posillipo e fra gli anfratti delle grotte.
Il palazzo subì alcuni danni durante la rivolta di Masaniello del 1647 e durante il terremoto del 1688.
Il palazzo è lo scenario di una delle più celebri leggende napoletane scritte da Matilde Serao. Nel libro Leggende napoletane la scrittrice così lo dipingeva:
Un'altra leggenda metropolitana, riportata dalla stessa Matilde Serao, narra di un fantasma della giovane e bellissima Mercedes de las Torres che in una scena teatrale baciò il nobile Gaetano di Casapenna, amante della viceregina Anna Carafa. La giovane, nipote della nobildonna Carafa, scomparve misteriosamente. Così conclude la Serao in merito alla leggenda di "Palazzo Donn'Anna":
Vogliamo concludere proponendo la soluzione di un mistero, che appassiona decine di migliaia di lettori, anche se è di una stupidità assoluta: scoprire l'identità di Elena Ferrante (fig.14), lo pseudonimo dietro al quale si nasconde la scrittrice (o lo scrittore) più venduto degli ultimi anni soprattutto sul mercato anglo sassone.
Elena Ferrante, scrittrice italiana pubblicata in tutto il mondo, consigliata perfino da Michelle Obama, è stata identificata, dopo scrupolose indagini fiscali con Anita Raja (fig.15). Ma chi è Anita Raja? Nella realtà è una traduttrice dal tedesco – già collaboratrice della casa editrice e/o -, moglie di un altro protagonista delle lettere, lo scrittore Domenico Starnone (fig.16), anch’egli indicato in passato come possibile “penna” di questo fenomeno letterario.
Tutto inizia con lo scoop di Claudio Gatti, uscito sul Domenicale del Sole 24 Ore e in contemporanea sul New York Review of Books, il Frankfurter Allgemeine Zeitung e Mediapart.
Il giornalista ha utilizzato quelle che chiama “evidenze finanziarie” ovvero ha fatto i conti in tasca alla traduttrice e a suo marito, incrociando i loro introiti con i bilanci della casa editrice, che pubblica i libri della scrittrice fantasma. Man mano che questi ultimi salivano, arrivando a circa 7 milioni di euro, anche i compensi della Raja sarebbero lievitati, aumentando del 150%, con acquisti di case da parte della traduttrice e di Starnone a Roma e in Toscana.
La parte più interessante della vicenda è quello che è accaduto in rete, dove la reazione dei lettori è stata clamorosa quanto la notizia che l’ha generata. I fan di Elena Ferrante si sono ribellati contro quella che hanno percepito come un’invasione della privacy di tutti i soggetti coinvolti. Il senso dei loro messaggi è che nessuna rivelazione potrà mai rovinare la magia dei suoi romanzi, che conquistano tutti a prescindere da chi si celi dietro lo pseudonimo dell’autrice.
Sembrava tutto finito ed invece non è così. Almeno stando ai risultati del lavoro di un gruppo di professori universitari provenienti da tutto il mondo che hanno fatto un’opera investigativa collettiva basata sulla comparazione di 150 romanzi e 40 autori contemporanei attraverso il metodo dell’analisi quantitativa degli elementi lessicali e stilistici ricorrenti. Il gruppo di ricercatori si sono incontrati giovedì all’università di Padova nel workshop Drawing Elena Ferrante’s profile per discutere insieme i risultati del loro lavoro di ricerca. E l’esito è stato clamoroso quanto imprevedibile: Elena Ferrante non è la moglie di Domenico Starnone. E’ proprio Domenico Starnone.
Ora basta, stiamo parlando di facezie, urge tornare a tematiche serie.
I conquistatori piemontesi cambiarono i nomi a strade e piazze per cancellare ogni traccia del passato, imponendo toponimi legati alla loro dinastia ed al nuovo corso degli avvenimenti.
L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legato alla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della loro identità perduta.
Interminabili furono i record del Regno delle due Sicilie al cospetto di quelli negativi di oggi, da capitale della monnezza a territorio incontrastato della criminalità organizzata.
Un segno tangibile di inversione di tendenza sarebbe quello di cambiare il nome di alcune strade, per cancellare le tracce della colonizzazione piemontese avvenuta con la truffa dell’Unità d’Italia: piazza del Plebiscito dovrebbe tornare al toponimo di Largo di Palazzo, via dei Mille andrebbe mutata in corso Gianbattista Basile o meglio ancora Achille Lauro, piazza Garibaldi, tolta al famigerato eroe dei due mondi, origine di tutti i nostri guai, va decisamente intitolata al 3 ottobre 1839, giorno dell’inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana (fig.1–2), la Napoli Portici, mentre il corso Vittorio Emanuele, la prima tangenziale del mondo, aspetta ancora giustizia e la dedica al nome del suo ideatore, Ferdinando II (fig.3), che la realizzò in poco più di un anno.
Infatti nel 1853 il re borbone Ferdinando II realizzava in pochi mesi un’arteria di cinque chilometri (fig.4–5), che, superando delicati problemi orografici, metteva in collegamento la parte occidentale della città con la parte orientale, permettendo l’urbanizzazione di vaste aree.
L’opera fu apprezzata in tutta Europa per le soluzioni tecniche e la velocità di esecuzione. I napoletani cavallerescamente vollero dedicarla alla regina Maria Teresa, ma il toponimo ebbe breve durata, perché subito dopo l’unità d’Italia, i Savoia decisero che un nuovo nome: corso Vittorio Emanuele, dovesse ricordare il loro re conquistatore dell’antico regno, anche se la strada era stata realizzata da un altro sovrano.
Questa appropriazione indebita è passata sotto silenzio per 150 anni, ma è giunto il momento per fare giustizia di questi soprusi del passato, grazie al certosino lavoro di coraggiosi storici che, lentamente, ci stanno insegnando a rivalutare la nostra storia gloriosa.
Un invito perentorio va avanzato perciò al sindaco di voler dedicare questa strada a chi l’ha ideata e realizzata nell’interesse della sua amata città: Ferdinando II.
Identico discorso va fatto per il biglietto da visita che la città offre ai forestieri, la quale si è sempre chiamata della Ferrovia, anche se i napoletani preferivano chiamarla da’ stazione (fig.6). Poi giunse Garibaldi con i piemontesi è la musica cambiò, ma soprattutto cominciò l’opera di falsificazione sistematica della nostra storia; infatti il luogo così caro ai napoletani assunse prima, nel 1891, la denominazione di piazza dell’Unità d’Italia, per divenire poi, nel 1914, in coincidenza con l’inaugurazione della statua dell’eroe dei due mondi, piazza Garibaldi.
Ricordo ancora con commozione quando alla testa di un gruppo di cittadini, esasperati dalle lentezze burocratiche, fisicamente sovrapposi a quelle del comune targhe nuove di zecca con l’indicazione di piazza 3 ottobre 1839, una data fatidica della storia napoletana, che i nostri colonizzatori hanno fatto di tutto per farci dimenticare. In quel lontano giorno, prima in Italia e seconda al mondo, sfrecciò la prima ferrovia italiana: la Napoli Portici.
Avevo informato stampa e televisioni delle nostre intenzioni e scelsi come giorno il 4 luglio, bicentenario della nascita di Garibaldi. Presa in prestito una scaletta da un negoziante di tessuti, applicai la nuova scritta ed improvvisai un discorso alla folla, immortalato da 12 emittenti private, che trasmisero in differita l’episodio agli spettatori di diverse regioni, mentre i giornali ne parlarono il giorno dopo entusiasti. La notizia della burla giunse fino in Francia sulle pagine di Le Monde. Due vigili urbani, un uomo ed una donna, incuriositi dall’assembramento, chiesero timidamente alla folla cosa stesse succedendo. Qualcuno rispose: “Quel signore ha cambiato il nome alla piazza”; “Allora va bene, tutto a posto”. Le nuove targhe sono rimaste in loco per mesi, senza che nessuna autorità intervenisse e solo la pioggia le ha portato via.
L’anno scorso l’impresa è stata ripetuta da un’organizzazione neo borbonica, sempre senza riuscire a smuovere l’amministrazione comunale dal suo torpore criminale.
L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legato alla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della loro identità perduta.
Attendere che a ciò provvedano le istituzioni è pura utopia, per cui solo dei liberi cittadini possono sanare una palese ingiustizia.
Tutto il mondo deve sapere che i napoletani sono gente antica e paziente, ma che in passato la città ha rifiutato l’Inquisizione e dato i natali a Masaniello; essa non vuole recidere le radici col passato e vuole un futuro migliore.
Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo ancora distinguere tra il clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed il frangersi del mare sulla scogliera sottostante.
fig. 2 -Inaugurazione della ferrovia Napoli-Portici - Caserta Palazzo Reale, quadreria |
fig. 3 -Statua Ferdinando II |
fig. 4 - Attilio Pratella - corso Vittorio Emaneuele |
fig. 5 - Attilio Pratella - corso Vittorio Emaneuele |
fig. 6 - Vecchia stazione di Napoli |
Palazzo Donn'Anna (fig.7–8), una delle dimore più famose della città, è la location dove, complice la fertile fantasia di Matilde Serao, sono ambientate una serie di leggende erotiche, che hanno come protagoniste le due regine Giovanna I (fig.9–10) e Giovanna II (fig.11), vissute l'una nel Trecento e l'altra nel Quattrocento, alcune centinaia di anni prima della costruzione dell'edificio, che risale alla fine del XVII secolo.
Nella memoria popolare ed anche tra gli studiosi più accreditati si confondono le figure delle due sovrane, che in comune avevano una condotta sessuale quanto mai disinibita, ma ciò che si racconta deve essere ambientato nei sotterranei del Maschio angioino, complice un famelico coccodrillo, che faceva piazza pulita dei numerosi amanti delle regine, dopo aver espletato le pulsioni sessuali più sfrenate.
Le origini del palazzo risalgono alla fine degli anni trenta del 1600, quando venne innalzato per la volontà di donna Anna Carafa (fig.12), consorte del viceré Ramiro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres (fig.13). Il progetto per la realizzazione fu commissionato al più importante architetto della città di quel periodo, Cosimo Fanzago, che nel 1642 approntò un disegno secondo i canoni del barocco napoletano che prevedesse tra le altre cose anche la realizzazione di un doppio punto d'ingresso, uno sul mare ed uno da una via carrozzabile che si estendeva lungo la costa di Posillipo. Per la costruzione del palazzo, fu necessario demolire una preesistente abitazione cinquecentesca (villa Bonifacio). Il Fanzago, però, non riuscì a completare l'opera per via della prematura morte di donn'Anna, avvenuta in un contesto di insorgenza popolare a causa della temporanea caduta del viceregno spagnolo, con la conseguente fuga del marito della stessa verso Madrid (1648).
L'edificio rimasto incompiuto assunse lo spettacolare fascino di una rovina antica confusa fra i resti delle ville romane, che caratterizzano il litorale di Posillipo e fra gli anfratti delle grotte.
Il palazzo subì alcuni danni durante la rivolta di Masaniello del 1647 e durante il terremoto del 1688.
fig. 7 - Palazzo Donn'Anna |
fig. 8 - Palazzo Donn'Anna |
fig. 9 -Giovanna I |
«Il bigio palazzo si erge nel mare. Non è diroccato, ma non fu mai finito; non cade, non cadrà, poiché la forte brezza marina solidifica ed imbruna le muraglie, poiché l'onda del mare non è perfida come quella dei laghi e dei fiumi, assalta ma non corrode. Le finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senza pensiero; nei portoni dove sono scomparsi gli scalini della soglia, entra scherzando e ridendo il flutto azzurro, incrosta sulla pietra le sue conchiglie, mette l'arena nei cortili, lasciandovi la verde e lucida piantagione delle alghe. Di notte il palazzo diventa nero, intensamente nero; si serena il cielo sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle, fosforeggia il mare di Posillipo, dalle ville perdute nei boschetti escono canti malinconici d'amore e le malinconiche note del mandolino: il palazzo rimane cupo e sotto le sue volte fragoreggia l'onda marina… »Nelle credenze popolari Donn'Anna viene confusa con la famosa e discussa regina Giovanna d'Angiò che qui avrebbe incontrato i suoi giovani amanti, scelti fra prestanti pescatori e con i quali trascorreva appassionate notti di amore, per poi ammazzarli all'alba facendoli precipitare dal palazzo; la leggenda vuole che le anime di questi sventurati giovanotti tuttora si aggirino nei sotterranei dell'antica dimora, affacciandosi al mare ed emettendo lamenti. Altri invece raccontano che la regina facesse uscire il suo amante con una barca a remi dall'entrata che dà sul mare, quella che oggi è possibile vedere dalla spiaggia, tuttora usata dagli inquilini per accedere alle imbarcazioni.
Un'altra leggenda metropolitana, riportata dalla stessa Matilde Serao, narra di un fantasma della giovane e bellissima Mercedes de las Torres che in una scena teatrale baciò il nobile Gaetano di Casapenna, amante della viceregina Anna Carafa. La giovane, nipote della nobildonna Carafa, scomparve misteriosamente. Così conclude la Serao in merito alla leggenda di "Palazzo Donn'Anna":
«Quei fantasmi sono quelli degli amanti? O divini, divini fantasmi! Perché non possiamo anche noi, come voi, spasimare d'amore anche dopo la morte? »Per Raffaele La Capria, che ne fece uno dei luoghi del suo "Ferito a morte, si tratta di una «maestosa mole cadente e quasi una rovina, ma bellissima, al cospetto del mare».
Vogliamo concludere proponendo la soluzione di un mistero, che appassiona decine di migliaia di lettori, anche se è di una stupidità assoluta: scoprire l'identità di Elena Ferrante (fig.14), lo pseudonimo dietro al quale si nasconde la scrittrice (o lo scrittore) più venduto degli ultimi anni soprattutto sul mercato anglo sassone.
Elena Ferrante, scrittrice italiana pubblicata in tutto il mondo, consigliata perfino da Michelle Obama, è stata identificata, dopo scrupolose indagini fiscali con Anita Raja (fig.15). Ma chi è Anita Raja? Nella realtà è una traduttrice dal tedesco – già collaboratrice della casa editrice e/o -, moglie di un altro protagonista delle lettere, lo scrittore Domenico Starnone (fig.16), anch’egli indicato in passato come possibile “penna” di questo fenomeno letterario.
Tutto inizia con lo scoop di Claudio Gatti, uscito sul Domenicale del Sole 24 Ore e in contemporanea sul New York Review of Books, il Frankfurter Allgemeine Zeitung e Mediapart.
Il giornalista ha utilizzato quelle che chiama “evidenze finanziarie” ovvero ha fatto i conti in tasca alla traduttrice e a suo marito, incrociando i loro introiti con i bilanci della casa editrice, che pubblica i libri della scrittrice fantasma. Man mano che questi ultimi salivano, arrivando a circa 7 milioni di euro, anche i compensi della Raja sarebbero lievitati, aumentando del 150%, con acquisti di case da parte della traduttrice e di Starnone a Roma e in Toscana.
La parte più interessante della vicenda è quello che è accaduto in rete, dove la reazione dei lettori è stata clamorosa quanto la notizia che l’ha generata. I fan di Elena Ferrante si sono ribellati contro quella che hanno percepito come un’invasione della privacy di tutti i soggetti coinvolti. Il senso dei loro messaggi è che nessuna rivelazione potrà mai rovinare la magia dei suoi romanzi, che conquistano tutti a prescindere da chi si celi dietro lo pseudonimo dell’autrice.
Sembrava tutto finito ed invece non è così. Almeno stando ai risultati del lavoro di un gruppo di professori universitari provenienti da tutto il mondo che hanno fatto un’opera investigativa collettiva basata sulla comparazione di 150 romanzi e 40 autori contemporanei attraverso il metodo dell’analisi quantitativa degli elementi lessicali e stilistici ricorrenti. Il gruppo di ricercatori si sono incontrati giovedì all’università di Padova nel workshop Drawing Elena Ferrante’s profile per discutere insieme i risultati del loro lavoro di ricerca. E l’esito è stato clamoroso quanto imprevedibile: Elena Ferrante non è la moglie di Domenico Starnone. E’ proprio Domenico Starnone.
Ora basta, stiamo parlando di facezie, urge tornare a tematiche serie.
fig. 10 - Giovanna I |
fig. 11 -Giovanna II |
fig. 12 - Anna Carafa |
fig. 13 - Vicerè Ramiro Ramiro Núñez de Guzmán |
fig. 14 - L'amica geniale |
fig. 15 - Anita Raja |
fig. 16 - Domenico-Starnone |
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