01 - Lapide Gustavo Lombardo |
La nascita del cinema e della televisione ed il trionfo del cafè chantant
La nascita del cinema italiano è avvenuta all’ombra del Vesuvio, anzi, ad essere più precisi, sulla verde (allora) collina del Vomero, quando un secolo fa sorgeva la prima casa discografica made in Italy.
Si tratta di un altro dei tanti primati della città di cui si è perso il ricordo, perché non basta certo una piccola targa per imprimere nella mente del distratto viandante quella straordinaria avventura rappresentata per anni da studios all’avanguardia e generazioni di tecnici ed artisti alternatisi nella produzione di molteplici pellicole proiettate nei cinematografi di tutta la penisola.
Siamo ai primi del Novecento, in un momento di grandi cambiamenti a Napoli, che cerca di digerire la perdita del ruolo di capitale, attivandosi nel cambiare il volto della città attraverso il piccone del Risanamento, cercando di liberarsi dalla morsa del malaffare con l’inchiesta Saredo, che metterà in luce un perverso intreccio di interessi tra politica e camorra, purtroppo perpetuatosi fino ai nostri giorni. Sono i giorni della nascita dell’Ilva, che fornirà lavoro a migliaia di addetti, collaborando alla crescita di una coscienza operaia, ma che priverà per sempre i cittadini di una spiaggia formidabile, sono gli anni della Belle Epoque, dei divertimenti folli, del pullulare di fermenti artistici e letterari in perfetta sintonia con i circoli culturali europei.
In questo fervore creativo si colloca la figura di Gustavo Lombardo (fig.1), un giovane studente universitario, che dopo un’esperienza nel campo del noleggio dei film, una novità assoluta perché allora gli esercenti dovevano acquistarli, rilevò gli stabilimenti della Poli film, ed ampliandoli pose le fondamenta per la nascita di una Cinecittà partenopea.
In poco tempo si gireranno oltre cinquanta pellicole, caratterizzate non solo da un’ambientazione locale, ma anche da un respiro nazionale, le quali vedranno tra le principali interpreti Leda Gys (fig.2), destinata a divenire una delle più celebri attrici del cinema italiano, all’epoca rigorosamente muto e la moglie del suo produttore.
Alcuni film erano delle traduzioni per lo schermo di celebri sceneggiate e lo sfondo per il racconto è rappresentato dal lungomare, dai vicoli, dalle feste popolari, dal porto, che in quei tristi anni significava emigrazione verso l’America, la meta preferita anche di tanti film accolti con un entusiasmo delirante dalle comunità oltreoceano, non solo dai napoletani, ma da tutti i meridionali, i quali riconoscevano ancora in Napoli la loro capitale morale. Spesso famosi tenori seguivano la tournee offrendo la loro voce per la colonna sonora, ma gli spettatori si accontentavano di poco e nonostante il muto, le immagini avevano una tale forza da sfociare nel sonoro…
In pochi anni in città si moltiplicano le case di produzione più o meno piccole, quasi tutte a livello artigianale, a volte addirittura a conduzione familiare, tra queste ricordiamo la Vesuvio film di Roberto Troncone sorta nel 1908 in una ridente villetta del Vomero, con i suoi attrezzati teatri di posa e le sue dive come la mitica Francesca Bertini (fig.3). All'inizio degli anni Venti, la Dora Film (fig.4) dei Notari (Nicola nelle vesti di produttore, regista e operatore, sua moglie Elvira (fig.5) in quelle di soggettista e regista ed il figlio Eduardo, col soprannome di Gennariello, in quelle di attore) sopravvisse alla crisi dell’epoca conquistando le folle degli emigrati in America. Le sequenze dei celebri A santa notte o È piccerella si sincronizzavano sull’accompagnamento del pianoforte, mentre le didascalie esprimevano con un lessico che imitava la forma spezzata del dialetto. Il bianco e nero stilizzava una Napoli insieme arcadica e tragica, mentre gli attori recitano con sentimentale impeto. Si gira quasi tutto all’esterno, perché negli interni vi è un insormontabile problema di illuminazione.
In contemporanea alla produzione di film sorgono come funghi i luoghi della fruizione: i cinematografi. La prima a nascere è la Sala Recanati, sorta nel 1897, a cui seguirono la Sala Roma in Galleria, il Salon Parisien in piazza Municipio, il Vittoria in via Roma e l’Olympia in via Chiaia.
Tra le altre merita un cenno la Sala Cattaneo, nata dalla trasformazione di uno squallido baraccone dove si esibivano donne barbute ed uomini nerboruti. Il proprietario si arricchì rapidamente, aprì un nuovo locale in via Poerio: la Sala Iride e si costruì a Posillipo una splendida dimora, divenuta oggi l’ospedale Fatebenefratelli.
Egli fu anche l’artefice del primo tentativo di dare voce al muto collocando due attori ai lati dello schermo con degli altoparlanti al posto delle orchestrine, che aggiungevano un tocco di musica ad alcune scene.
Poi nel 1928 la casa cinematografica di Lombardo si trasferisce a Roma dove sorgono con investimenti dello Stato grandi stabilimenti ed il sogno della Hollywood del Vesuvio tramonta tristemente, ma il cinema continuerà a nutrirsi della napoletanità come di una linfa vitale e vizi e difetti dei napoletani faranno da musa ispiratrice ad infiniti film di grande successo, da Le quattro giornate di Napoli a Il camorrista, da Carosello napoletano a La Sfida, da L’oro di Napoli a Le Mani sulla città e potremmo continuare a lungo, anche escludendo i più di cento film di Totò, un epifenomeno, un marziano, che va considerato come un pianeta a parte. Il cinema napoletano è stato un infinito palcoscenico di situazioni e sentimenti ed ha rispecchiato fino in fondo la sua innata carica di pathos. Fantasia ed ironia, antica saggezza e grande euforia, ma anche solidarietà e sofferenza si amalgamarono sapientemente con la poeticità delle sceneggiature, la varietà dei temi, la genialità artigianale, l’arte innata e versatile dei grandi interpreti e l'indiscutibile spettacolarità dei panorami. Dal felice connubio tra la musica, le arti, la poesia, il teatro ed il cinema è risultato un affascinante prorompente messaggio culturale che subito si è diffuso fuori dal contesto partenopeo, per divenire universale e simbolico dell’essere Italiani. La contraddittoria energia sprigionata dalla città, tante volte deprecata, è stata infatti capace di produrre per il cinema un patrimonio inestimabile di immagini, che narrano storie indissolubilmente impregnate di cruda realtà, capricciosa fantasia e sferzante ironia, antica saggezza e facile euforia.
02 - Leda Gys |
03 - Locandina cinematografica |
04 - Dora film |
05 - Elvira Notari |
Rossellini in Paisà dipinge il senso dell'abbandono morale, del degrado, ma anche del desiderio di rinascere, suscitati dalla guerra fascista. Stessi temi sviluppati da Eduardo nella poetica Napoli milionaria. Vittorio De Sica gira L'oro di Napoli, tratto dai racconti dello scrittore Giuseppe Marotta. Ettore Giannini confeziona il capolavoro di Carosello napoletano (1953), che riesce a fondere lo spirito "alto" e quello "basso" dell'anima popolare napoletana: uno spettacolo totale, in cui canto, danza e recitazione s'intrecciano finemente in uno sfavillante caleidoscopio di storia e natura, sogno e realtà. Con La sfida, premiato alla Mostra di Venezia del 1958, Francesco Rosi coniuga denuncia e suspense con un rigore ed una tensione degni del noir americano e cinque anni dopo, con Le mani sulla città, accentua l'indignazione civile puntando il dito contro l'intreccio politico che favorisce il malaffare.
Accanto ai film d'autore, esplode un nuovo boom di film popolari: un gran numero di film a basso costo, facile presa e grande guadagno, sprezzantemente definiti dalla critica "lacrimevoli", che però venivano incontro al desiderio del pubblico di ritrovarsi con il proprio dialetto, le proprie canzoni, i propri volti e di appassionarsi a storie verosimili quanto improbabili, prevedibili quanto commoventi. I MaIaspina di Roberto Amoroso, costato due milioni di lire, ne incasserà trecentottanta, di cui quarantacinque provenienti da due sale di New York.
Segnato dalle critiche, il cinema napoletano si avviava intanto al tramonto. Il panorama produttivo diventa man mano desolato. Si distingue ancora Salvatore Piscicelli con Immacolata e Concetta (1979) e Le occasioni di Rosa (1981) o Antonio Capuano con le sue desolanti denunce sociali.
Il film napoletano ha perso la battaglia contro una critica che non voleva più “sole, pizza e mandolino” (ma cosa voleva?) e si è rifugiato nel piccolo schermo dove ogni giorno, c’è spazio per Totò, Peppino De Filippo,Tina Pica e tanti altri eroi della napoletanità: I due orfanelli, Totò al giro d'Italia, Fifa e arena, Totò cerca casa, L'imperatore di Capri, Totò cerca moglie ... in questi vilipesi capolavori di massa il fuoco della vita e della recita si bruciano nel trionfo della vitalità sottoproletaria, che non si piega alla speranze, né apre verso un lieto fine. L'arte d'arrangiarsi, la fame, l'imbroglio, la beffa, l'avidità sessuale perenne dichiarano guerra a tutte le istituzioni: Totò resta così per sempre il grande ambasciatore della napoletanità non addomesticata, il portabandiera irredimibile dell'indiavolata vitalità del sottosviluppo partenopeo, che è cinema e dramma nello stesso tempo.
La radio non ha primati da vantare, perché le prime trasmissioni ufficiali italiane partirono da Roma il 6 ottobre 1924, mentre Radio Napoli nacque, dopo alcuni mesi di esperimenti, il 28 ottobre 1926, prima in un appartamento di via Cesario Console e poi in una sede più adeguata in via Egiziaca a Pizzofalcone, dove dispose di un’orchestra stabile per la canzone napoletana.
Anche la prima televisione privata nasce a Napoli, nonostante le pretese avanzate da Tele Biella. Il merito di questo altro primato che può vantare la città è del vulcanico ingegnere ed inventore partenopeo Pietrangelo Gregorio (fig.7), il quale, il 23 dicembre del 1966, attivò il segnale via cavo di Telediffusione italiana – Telenapoli, il cui marchio venne ufficialmente registrato 4 anni dopo, il 17 dicembre 1970; per trasformarsi poi nel 1976 in Napoli Canale 21, grazie al sostegno economico dell’editore Andrea Torino.
L’ingegnere fu un rivoluzionario del tubo catodico, in un momento in cui imperava solitario il monopolio della televisione di Stato. Egli trasformò un cantinato in uno studio televisivo e sperimentò una televisione alternativa di quartiere, realizzata da un cittadino per i cittadini, dando a tutti la possibilità di esprimersi.
Gregorio, ancora attivo nel settore della web tv, come ci rievoca in un’intervista esclusiva, collegò ad un amplificatore le antenne del palazzo di piazza Cavour dove abitava e poi fece degli accordi con gli esercizi commerciali della zona, molti dei quali allestirono delle sale per assistere alle trasmissioni, che occupavano alcune ore serali e si basavano su notizie locali, canzoni, barzellette, cabaret e piccoli messaggi pubblicitari. Erano periodi eroici, non si poteva registrare e tutto avveniva in diretta. In contemporanea debuttavano sull’emittente gruppi comici destinati a divenire famosi come i Cabarinieri di Lucia Cassini, Renato Rutigliano ed Aldo De Martino.
Poi venne Filo diretto una trasmissione innovativa durante la quale si telefonava al pubblico che diveniva il vero protagonista, lamentandosi di ciò che non funzionava in città ed a volte chiedendo aiuto. Le istituzioni, prima guardinghe, in seguito erano attente ai contenuti del programma ed a volte esaudivano le richieste pubbliche degli spettatori.
Gregorio è anche l’autore della prima trasmissione a colori, avvenuta il 24 maggio 1971 ed è titolare di oltre 300 invenzioni di cui ha depositato il brevetto.
Nel 1973 Telenapoli poteva vantarsi di essere la più importante televisione via cavo d’Europa, contando su 380 chilometri di cavo, 6 studi televisivi e 150 dipendenti, tra cui 15 giornalisti.
Poi con la liberalizzazione dell’etere e l’abolizione della diffusione via cavo tutto cambiò. Le televisioni libere divennero commerciali, entrò in campo Berlusconi ed il mercato cambiò per sempre per divenire ciò che, nel bene e nel male, è ai nostri giorni.
Sul finire del XIX secolo, quando Parigi divenne il simbolo del divertimento e della vita spensierata, i caffè chantant valicarono le Alpi per essere importati anche in Italia. La novità esplose a Napoli, dove l’epoca d’oro del caffè concerto coincise con quella della canzone napoletana. Nel 1890 per merito dei fratelli Marino, che capirono l’importanza di un’attività commerciale redditizia da unire al fascino della rappresentazione dal vivo, venne infatti inaugurato l’elegante Salone Margherita (fig.8), incastonato nella Galleria Umberto I.
L’idea fu vincente e ricalcò totalmente il modello francese, persino nella lingua utilizzata: non solo i cartelloni erano scritti in francese, ma anche i contratti degli artisti e il menu. I camerieri in livrea parlavano sempre in francese, così come gli spettatori: gli artisti, poi, fintamente d’oltralpe, ricalcavano i nomi d’arte in onore ai divi e alle vedettes parigine. E’chiaro come la clientela che affollasse il Salone Margherita non fosse gente del popolino: in ogni caso, per i più disparati gusti, sorsero altri cafè concert come l’elegante Gambrinus, l’Eden, il Rossini, l’Alambra, l’Eldorado, il Partenope, la Sala Napoli ed altri ancora che ricalcavano spesso, anche nel nome, i cafè chantant (fig.9) parigini. Anche altri bar di Napoli, che in passato non presentavano spettacoli, si adattarono al gusto del momento presentando numeri di varietà misti a canzoni.
Solitamente gli spettacoli proposti erano presentati in successione, con un intervallo tra primo e secondo tempo del susseguirsi di rappresentazioni. Solo verso la fine del primo tempo qualche personaggio noto appariva in scena ma il clou veniva raggiunto al termine, quando il divo eseguiva il suo numero. Importanti e famosi artisti che iniziarono la loro carriera proprio nei caffè concerto furono Anna Fougez (fig.10), Lina Cavalieri, Lydia Johnson, Leopoldo Fregoli, Ettore Petrolini, Raffaele Viviani.
Il cafè-chantant divenne in Italia non solo un luogo ed un genere teatrale, ma anche qui, come in Francia, il simbolo della bella vita e della spensieratezza, nel pieno della coincidenza con la Belle èpoque (fig. 11).
Al successo della canzone napoletana si accompagna la nascita del cafè chantant con l’inaugurazione del Salone Margherita, una settimana dopo l’apertura della Galleria Umberto I, che in breve diverrà il cuore pulsante della cultura e della mondanità cittadina. Il nuovo locale occuperà gli spazi sotterranei ed ottenne in breve lasso di tempo un successo internazionale, grazie al coraggio imprenditoriale dei fratelli Marino, che sul loro palcoscenico fecero sfilare le più celebri vedettes internazionali, come la Bella Otero (fig.12) o Cleo de Mérode, alle quali si affiancarono non meno brave ed affascinanti prime donne indigene, che, pur sfoggiando modelli e pseudonimi francesi, in onore del paese dove era nato quel tipo di spettacolo, erano originarie del Vasto o del Pallonetto.
Assursero a grande notorietà anche molti comici come Gill, Pasquariello e Maldacea o magnifiche cantanti, tra le quali spiccava il nome di Elvira Donnarumma, la prediletta di Libero Bovio.
Sciantosa (fig.13) deriva dal francese chanteuse che vuol dire cantante, ma anche primadonna, attrazione, fantasia: quella che oggi si definirebbe una star.
Sull’esempio del cafè chantant di Parigi, negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, a Napoli furoreggiò il caffè concerto, con protagonista, appunto, le sciantose. Per essere il più possibile simili alle colleghe d’oltralpe, le indigene adottavano nomi d’arte francesizzanti e gli autori di canzoni ironizzavano volentieri su questa moda. Nacquero così “A frangesa” di Mario Costa nel 1894, “Lily Kangy” del 1905 (la macchietta di successo di Nicola Maldacea) e infine la famosa “Ninì Tirabusciò” (fig.14), un nome ed un cognome certo più eleganti di Nina Cavatappi. Questa leggendaria figura fu creata nel 1911 da Califano e Gambardella e negli anni Sessanta il ritornello, che fu il cavallo di battaglia di Gennaro Pasquariello, venne rilanciato in televisione e al cinema da Monica Vitti in veste di sciantosa. In epoca più vicina a noi le gustose tiritere di Ninì Tirabusciò sono state rivisitate da Mirna Doris, autentica vedette dell’avanspettacolo, dalla dosata ironia e dal gustoso piglio popolaresco.
Il successo del cinema fu tale che anche il mitico Salone Margherita fu costretto ad inserire, all’interno della programmazione serale, alcuni minuti di proiezione di un film. Una consuetudine che si ripeterà dopo circa 50 anni con l’avvento della televisione: infatti, a dimostrazione che ogni nuovo mezzo espressivo cerca di scalzare il precedente, il giovedì sera tutti i cinematografi interrompevano la pellicola in corso per permettere al pubblico di seguire la puntata di “Lascia o raddoppia” con un allora giovanissimo, ma già irresistibile, Mike Bongiorno.
Poco tempo dopo l’inaugurazione della Galleria Umberto I, al suo interno fu aperto il Caffè Calzona. Ben presto i napoletani impararono a conoscerlo per le serate di gala e i luculliani banchetti ufficiali che vi si tenevano.
Fu qui che, al ritorno da Parigi, fu festeggiata Matilde Serao per il successo raccolto in terra francese e fu al Calzona che, per la prima volta sul palcoscenico di un Cafè chantant napoletano, ancor prima che al Salone Margherita, si esibirono le girls. Era la mezzanotte del 31dicembre 1899, quando 12 bellissime ragazze, con il loro balletto, un po’ osè per quei tempi, salutarono l’Ottocento come il secolo d’oro appena concluso e diedero il benvenuto al neonato Novecento.
Ma gli spettacoli di varietà nel Caffè della Galleria non costituivano un avvenimento eccezionale: erano in programma ogni sera. Il piccolo palcoscenico, posto proprio al centro e rivolto verso Via Santa Brigida, fu calcato da personaggi dello spettacolo rimasti famosi, in particolare dalla coppia Scarano Moretti, cioè il padre e la madre di Tecla Scarano. Gli spettacoli del Calzona avevano tale successo di pubblico che anche i giornali dell’epoca, spesso, ne pubblicavano le recensioni. Di solito, i critici dei quotidiani seguivano solo le prime dei lavori in scena nei numerosissimi teatri napoletani.
Anche il Caffè della Galleria, per i prezzi particolarmente bassi che praticava e per gli spettacoli gratuiti e di buon livello, era divenuto un punto d’incontro tra le classi ricche e quelle meno abbienti. Con la spesa di soli tre soldini si prendeva il caffè seduto al tavolino e si poteva trascorrere l’intera serata a godersi lo spettacolo.
C’era chi, più fortunato, poteva assistere dalle finestre del suo ufficio al primo piano. Era il caso di Matilde Serao che, dalla redazione del Il Giorno, tra uno scritto e l’altro, volgeva volentieri lo sguardo verso il piccolo palcoscenico del Calzona.
Il Caffè, con la sua attività di spettacoli e con il suo pubblico eterogeneo, fornì lo spunto ad una macchietta, inventata dal cronista mondano del Mattino Ugo Ricci. La interpretò l’attore Nicola Maldacea (fig.15) nel vicinissimo Salone Margherita. Nel dialogo si magnificavano le caratteristiche del locale: <In fatto di cafè, presentemente, non v’è di meglio d’ ‘o Cafè Calzona…/ Questa è la mia modesta opinione: sempre secondo il mio modo ‘e vedè>.
In realtà qualcosa di meglio doveva esserci se è vero che pian piano il Calzona perse la parte più consistente della sua clientela in favore di altri locali, in particolare, a beneficio dei soliti Gambrinus e Salone Margherita.
In questi anni, dopo Ninì Tirabusciò, nata dalla penna prolifica di Aniello Califano, Ferdinando Russo firma il primo fascicolo della Piedigrotta e, grazie alla casa discografica Polyphon, annunzia l’ambizioso progetto di esportare la canzone napoletana in tutto il mondo.
Giungeranno così per i siti più lontani la poetica del nostro animo sognante, l’idea di un mare divino, di un sole ammaliante, della nostre armonie gentili ed accattivanti.
Il fenomeno dei cafè chantant napoletani fu tale che in breve tempo cominciò ad espandersi nelle altre grandi città italiane. La prima città ad introdurli a sua volta fu Roma. Il perché di tale diffusione non deve stupire: così come a Napoli, anche a Roma, a Catania, a Milano, a Torino ed in molte altre città letterate d’Italia si riunivano spesso, nei bar e nelle trattorie, cantanti e poeti che, nel corso di riunioni semiprivate, si dedicavano al canto ed alla declamazione di poesie. Questa forma artigianale di spettacolo fu il fertile terreno su cui si basò il successo dei caffè-concerto, che negli ultimi anni del 1800 aprirono anche nella Capitale.
Sempre i fratelli Marino, già proprietari del Salone Margherita di Napoli, inaugurarono nella Capitale due nuovi locali: un altro Salone Margherita e, successivamente, il Teatro Sala Umberto. A questi seguirono numerosi altri cafè chantant dai nomi altisonanti ed esotici (non proprio tutti: il primo caffè concerto della città, aperto in Via Nazionale, portava il poco allegro nome di “Cassa da morto”).
06 - Eliana Merolla |
07 -L'ingegner Gregorio nello studio di Telenapoli con Pasquale Squitieri e Claudia Cardinale |
08 -Salone Margherita in una stampa dello '800 |
09 - Cafè chantant in un disegno di Galante |
010 -Anna Fougez |
011 - Bella epoque |
012 - Bella Otero |
013 - Sciantosa |
014 -Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa |
015 - Nicola Maldacea |
Vorremmo concludere delineando la figura di Ersilia Sampieri (fig.16), al secolo Ersilia Amorosi, la prima diva del cafè chantant. Torinese di nascita e napoletana di adozione, usò la sua fama e la sua ricchezza per aiutare i bisognosi. Era orfana dei genitori, che le lasciarono un solo capitale: una prorompente bellezza ed una bella voce. Dopo aver lavorato in una compagnia di bambini, la Lillipuziana, in breve si trovò ad esibire nei locali del lungomare di Marsiglia. A Napoli si trasferì a 17 anni e, con il nome di Piccola Andalusa, si esibiva alla Birreria dell’Incoronata, cantando in napoletano, francese e spagnolo. Divideva il palco con giovani di grande talento come Elvira Donnarumma ed il macchiettista Davide Tatangelo. Alla fine girava col piattino per le offerte, facendo intravedere il seno. Passò poi al Caffè Scotto Jonno e da lì spiccò il volo per esibirsi nei locali italiani più rinomati con puntate anche all’estero.
Nel 1901, quando i fratelli Marino la scritturarono al Salone Margherita, era già una diva. Vi rimase sei anni, alternando esibizioni a Parigi e Londra, dove venne definita la “Sarah Bernhard del caffè concerto”, mentre Edoardo Scarfoglio preferiva l’epiteto di “la Fenice della Fenice”.
Gli impresari le misero a disposizione un secondo camerino, dove procurava lavoro, trovava un letto in ospedale, facilitava permessi ed esoneri ai militari: tutto solo per umanità.
Su di lei circolavano svariate leggende: amante di un rampollo di casa Savoia o membro della massoneria.
Di lei si innamorò perdutamente Libero Bovio, che le dedicò una struggente poesia.
Nel 1907 sposò Mister Muscolo, un lottatore acrobata gelosissimo, che le vietò le attività benefiche e la portò in breve alla separazione ed alla solitudine.
A Parigi fece innamorare un petroliere e durante una tournée in Medio Oriente, conquistò un pascià disposto a follie pur di averla nel suo harem.
Resse la scena fino ai 45 anni e piano piano, finiti i risparmi, per sopravvivere si improvvisò chiromante con studio a Roma. Resistette 12 anni, poi finì all’ospizio dove si spense a 78 anni nel 1955.016 - Ersilia Sampieri |
Inesattezze, bugie ed imprecisioni sulla storia di Napoli.
Errori madornali e boiate pazzesche a volontà
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Errori madornali e boiate pazzesche a volontà
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