Il cuore pulsante della vita politica, economica e sociale di Napoli per secoli è stato piazza San Gaetano con le strade limitrofe: decumani e cardini.
In epoca greca vi era l’Agorà, in epoca romana il Forum, mentre nelle aree adiacenti erano collocati tutti gli altri edifici civili e religiosi, dove si amministrava la giustizia, si prendevano le decisioni più importanti e si commerciavano merci provenienti dagli angoli più lontani del mondo allora conosciuto, in seguito è rimasto il luogo dove si è svolta frenetica la vita sociale, artistica e civile della città durante molteplici dinastie, dai Normanni agli Svevi, dagli Angioini agli Aragonesi.
Oggi al posto delle strutture più antiche si stagliano poderose le sagome della chiesa di San Paolo Maggiore e di San Lorenzo. La prima occupa lo spazio dove sorgeva il tempio dei Dioscuri, del quale adopera nella facciata alcune colonne superstiti, mentre la seconda sostituisce gli ambienti della Curia.
Gran parte della storia napoletana è stata scritta e vissuta in questa piazza: qui si riunivano in assemblea i rappresentanti delle dodici fratrie in cui si articolava la popolazione, qui si ricevevano gli ambasciatori stranieri e si trattava la pace e la guerra, si accoglievano in pompa magna gli imperatori romani e qui accorreva, al suono delle campane, il popolo in armi per respingere gli attacchi degli invasori, fossero Longobardi o Saraceni.
Oggi un nuovo museo ci permette un percorso a ritroso nel tempo per ritornare al punto di partenza, in un eterno presente, dal suono melodioso del flauto di Antigenide ai canti delle popolane, sostituiti negli ultimi anni da nenie cingalesi e da violini zigani provenienti dall’est.
Ci troviamo nella piazza più antica di Napoli, dove per 20 secoli si sono svolti i commerci, il passeggio elegante e si sono decisi i destini dei cittadini. A due passi cantava Nerone, applaudito da folle oceaniche, Boccaccio intravide la sua Fiammetta, che gli infiammò il cuore, mentre austeri saggi, nel Parlamento voluto da Alfonso d’Aragona, emanavano leggi tra le sale della torre, che oggi ospita un nuovo museo, nel quale sono esposti i reperti recuperati nei sottostanti scavi archeologici, che rappresentano da tempo uno dei percorsi più affascinanti per il visitatore che voglia esplorare le pulsanti viscere della città. Segue poi una raccolta di anfore, puniche greco italiche, corinzie, che testimoniano la vivacità dei traffici commerciali napoletani nell’antichità con tutto il bacino mediterraneo. Vino, olio, carne essiccata ed altre merci transitavano per raggiungere località della terraferma.
Sono conservati inoltre arredi e paramenti religiosi. In eleganti e ben illuminate vetrine si susseguono pissidi, reliquari, ostensori e calici, alternati a messali e cartegloria, mentre in altre sono esposti i segni esteriori della Chiesa trionfante post tridentina: pianete, mitrie, stole e dalmatiche.
Fa compagnia agli oggetti sacri una nutrita collezione di pastori, del Settecento e dell’Ottocento, tutti di legno e terracotta e con glaciali quanto espressivi occhi di vetro. Re magi e mendicanti, floride contadine e vecchierelle gozzute, artigiani e saraceni, una folla di volti e di atteggiamenti che ritroveremo immutati una volta ridiscesi per strada lungo il presepe vivente che da secoli anima i decumani, gli stessi volti patibolari o eduardiani, che erano in prima fila durante l’assalto della torre al tempo di Masaniello o tra le truppe sanfediste che impazzarono dopo il 1799. Un crogiuolo di popoli e di culture, ieri: cartaginesi, greci, romani, spagnoli, austriaci e francesi; oggi: cingalesi, ucraini, capoverdiani, rumeni e nigeriani.
Durante il dominio angioino lentamente la sua importanza decisionale diminuì per spostarsi verso altri luoghi della città, ma conservò la sede della Curia, trasformatasi nel frattempo in organismo municipale ed ospitò senza interruzioni le adunanze comuni dei Sedili e le riunioni del Parlamento. Continuarono inoltre a svolgersi celebrazioni di grande rilievo, come il corteo nuziale di Sigismondo di Polonia e di Bona, figlia di Isabella d’Aragona, descritto dai cronisti dell’epoca come uno dei più sontuosi avvenimenti mondani del Rinascimento; oppure l’omaggio delle autorità cittadine al corteo di Carlo V di Spagna, che si svolse in un trionfo di gemme, velluti, broccati, armi, cimieri e corazze, talmente imponente che difficilmente se ne riesce a trovare uno di eguale fastosità negli annali.
Un capitolo a parte è costituito dalle esibizioni canore dell’imperatore Nerone, che amava esibirsi per il pubblico napoletano, il quale era tra i più appassionati e rumorosi. Infatti egli era forse un tiranno crudele e bizzarro, ma amava l’arte ed il canto e sopra ogni cosa l’applauso della folla. Allo spirito furbesco ed imprenditoriale dei partenopei si devono la nascita delle claches, incaricate di prezzolare adepti che facessero quanto più chiasso possibile. Nascono così alcuni rudimentali strumenti musicali prettamente napoletani, come il putipù, il triccabballacche, lo scetavajasse e o siscariello, per creare un frastuono ancora più assordante ed incassare in misura maggiore il denaro degli emissari dell’imperatore, che pare pagassero in funzione dei decibel.
Il caloroso tifo degli sportivi napoletani, appassionati delle prodezze del Napoli, nasce duemila anni fa ai concerti di Nerone.
Questi strumenti, dei quali si possono ammirare dei prototipi antichi in una bacheca del museo archeologico, furono in seguito adoperati per rallegrare l’acustica di balli popolari, in primis la tarantella. Essi accentuano maggiormente la componente ritmica rispetto a quella melodica e sono costituiti, il primo da una pentola di terracotta, coperta da una pelle di tamburo con un buco al centro, nel quale si trova una bacchetta che si fa salire e scendere con grande velocità, il secondo da tre bastoncini di legno articolati in maniera tale da creare un suono ripetitivo ed asfissiante, il terzo da una canna spaccata che fa da cassa di violino, mentre un’altra, fatta a sega, funge da archetto, l’ultimo è una sorta di flauto formato da una canna bucata.
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