domenica 4 aprile 2021

Dalla nascita dei manicomi alla loro chiusura

  

fig.1 -  Prete esorcista

 La parola manicomio deriva dal greco manìa (follia) e komèo (curare).     
Nell’antichità la malattia, veniva spesso ricondotta all’intervento di forze soprannaturali, divine, per questo veniva “curata” attraverso riti mistico-religiosi. I sacerdoti di quell’epoca, cercavano di leggere messaggi che provenivano dall’aldilà.   
Nel Medioevo, invece, le persone che manifestavano comportamenti ritenuti “bizzarri”, venivano considerate possedute; ed anche in questo caso la “cura” era affidata ad esponenti della Chiesa (fig.1), tentando di combattere la possessione e, soprattutto le donne venivano messe al rogo, con l’idea che l’anima si allontanasse o si rimuovesse il più rapidamente possibile.            
Nell’Età Classica il problema della follia perse il carattere mistico-religioso e iniziò ad essere considerato da un punto di vista sociale. I folli erano coloro che rappresentavano una minaccia per la società, da allontanare e rimuovere il più velocemente possibile. L’idea di allontanare dalla società chiunque fosse considerato pericoloso si verificò in seguito alla Riforma attuata da Martin Lutero (aiutando le persone povere ci si poteva guadagnare la salvezza in Paradiso), ma con la negazione di questa riforma, la povertà perse questo significato trasformandosi in una colpa attribuibile alla persona.       
Nel XVII secolo, con la nascita della psichiatria (fig.2), si iniziò a denunciare il sistema correttivo capendo che la maggior parte delle persone rinchiuse non aveva bisogno di alcun trattamento. Tuttavia la malattia mentale continuava ad essere considerata incomprensibile, ed i metodi restavano disumani.       
Proprio in questo periodo sorsero moltissime case di internamento, destinate a rinchiudere in un’unica struttura una varietà di persone rifiutate dalla società: persone con malattie mentali, poveri, vagabondi, mendicanti, criminali, dissidenti politici e vagabondi. Qui le persone non venivano per essere curate, ma per finire i propri giorni di vita lontano dalla società. Una volta entrate in questi luoghi, esse venivano spogliate della loro dignità e trattate senza alcun rispetto. Allo stesso tempo vivevano in condizioni disumane ed erano costrette a punizioni corporali.  
Vi erano cancelli, inferriate, porte e finestre sempre chiuse; catene, lucchetti e serrature ovunque. Le cure consistevano nell’internamento e nell’isolamento e gli strumenti erano quelli adatti a provocare stati di shock nelle persone. Il cambiamento nell’elaborazione delle concezioni della mente e del suo funzionamento, si ebbe tra la fine ‘800 e inizio ‘900, anni in cui nacque la psicoanalisi (fig.3).  
Gli ospedali psichiatrici istituiti in Italia dal XV secolo furono, regolati per la prima volta, nel 1904. Furono chiamati manicomi e la richiesta di queste strutture venne richiesta da alcuni ordini monastici, da amministrazioni provinciali o da medici illustri.     
Nei manicomi italiani entravano malati affetti da disturbi mentali, ma anche persone che avevano la colpa di rappresentare un pericolo per la società: senza tetto, sbandati e principalmente oppositori politici. Il manicomio, divenne il più pratico strumento per “togliere” di mezzo persone scomode, bypassando lunghi e complessi iter giuridici.   
Nel XIX secolo, a causa del crescente numero dei malati, si iniziò a discutere una legge che potesse regolare tutti i manicomi del Paese. Già dal 1874 venne proposto un “progetto di regolamento” che però non venne mai attuato. Nel 1891 in una ispezione sui manicomi del Regno, le strutture presentavano scarsa qualità o fatiscenza nei locali, inadeguatezza degli strumenti di cura, scarse condizioni igieniche, mancanza di una registrazione e vi era il sovraffollamento. Anche se formalmente le autorizzazioni erano sempre necessarie, per evitare complicazioni e ritardi, si praticava l’ammissione d’urgenza con domanda di autorizzazione agli organi competenti. La legge venne approvata nel febbraio 1904 con alcune modifiche, rimanendo in vigore fino al 1978.     
Il manicomio diventava, il sostituto del carcere o del semplice ospedale, l’alleanza fra psichiatri e tutori dell’ordine, il ricovero era non solo di “pazzi” ma anche di paralitici, alcolisti, degenerati, oligofrenici, tossicomani, dementi e tutti quei soggetti che potevano dare scandalo alla società o alla famiglia. Negli anni del fascismo fu un “arma” per eliminare in maniera silenziosa una persona che raffigurava l’oppositore politico ed anche l’omosessuale.       
A sancire il ricovero d’urgenza, senza alcuna volontà della persona (TSO), non era solo l’autorità di pubblica sicurezza, ma anche la figura politica con nomina governativa, che dal 1926 sostituì quella del sindaco.    
Le condizioni di vita, in un manicomio, erano ben peggiori di quelle di un qualsiasi penitenziario. Le terapie applicate erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, l’elettroshock (fig.4) praticato in maniera selvaggia, le docce fredde, l’insulino-terapia, la lobotomia. Questi trattamenti si basavano sulla speranza di modificare qualcosa nel paziente creandogli uno shock ed un malato di mente vi entrava come “persona” per poi diventare una “cosa”.       
Ovviamente, nei manicomi non era previsto nessun tipo di colloquio terapeutico, perché il problema psichiatrico aveva la solo eccezione biologica e non psicologica. Ai pazienti era impedito di avere contatti con l’esterno e non usufruivano, più, di nessun tipo di rapporto umano. Questo provocava dei veri e propri quadri di deterioramento mentale e fisico.       
Un paziente con disturbo psichiatrico, all’epoca dei manicomi, coinvolgeva tutta la sua famiglia andando incontro a limitazioni (l’impossibilità di fare concorsi pubblici, la difficoltà di spostarsi, il nascondersi e l’allontanamento come fosse una malattia contagiosa). Una volta diagnosticato, la persona perdeva, anche, una serie di diritti civili e politici (il voto, i beni immobili, l’eventuale eredità); la malattia veniva annotata nel casellario giudiziario, con conseguente macchia sulla fedina penale, come individuo pericoloso.
L’utilizzo non proprio ortodosso dei manicomi non terminò con la caduta del Fascismo e tantomeno con la fine della 2° Guerra Mondiale. La permanenza delle persone, in cui le condizioni erano a dir poco peggiori, li portava ad una morte anticipata nel più assoluto, colpevole e raccapricciante silenzio.
Intorno al 1950, con la scoperta del primo neurolettico la clorpromazina (fig.5), antagonista della dopamina, comincia a cambiare anche il trattamento del “folle”. La società iniziò a condannare i manicomi come luoghi in cui le persone perdevano la loro identità.
Negli anni ’60 si inaugurarono i primi governi dove affermavano l’aspettativa di un cambiamento e di apertura anche sulla psichiatria. Vi era l’intento di trasformare i manicomi in ospedali psichiatrici dove poter curare, se non addirittura guarire, i malati di mente; si cominciò a parlare, anche, di Unità Sanitaria Locale.    
Nel 1965, il ministro della sanità, tento l’avvio di una riforma, ovviamente non tutti si dimostrarono favorevoli per la paura di mescolare i “matti” tra la gente “normale”. Il movimento antipsichiatrico partì da Gorizia per poi diffondersi anche nel resto d’Italia. A Nocera Superiore venne abolito l’elettroshock, il direttore dell’Istituto prese contatti con Basaglia. Il 1968 fu l’anno della svolta, vi fu l’occupazione dell’Ospedale di Colorno per richiamare l’attenzione della città sui problemi della reclusione manicomiale; in Italia vennero approvate alcune modifiche normative iniziando a prevedere il ricovero volontario e si cominciarono ad istituire i centri di igiene mentale a livello provinciale. Si abbatteva la regola dell’annotazione nel casellario giudiziario il paziente non perdeva più i diritti civili (come quello di votare); il paziente aveva la possibilità di effettuare un ricovero volontario; nascono le cliniche private, i pazienti potevano avere una via d’uscita dal manicomio. L’idea, comunque, non cambiava e i manicomi rimanevano sempre luoghi di aberrazione.
Nel 1977 si cominciò a considerare la tutela della salute quale diritto fondamentale della persona e interesse della collettività, sottolineando la necessità di creare un Servizio Sanitario, in grado di affrontare la malattia mentale in un’ottica completamente differente.  
Nel 1978 arriverà la famosissima legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale dove il cittadino era garantito e non vi era nessuna distinzione di ceto o etnia, per il recupero della salute fisica e psichica.   
Pian piano le persone cominciarono a rendersi conto della realtà del manicomio ed è in questo clima che nasce la legge 180. Una vera rivoluzione storica grazie al suo promotore, Basaglia, che in molti ritengono che sia stata proprio questa legge a permettere di chiudere i manicomi, anche se in realtà rappresentava soltanto l’inizio di un processo culturale e politico molto complesso.    
Solo sul finire degli ’80, a seguito della definitiva applicazione della legge Basaglia, i manicomi furono definitivamente chiusi. La strada è stata lunga e tortuosa, piena di ostacoli che hanno impedito per molto tempo a tantissime persone di sentirsi tali.    
Il primo manicomio in area napoletana sorse ad Aversa e nel tempo questa struttura ha cambiato molte volte denominazione: Pazzeria degli incurabili, Reale Casa de’ matti, Reale manicomio della Maddalena, Real Ospedale Psichiatrico di Aversa, Ospedale psichiatrico S. Maria Maddalena.    
La prima  sede manicomiale del Regno era però ubicata nel cinquecentesco Ospedale “degli Incurabili” di Napoli, il primo ospedale in senso moderno d’Europa, e che aveva al proprio interno  anche una sezione dedicata ai malati di mente chiamata senza mezzi termini “Pazzeria”    
In età borbonica  però ci si accorse della sua inadeguatezza e la necessità di creare degli spazi appositamente attrezzati e configurati anche se fu, tuttavia, il Re di Napoli Gioacchino Murat nel 1813 che con un Regio decreto   mise mano alla questione e fondò le “Reali Case de’ matti”.   
Il fatto che molte di queste Case fossero ospitate in antichi conventi e ne mantenessero la struttura non è un caso visto che la loro creazione coincise con un periodo storico  di grandi espropri di possedimenti ecclesiastici. Murat stesso  non fece eccezione visto che nel 1809 nel quadro di una riforma di ammodernamento dello Stato confiscò più di un centinaio di monasteri destinandoli ad uso civile rimanendo cosi  anche dopo la fine del periodo Napoleonico e la “Restaurazione”.    Aversa non fece eccezione ed il primo nucleo fu sistemato nel confiscato convento della Maddalena. Questa casa di cura è importante anche (e soprattutto..) perché  si specializzò nella cura con metodi innovativi e  non repressivi, attraverso il “Trattamento morale”. Questo trattamento fu messo a punto da due grandi alienisti francesi: Jean Etienne Dominique Esquirol e Philippe Pinel. I due  teorizzarono un  trattamento di cura per  “I folli” fatto di  una organizzazione di vita  quasi monastica, con  regole ed orari  ma anche divertimenti e svaghi con  occupazioni in attività varie come ascolto di musica, attività teatrali etc.     
Ai giorni nostri parleremmo  di  un percorso  di riabilitazione fatto di socializzazione e di reinserimento in società.     
Questo percorso risulta ancor più strabiliante e  davvero rivoluzionario se pensiamo  che le cure primordiali per  i folli erano fatte di  salassi, purghe “per permettere l’evacuazione delle parti folli del sé”, bagni gelati, punizioni e contenzione. I Borbone, dopo la restaurazione, una volta tornati sul trono dopo gli eventi rivoluzionari, non cancellarono questi metodi curativi intuendone la portata rivoluzionaria ed, anzi, ne fecero un vanto del Regno in tutta Europa, facendo assurgere Napoli a Capitale all’avanguardia nella cura delle malattie mentali.         
Con la legge Basaglia, si fecero largo le nuove idee progressiste sulla malattia mentale e piano piano il manicomio aversano perse d’importanza.  Le prime avvisaglie della fine fu la famosissima legge del 1978  del Servizio Sanitario Nazionale, ma la vera svolta si ebbe con la famosissima legge 180, più conosciuta come Legge “Basaglia”. Da li un lento declino fino a quando l’Ospedale psichiatrico fu svuotato nel 1998 e chiuse definitivamente nel 1999.     
Fu la fine di un’epoca di cui si doveva preservare la memoria e le testimonianze mentre invece  tutto sembra destinato  a cadere nell’oblio, sotto macerie abbandonate.  

 

fig.2 - Nascita della psichiatria

fig.3 -  Sigmund Freud

 

 fig. 4 - Elettroshock


fig.5 - Psicofarmaci, Largactil

 

 fig.6 -Ospedale psichiatrico Santa Maria Maddalena di Aversa

 

 fig.7 -  Cartolina

    
A svariati  anni dalla chiusura, l’Ex Ospedale Psichiatrico di Aversa (fig.6–7) giace ancora  in uno stato di grave e totale abbandono. Il corpo principale del complesso, quello più antico, è ormai fatiscente.  
Fra segni di crolli e cedimenti strutturali preoccupanti, passeggiare  fra i vari padiglioni e il chiostro rinascimentale segnati dall’incuria naturale (e di qualche vandalo) è veramente un colpo al cuore che  rende difficile raccontare la bellezza degli scaloni monumentali, delle architetture borboniche  senza sentirsi rattristati di ciò che era e ciò che sarebbe potuto essere.  
Una tristezza e nel contempo  un senso di angoscia ed inquietudine profonda  che ci avvolge quando passeggiamo verso l’uscita fra gli immensi saloni vuoti, i lunghissimi corridoi (fig.8) dalle pareti scrostate, i grandi finestroni con le sbarre arrugginite, le vasche da bagno (fig.9) dove si ponevano costantemente i ricoverati. Esplorare questo gigante morente, entrare nel suo ventre e perdersi nei suoi meandri polverosi, silenziosi e semibui è una esperienza veramente  forte.   
Riutilizzare l’area si può e si potrà, ma recuperare tutto quello che si è perduto è impossibile, quella bellezza, il  mistero di quello che lentamente sta morendo,  i racconti  di chi ha vissuto qui parte o tutta la propria vita.     
L’ospedale fu abbandonato definitivamente nel  1999 dopo una lenta dismissione, iniziata con la legge Basaglia del 1978. Da allora la natura  dell’immenso giardino si è impossessata di nuovo  degli usci, dei muri  e delle pareti fino a coprire intere ali di questa cittadella che appare ora come una bocca aperta , spalancata verso un cielo ingeneroso urlando il proprio dolore.     
 La splendida chiesa ed il chiostro sono duramente divorati dal tempo, dall’incuria e dai ripetuti atti vandalici. La chiesa, in particolare, non ha più il tetto ed il pavimento è invaso da una vegetazione cresciuta  quasi ad altezza uomo (fig.10). Gli altari laterali in pregiato marmo  cadono a pezzi (o sono stati in alcuni casi “fatti a pezzi”), i confessionali sono a brandelli sepolti dalle macerie e dalla vegetazione, tranne uno che, come un uomo che affoga, affiora tra le piante che cominciano ad avvilupparlo  visto che la vegetazione selvatica ha invaso anche il chiostro e si è ripresa ciò che aveva perso secoli fa.     

 

fig.8 - Corridoi abbandonati

 fig.9 - Vasche da bagno di contenzione

 

 fig. 10 - La vecchia chiesa infestata dalle erbacce

 

fig.11 - Leonardo Bianchi

E passiamo ora a descrivere il Leonardo Bianchi: il labirinto della ragione, intitolato al celebre medico (fig.11). Sito a nord di Napoli, nascosto da un altissimo muraglione, è un luogo che evoca nella gente della contrada antichi fantasmi. Si tratta di uno dei più antichi manicomi d’Italia, tra i più grandi per estensione. E per un curioso scherzo del destino molti di quelli che vi erano internati, e che per le condizioni mentali di malati non risultavano pericolosi e quindi non necessaria la custodia nelle nuove strutture, hanno per anni continuato ad affollare la grande salita che costeggia l’ex ospedale psichiatrico. Come fantasmi, trascinandosi appresso buste di plastica e vecchi borsoni pieni di cianfrusaglie, questa sorta di popolo di Zombie sembrava come attratto magneticamente da quel luogo cui sentiva ancora di appartenere e che reputava ormai essere casa.    
 Ripercorriamo brevemente la storia di questa autentica “città dei matti” (fig.12). La legge provinciale del 1865 all’art. 174 n. 10, sanciva l’obbligo per le stesse di provvedere al mantenimento dei “mentecatti poveri”. La polemica delle province con il direttore del manicomio di Aversa, Gaspare Virgilio, per il sovraffollamento del nosocomio si protraeva ormai da anni. Così tra il 1871 e il 1901 molte province, tra cui Napoli, si distaccheranno da Aversa creando propri nosocomi. L’amministrazione Provinciale di Napoli decise inizialmente di collocare i suoi ammalati alla Madonna dell’Arco di S. Anastasia, nell’ex convento domenicano trasformato in “ospizio destinato a’ deformi, a’ ciechi, a’ malandati in salute ed agli affetti da taluni mali”. In un’altra struttura, sita in località Ponti Rossi, fu anche allestita la sezione “Osservazione”, un reparto dove venivano ricoverati i soggetti per accertarne il grado e la natura della follia e di conseguenza ricoverarli in manicomio o rilasciarli. L’ospizio di Madonna dell’Arco si rivelò da subito inadatto al punto che la Provincia nel 1874 acquistò il fabbricato di S. Francesco di Sales nel cuore della città, lungo la strada dell’Infrascata, oggi via Salvator Rosa. Nonostante fossero stati fatti notevoli adattamenti, autorevoli alienisti dell’epoca, come Miraglia, osteggiarono tale struttura ritenendola inadatta; tuttavia, il manicomio dell’Infrascata aprì nel 1881. Le cose andarono male da subito. Un’inchiesta portata avanti dal governo rilevò gravi irregolarità. La relazione ispettiva denunciava apertamente la gestione economica dei manicomi Arco e Sales, inficiata da incidenti e pesanti ammanchi di denaro. Per un certo periodo le sedi furono ben cinque: S. Maria dell’Arco in S. Anastasia, S. Francesco di Sales all’infrascata, il regio ospizio SS. Pietro e Gennaro a Capodimonte, il manicomio privato Leboffe di Ponticelli e S. Francesco Saverio alle Croci. Tutte inadeguate alla realtà.  Tra il 1883 e l’inizio del 1884 si fece pressante l’idea di dotare la città di Napoli di un manicomio più grande e del tipo a padiglioni separati. Nel 1897 fu individuata l’area e iniziarono i lavori di costruzione. La struttura fu aperta nel 1909, ma completata solo nel 1910. Ai ventinove padiglioni iniziali se ne aggiunsero altri quattro adibiti alle lavorazioni, a cabina elettrica e frigorifero; trentatré in tutto. Il modello terapeutico seguito era quello ritenuto migliore dalla scienza psichiatrica dell’epoca: il malato doveva avere occasioni di svago e di lavoro al fine di essere reinserito nella società. Il manicomio aveva una biblioteca per i folli, una tipografia, una legatoria una calzoleria, un laboratorio per lo sparto e la saggina, una fabbrica di mattonelle, una falegnameria, una officina meccanica, una sartoria e tessitoria, una panetteria e una colonia agricola. Gli internati erano seguiti e guidati nel lavoro dai vari tecnici del settore specifico ed erano retribuiti sia con denaro che con tabacco. Tuttavia, l’enorme aumento del numero di richieste mise in grave crisi la struttura già nel corso della seconda metà degli anni 30.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale determinò un periodo estremamente duro e difficile, poiché la riduzione di personale sanitario e di assistenza chiamato alle armi, la riduzione di generi alimentari e di medicinali determinò notevoli difficoltà terapeutiche e gravissimi disagi ai degenti ricoverati. Nonostante la segnaletica convenzionale internazionale di protezione, la struttura fu bersaglio delle incursioni aeree nemiche. L’8 ottobre 1943 le truppe anglo-americane penetrarono nell’ospedale occupando diverse aree fino all’11 settembre 1946. Non si conosce molto delle vicende legate al periodo della ricostruzione postbellica. Certamente l’ospedale usufruì degli aiuti provenienti dal piano Marshall come sappiamo dagli interventi di riparazione dei danni subiti durante la guerra. L’ultimo ampliamento risale agli anni 50’ a partire dal quale il complesso rimase sostanzialmente come appare oggi. Con la legge 13 maggio 1978 n°180 (cd Legge Basaglia) tra alterne vicende ha continuato la sua funzione fino al progressivo abbandono.
Il manicomio, posto ad 85 metri sul livello del mare, si estende su un’area di 220.000 metri quadri ricchissima di spazi verdi. In essa sono distribuiti trentatré edifici riuniti insieme da ampi passaggi coperti di dimensioni e di epoche diverse, che coprono una superficie di 78.000 mq (fig.13). L’edificio centrale prospiciente l’ingresso principale, che costituisce la sola parte dell’originario complesso tutt’oggi ancora attiva, era adibito agli uffici amministrativi, alla direzione, alla biblioteca, ai gabinetti scientifici, all’alloggio dei medici di guardia e del personale di assistenza religioso. Alle spalle dell’edificio principale sorgevano in progressione i diversi padiglioni adibiti al ricovero degli ammalati: a destra quelli femminili e a sinistra quelli maschili, con al centro fabbricati per i servizi generali e i laboratori.  
I folli erano distribuiti in diverse sezioni individuate sulla base della natura delle patologie. Nel regolamento del 1873 sono presenti solo quattro sezioni senza specificazione alcuna. Dal 1920 l’amministrazione fu tenuta obbligatoriamente a separare “i folli cronici pericolosi da quelli acuti e guaribili, da quelli che possono essere adibiti alle lavorazioni, dai mentecatti cronici tranquilli, dagli epilettici innocui, dai cretini, dagli idioti e dagli infermi mentali inguaribili ma tranquilli”, in applicazione dell’art. 4 del Regolamento del 1909. Dunque, gli ammalati avrebbero dovuto essere divisi in sezioni differenti, allocate nei vari padiglioni di cui si componevano le strutture manicomiali.
Per quel che concerne il criterio di assegnazione dei pazienti nelle sezioni, per molto tempo venne osservato un criterio di selezione abbastanza rigido per le diverse patologie, poi progressivamente superato a causa dell’affollamento del manicomio, eccezion fatta per la VI sezione che, fin dall’epoca della sua costruzione, venne destinata ai folli dimessi dal manicomio criminale; tutte le altre subirono modifiche nel criterio di assegnazione.
Relativamente alle sezioni maschili: la I sezione ospitava infermi schizofrenici e depressi; la II sezione ospitava pazienti affetti da psicopatie dissociative ad evoluzione cronicizzante, da frenastenici cerobropatici, epilettici e distimici; la III sezione, con funzione di infermeria, ospitava infermi affetti da malattie di ordine somatico, acute e croniche, richiedenti cure internistiche e chirurgiche. La IV sezione ospitava folli affetti da tubercolosi. La V sezione ospitava soggetti schizofrenici cronicizzati, neuroluetici, epilettici, oligofrenici, depressi e qualche demente senile. La VI sezione ospitava infermi pericolosi ed impulsivi dimessi dal manicomio criminale (fig.14). La VII sezione ospitava pazienti affetti da schizofrenia, frenastenia, epilettici, alcolisti, depressi e decaduti. L’VIII sezione, con funzione di preinfermeria, ospitava ammalati anziani arteriosclerotici e affetti da forme varie di schizofrenia, frenastenia e distimia. La IX sezione ospitava infermi affetti da forme di psicopatie croniche.
Relativamente alle sezioni femminili: la I sezione ospitava degenti affette per la maggior parte da forme di distimia melanconica, forme mistiche maniaco- depressive, rare schizofrenie; la II sezione ospitava degenti affette da schizofrenia avanzata e da oligofrenia; la III sezione ospitava ammalate tranquille affette da forme morbose varie; la IV sezione accoglieva inferme affette da epilessia e oligofrenia e da decadimento mentale; la V sezione ospitava persone affette da psicopatie non specificate; la VI sezione ospitava inferme dimesse dal manicomio giudiziario e le inferme indesiderabili in altre sezioni con diagnosi e psicopatie ad ampio spettro; la VII sezione era divisa in due reparti: Infermeria A, che accoglieva persone tra ammalate acute e ammalate lungo-degenti; Infermeria B che accoglieva  tubercolotiche; la VIII sezione ospitava  inferme affette da vasculopatie cerebrali e distimie involutive; la IX sezione ospitava pazienti con psicopatie croniche di non specificata natura.
Esplorare questa enorme struttura manicomiale abbandonata è come affacciarsi da una vecchia finestra sverniciata, sporca di polvere e fuliggine ed osservare passare lentamente i fantasmi di un epoca ormai tramontata, ma con echi e strascichi percepibili ancora oggi. Se la decadenza avesse un nome sarebbe quello di questo posto. La vegetazione rigogliosa si è impadronita di molti viali, è penetrata dentro molte strutture rendendole quasi invisibili, ha divelto finestre, pavimenti, balconi. Un folle labirinto di radici, rami e pietra. Questo rende complicato riconoscere le originarie strutture, precaria e difficile l’esplorazione. I lunghissimi e tetri corridoi, una teoria di passaggi senza fine che confondono e spaventano, sarebbero perfetti come set per un film horror splatter. Tutto è greve, penombra e polvere. L’odore di muffa, di legno marcio penetra nelle narici. La vernice scrostata cola come sangue rappreso dalle pareti di tufo. I pavimenti ingombri di calcinacci mischiati ad una poltiglia irriconoscibile, fatta di vecchi giornali, oggetti medicali, locandine, fogli di carta e altro. In questa che sembra più una “necropoli” che qualcosa di appartenente al mondo dei vivi, hanno trovato rifugio un gruppetto di senza tetto africani. Un polveroso ripostiglio con un vecchio divano sgangherato, una coperta, un fornellino per cuocere cibi tipo quelli da camping. E’ una bella e fredda giornata invernale di sole ma la luce ed il calore qui sotto non arrivano, come ne avessero paura, cosicché sembra quasi sera. I luoghi non sembrano vandalizzati, comunque molto meno rispetto alla normalità degli edifici abbandonati.
L’impressione che rimane è di un “non luogo”, qualcosa che è fuori del tempo, cristallizzato in una sorta di bolla spazio-temporale in cui si entra, si esce e stop. Non sembra avere futuro ma solo passato, mentre invece con piccola spesa potrebbe costituire un immenso ricovero per migliaia di barboni, che come tetto hanno solo il cielo e come casa la pubblica strada.   

 

fig.12 - Napoli, Leonardo Bianchi, ingresso

fig.13 - Un angolo dell'immensa struttura

 

 fig. 14 -  Corridoi del Leonardo Bianchi

fig.15 - Ingresso monastero S. Efremo Nuovo

L’ospedale psichiatrico giudiziario per anni ha funzionato nel monastero di Sant'Eframo Nuovo (fig.15) sito in via Matteo Renato Imbriani, più nota come via Salute).  
La denominazione San'Eframo "Nuovo" nasce dal fatto che bisognava distinguerlo da quello situato presso la chiesa di Sant'Eframo Vecchio, più antico, che si erge sul colle della Veterinaria, e che a sua volta ha assunto la denominazione "Vecchio".    
Il monastero nacque nel 1572, su di un fondo, appartenente a Gianfrancesco Di Sangro principe di Sansevero, acquistato dai frati cappuccini grazie alle generose elargizioni della nobildonna napoletana Fabrizia Carafa. L'edificio venne ultimato nei primi decenni dei Seicento. Il progetto originario prevedeva la costruzione di un complesso vastissimo, in quanto voleva essere la sede principale dell'ordine dei frati minori cappuccini nel napoletano; tuttavia l'idea originaria di creare qui la sede dell'ordine venne abbandonata e il progetto ridimensionato. Nonostante ciò il complesso è ugualmente imponente: 160 stanze per i frati, due chiostri, vari cortili, l'orto e le varie aree comune.    
Annesso al monastero vi è l'omonima chiesa (fig.16), fondata nel 1661. Inoltre i religiosi, giacché l'edificio sorge in una zona salubre, all'interno del comparto urbano una volta chiamato della Salute, utilizzarono la struttura come convalescenziario ed adibirono alcuni ambienti della struttura ad uso farmacia.    
Il complesso fu gravemente rovinato da un incendio nel 1840 che distrusse quasi ogni cosa; all'interno della chiesa furono perduti gli affreschi della volta, opera di Filippo Andreoli, mentre si salvarono una statua di San Francesco d'Assisi, opera di Giuseppe Sammartino, e una statua della Madonna proveniente dal Brasile (giunta a Napoli nel 1828). Grazie all'interesse dello stesso re, Ferdinando II delle Due Sicilie, la chiesa fu restaurata in pochissimo tempo e riaperta già nel 1841. Oggi lo stile architettonico della struttura rispecchia il gusto neoclassico dell'epoca.    
A seguito della politica anticlericale del Regno d'Italia, attuata tramite la liquidazione dell'asse ecclesiastico, nel 1866 il monastero fu soppresso e adattato a caserma.     
Dal 1925 il complesso fu destinato a manicomio criminale e poi, dal 1975, ad Ospedale psichiatrico giudiziario; per questi motivi la struttura ha subito forti modifiche per adattarla al meglio alla sua nuova funzione. Dal 2008 l'OPG "Sant'Eframo" non ha più sede nel complesso monastico, ma è stato trasferito presso il Centro Penitenziario di Napoli Secondigliano.
Caduta in stato di abbandono, dal 2015 la struttura è occupata dal Collettivo Autorganizzato Universitario di Napoli, che ha dato vita a "Ex OPG occupato Je so' pazzo” con lo scopo di far riappropriare la città, e in special modo il quartiere, di un proprio bene (fig.17–18).


Achille della Ragione

 

fig.16 - Chiesa Sant'Eframo Nuovo, ingresso

fig. 17 - Gigantesco murales


fig.18 - Da Che Guevara a Maradona

2 commenti:

  1. Caro Achille, ricevo e leggo regolarmente i tuoi articoli, per cui ti ringrazio.
    Sono ammirato dalla tua produzione, dalla qualità e dalla quantità, sembri il Vesuvio perennemente eruttante.
    Auguri di Buona Pasqua a te, a tua moglie, ai tuoi figli e ai numerosi nipoti che ti renderanno la vita, sicuramente, ancor più degna di essere vissuta.
    Gaetano Crisci

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  2. Caro Achille,
    grazie per la bella storia sugli ospedali psichiatrici di Aversa.
    Dato che io con mia moglie Fabrizia (i suoi genitori avevano terreni in quel Comune) avevamo deciso per la tesi di laurea in architettura nel 1960, un progetto di Piano Regolatore dei quel Comune, passammo settimane a studiarne le istituzioni, tra i quali gli ospedali, allora ancora in funzione ma in uno stato deplorevole.
    Cari saluti,
    Fulco Pratesi

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