domenica 31 dicembre 2017

6^- Inesattezze, bugie ed imprecisioni sulla storia di Napoli. Errori madornali e boiate pazzesche a volontà

quinta puntata
(sesta puntata)



001 - Francesco Canessa

“I fischi del San Carlo a Caruso? Una bufala” ce lo conferma Francesco Canessa (fig.1), ex sovrintendente del teatro, appassionato melomane e ricercatore, nel suo libro Ridi pagliaccio (fig.2) dove ristabilisce la verità e sfata le leggende metropolitane diventate storia col passare degli anni, a partire dal rapporto che Caruso ebbe con la sua città e il suo teatro. 
“Questa storia dei fischi – dice Canessa – non è affatto vera, è stata tramandata senza che nessuno si prendesse cura di verificare”. Detto fatto è partita la ricerca sui giornali dell’epoca, ma anche su archivi americani e italiani. “Mi sono divertito e ho trovato quello che cercavo”. Ecco così riportati già nel capitolo d’apertura i commenti dei giornali napoletani al debutto di Don Enrico nell'”Elisir d’amore” (dicembre 1901), compreso quello su “Il Pungolo” di Saverio Procida dove sono enumerate le perplessità sulla scelta di Caruso di cantare quell’opera, peraltro applaudita in sala con tanto di bis dell’aria più celebre, “Una furtiva lacrima”.
In realtà le cronache del 31 Dicembre 1901 e del 5 Gennaio 1902 su "Il Pungolo" (disponibili all'Emeroteca Tucci di Napoli), il quotidiano che monitorava attentamente la vita teatrale di Napoli, riportano dell'emozione che irretì il tenore nel primo atto, rotta dagli applausi sempre crescenti fino alla richiesta del bis.
  “Quello che più mi dispiace – insiste Canessa – è che quell’equivoco di fondo ha prodotto una vastissima letteratura sul rapporto di Caruso (fig.3) con Napoli, il fatto che egli abbia giurato di non cantare più al San Carlo (fig.4), l’addio polemico del figlio incompreso, un episodio falso finito anche in tv nella fiction dedicata alla sua vita”. La verità, secondo lo studioso, è che Caruso s’era trasferito negli Stati Uniti dove era diventato una star e poco tempo aveva per cantare non solo a Napoli, ma in tutti i teatri italiani. Tra l’altro, in America, Caruso era diventato un simbolo dell’italianità (fig.5) e soprattutto un ambasciatore della cultura italiana attraverso l’opera lirica in un’epoca in cui l’Italia stava diventando oltreoceano sinonimo di mafia.  


002 - Libro
003 - Enrico Caruso
004 - San Carlo
005 - Enrico Caruso

Ciò non impedisce all’autore, critico musicale ed ex sovrintendente del San Carlo, di trasferire nel suo libro anche la sua competenza musicale, e di spiegare bene la sostanza, la qualità, la novità della voce di Caruso, il perché della sua fama e il mistero di una perfezione attinta a prezzo di ferrea volontà da lui che, figlio della Napoli più povera, non aveva potuto giovarsi di un’educazione regolare. Il segreto di Caruso potrebbe stare proprio “in questa formazione atipica e sostanzialmente anarchica”. Ecco, per dire, la leggendaria esibizione del 1908 al Met, dove Caruso-Radames domina i tre si bemolle dell’aria “Celeste Aida” che “sono e saranno per qualsiasi tenore un ostacolo difficile da superare”. Ed ecco i suoi rapporti coi direttori d’orchestra, in primis Toscanini, cogli impresari e con gli altri cantanti, dai napoletani d’America Scotti e Amato, a Scialiapin, alla bellissima Lina Cavalieri (fig.6), che nel 1906, duettando con lui nella “Fedora” di Giordano, allorché Enrico pronunciò la frase “Fedora io t’amo!” gli cade tra le braccia e davvero gli scoccò un bacio appassionato mentre calava il sipario e gli altri molti di cui qui si racconta. 
Canessa, con puntiglio e acribia, demolisce alcuni luoghi comuni duri a morire. Come il supposto “anatema” del tenore nei confronti della sua città dopo i fischi al debutto del 1901 con “Elisir d’amore” (fig.7). Per l’autore è una “degenerazione massima in stile Gomorra di un autentico falso storico”, e per spiegare come andarono le cose rilegge a uno a uno i giornali dell’epoca, “uniche fonti certe, evidentemente trascurate per colpa o dolo da chi non ha inteso rinunciare a un pretesto narrativo tanto accattivante”. 
A New York Caruso visse per 18 anni, vi celebrò i maggiori trionfi e vi conobbe i momenti più difficili. L’Italia era la sua villa a Lastra a Signa, fuori Firenze, e ovviamente il golfo di Napoli, dove venne a morire. “Napoletano”, però, fu il modo che scelse per sposare, a 45 anni, la ventenne Dorothy Benjamin malgrado la fiera contrarietà del padre di lei: una “fujuta” che precedette le nozze riparatrici del 1918. E napoletane furono le parole dette al fratello prima di spirare al Grand Hotel Vesuvio: “Giovà, affacciate ‘o balcone e salutame ‘a muntagna!”.
Vent'anni dopo, alla sua morte, fu proprio il barone Saverio Procida a scrivere un'epigrafe su "Il Mattino", sottolineando il suo ruolo nella più spinosa vicenda artistica del tenore: "Dotato di una voce di stupenda robustezza (e per averne tecnicamente fissato il carattere, vent’anni fa, il grande artista mi votò un inestinguibile rancore, fino a non voler più cantare in Napoli e a non voler comprendere che nel mio rilievo c’era il maggiore elogio alla intensità della sua espressione drammatica), guidato da un sentimento che amplificava sempre il contenuto lirico del personaggio, sicuro dell’elasticità incomparabile dei suoni, che vibravano nella gola, perché erano temprati sulla sensibilità quasi morbosa del suo temperamento artistico, scevro di pregiudizi stilistici, che non arrestavano mai la fiamma di cui il napoletano autentico a dispetto della vernice transatlantica aspersa più sulle sue scarpe che sulla sua fantasia bruciava, tutto istinto e intuito, tutto estemporaneità di sensazione, il tenore che non ebbe emuli nel suo tempo e poté per antonomasia accettare per lui soltanto la lettera maiuscola della chiave in cui cantò, fu il prototipo del tenore moderno. Egli incarnò il realismo musicale, fu il vocabolario della nuova lingua».
Rimanendo in campo musicale trattiamo ora de La canzone del Piave (fig.8), conosciuta anche come La leggenda del Piave, una delle più celebri canzoni patriottiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (fig.9) (noto con lo pseudonimo di E.A. Mario).
Durante la seconda guerra mondiale, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, il governo italiano l'adottò provvisoriamente come inno nazionale, poiché si pensò fosse giusto sostituire la Marcia Reale con un canto che ricordasse la vittoria dell'Italia nel primo conflitto mondiale. La monarchia italiana era infatti stata messa in discussione per aver consentito l'instaurarsi della dittatura fascista. La canzone del Piave ebbe la funzione di inno nazionale italiano fino al 12 ottobre 1946, quando fu sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro. L'inno nazionale definitivo in sostituzione del provvisorio Inno di Mameli avrebbe dovuto essere proprio La Canzone del Piave, ma il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi non avrebbe caldeggiato la candidatura della canzone perché offeso da Gaeta che si rifiutò di comporre l'inno ufficiale della Democrazia Cristiana. 
I fatti storici che ispirarono l'autore risalgono nell’ambito della 1° guerra mondiale (fig.10) al giugno del 1918, quando l'Impero austro-ungarico decise di sferrare un grande attacco, ricordato con il nome di "Battaglia del solstizio” sul fronte del fiume Piave per piegare definitivamente l'esercito italiano, già reduce dalla sconfitta di Caporetto (fig.11–12–13). La Landwehr (l'esercito imperiale austriaco) si avvicinò pertanto alle località venete delle Grave di Papadopoli e del Montello, ma fu costretta ad arrestarsi a causa della piena del fiume. Ebbe così inizio la resistenza delle Forze armate del Regno d'Italia, che costrinse gli austro-ungarici a ripiegare.
 Il 4 luglio del 1918, la 3ª Armata del Regio Esercito Italiano occupò le zone tra il Piave vecchio ed il Piave nuovo. Durante lo svolgersi della battaglia morirono 84.600 militari italiani e 149.000 militari austro-ungarici. In occasione dell'offensiva finale italiana dopo la battaglia di Vittorio Veneto, avvenuta nell'ottobre del 1918, il fronte del Piave fu nuovamente teatro di scontri tra l'Austria-Ungheria e l'Italia. Dopo una tenace resistenza iniziale, in concomitanza con lo sfaldamento politico in corso nell'Impero, l'esercito austro-ungarico si disgregò rapidamente, consentendo alle truppe italiane di sfondare le linee nemiche (fig.14).
La leggenda del Piave fu composta nel giugno 1918 subito dopo la battaglia del solstizio, da Ermete Alessandro Mario, pseudonimo di Ermete Giovanni Gaeta, un prolifico autore di canzoni napoletane che spaziava dalle canzonette alle canzoni militari. Ben presto venne fatta conoscere ai soldati dal cantante Enrico Demma (Raffaele Gattordo). L'inno contribuì a ridare morale alle truppe italiane, al punto che il generale Armando Diaz inviò un telegramma all'autore nel quale sosteneva che aveva giovato alla riscossa nazionale più di quanto avesse potuto fare lui stesso: «La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un generale!». Venne poi pubblicata da Giovanni Gaeta con lo pseudonimo di E. A. Mario il 20 settembre del 1918, circa quaranta giorni prima della fine delle ostilità.
Il testo e la musica, che fanno pensare ad una canzone patriottica con la funzione di incitare alla battaglia, hanno l'andamento colto e ricercato di altre canzoni che già avevano fatto conoscere Giovanni Gaeta nell'ambiente del cabaret; sue sono anche Vipera, Le rose rosse, Santa Lucia luntana (fig.15), Balocchi e profumi. La funzione che ebbe La leggenda del Piave nel primo dopoguerra fu quello di idealizzare la Grande Guerra; farne dimenticare le atrocità, le sofferenze e i lutti che l'avevano caratterizzata. 
Grazie a Pietro Gargano, critico musicale e penna storica de Il Mattino, possiamo ora sfatare alcuni luoghi comuni duri a resistere. 
Il primo è che l'autore non scrisse la leggenda del Piave (fig.16) per celebrare una vittoria bensì per auspicare una riscossa dopo l'onta di Caporetto. Egli voleva recarsi personalmente al fronte, ma gli fu impedito, affidò allora all'amico bersagliere Raffaele Gottardo, in arte Enrico Demma, la missione di divulgare il testo tra i combattenti. L'effetto fu straordinario al punto che Armando Diaz dichiarò:"al fronte la Leggenda vale più di un generale". 
 Il secondo luogo comune da cancellare è legato al nome di chi lanciò la canzone in teatro, che tutti indicano quello di Anna Fougez, mentre l'autore ha sempre ricordato che fu Gina De Chamery a proporlo a Piedigrotta il 13 agosto del 1918 nel minuscolo teatro Rossini.
Infine l'ultima cosa da sottolineare è l'assenza di spirito bellicoso dell'autore, patriottico, ma non guerrafondaio, come dimostra una sua canzone coeva alla Leggenda del Piave: Rose rosse, percorsa da un'ombra di pacifismo:
"Son d'un giardino che fu devastato
poiché la guerra feroce vi entrò:
tutto il terreno di sangue arrossato
sangue che tutte le rose macchiò”.


005 - Enrico Caruso
007 - Elisir d'amore
008 - Lo spartito de La leggenda del Piave
009 - E. A. Mario -Ermete Giovanni Gaeta
0010 - Prima guerra mondiale - Corriere della sera
0011 - Piave -
0012 - Piave trincea
0013- L'incitazione patriottica Tutti Eroi! O il Piave o tutti accoppati!, opera del generale  dei Bersaglieri Ignazio Pisciotta
14 - Bollettino di guerra
0015 - Santa Lucia luntana

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