domenica 27 aprile 2014

Elogio del ragù



Per le nostre mamme la cucina era il cuore della casa. Vi passavano ore vicino ai fornelli preparando cibi e inventando nuove pietanze per far piacere ai mariti e ottenerne l' elogio. Una piccola innocente ambizione di spose e al tempo stesso una prova di passione casalinga. L'ora di pranzo e l'ora di cena erano il momento dell' indivisibilità familiare. La tavola era il nostro altare. Intorno ad essa padre, madre, figli grandi e figli piccoli si componevano in un' unità sacrale. Le vecchie mamme avevano la fierezza delle brave massaie e anche se si facevano aiutare da una buona donna di servizio, la guida della cucina spettava a loro, un privilegio a cui tenevano come a un titolo nobiliare. La donna di servizio badava al governo della casa; in cucina ci stava solo per dare una mano alla padrona nelle incombenze minori e ne approfittava per apprendere i segreti dell' arte culinaria. Imparava a controllare la giusta cottura degli spaghetti, operazione tra le piu' difficili, preparava le verdure, passava i pomodori a setaccio per la salsa, puliva il prezzemolo, coglieva il basilico bello fresco dal vaso e spezzava i maccheroni per la "genovese". 
Per spiegare cosa vuol dire "spezzare i maccheroni" e cos' è la "genovese", dobbiamo attingere alla dottrina di Gabriele Benincasa, studioso anche di storia gastronomica. La parola "maccherone" in origine era il nome generico di una qualsiasi forma di pasta. Una volta, nell' uso corrente, per maccheroni s' intendeva quella pasta lunga, tonda con un buco in mezzo. A quei tempi non c'erano né "maltagliati" né i "rigatoni". C'erano invece le "zite", che si ricavavano dal maccherone tenendolo con la sinistra mentre con la destra lo si spezzava al punto giusto, in modo da ottenere una misura uniforme. 
Delle "zite" ebbe anche ad occuparsi Antonio Baldini in uno di quegli elzeviri che pubblicava sul "Corriere" sotto il titolo di Tastiera, un genere di deliziose divagazioni, ora serie ora scherzose. Quella volta lo scrittore, per far capire meglio ai lettori cos' erano i maccheroni spezzati, cambiò il titolo e dalla famosa "Tastiera" passò all'accattivante "Pastiera". Per la "genovese", piatto tipicamente napoletano, il discorso e' diverso. Essa non ha niente a che fare ne' con Genova ne' con i genovesi: il Benincasa azzarda l' ipotesi che l' origine del nome sia dovuta a Ginevra (Gene' ve e genevoise). A tale conclusione lo studioso e' arrivato ricordando la lunga presenza delle guarnigioni svizzere al servizio dei Borboni, i quali preferirono sempre gli svizzeri del Cantone francese, appunto quello di Ginevra. Ufficiali e soldati portarono così a Napoli le proprie abitudini culinarie come l' uso della cipolla cucinata in varie maniere a cominciare dalla "soupe a' l' oignon". Infatti nella "genovese" napoletana la cipolla è la base. 
Trascrivo la ricetta, tale e quale, dai "Consigli per la buona tavola alla moglie di un amico" del grande libraio napoletano Alfredo Casella, amico di Croce, di Anatole France e di tutta la letteratura italiana. Prima si fa rosolare un pezzettino di cipolla con una testa di sedano; poi si mette un pezzo di carne nel tegame e lo si riempie di cipolle tagliate fini facendole consumare a fuoco lento, fino a disfarsi completamente. Allora si aggiungono un bicchierino di vino bianco e un bicchiere d' acqua e, a chi piace, una grattatina di noce moscata. Man mano che il sugo si amalgama, diventando cremoso e di colore biondo dorato, per la casa si diffonde un odorino "da far resuscitare i morti", come dice Casella. Solo osservando queste vecchie liturgie, le nostre mamme hanno potuto mantenere i sapori antichi dei cibi, tramandando una delle piu' preziose tradizioni del Mezzogiorno. Quello per la cucina era un loro vero amore, fatto di dedizione e di pazienza. Perché senza la pazienza nessuna donna avrebbe mai potuto preparare un ragù come quello indicato da Eduardo nella commedia Sabato, domenica e lunedì . Un ragu' infatti puo' durare anche tre giorni. A causa mia si cominciava a farlo la sera del sabato. La mamma dava l' avvio facendo soffriggere la cipolla assieme al pezzo di carne nel tegame di creta e riempiendolo poi di salsa di pomodoro. Quindi chiamava Nennella, la nostra donna di servizio, incaricandola di badare al ragù . Orgogliosa della missione affidatale, Nennella non si muoveva piu' dai fornelli. Per ore e ore, seduta su una sedia, girava col mestolo lentamente nel tegame che andava a fuoco lento, aggiungendo acqua man mano che la salsa tendeva a farsi densa. A una certa ora smetteva per ricominciare al mattino della domenica fino al "momento sublime" del ragù . Ma qual è il "momento sublime"? L'ha descritto nel suo saggio Partenope in cucina un letterato, Mario Stefanile. E' quando la carne ben cotta e insaporita "ceda al suo sugo ogni sua piu' lieve e segreta fragranza, rosolandosi, baciandosi, cuocendosi, fino a diventare tenerissima. E' quello il momento che la salsa si raddensa, si scurisce, perde ogni asprezza e ogni crudezza e si fa ricca, vellutata, morbida". Il ragù è il profumo di Napoli, ma è anche il ricordo della domenica, tutti i figli intorno al tavolo con papa' e mamma nella stanza da pranzo, con la lampada a scorrimento al centro. Con la pasta che restava (di proposito se n'era cucinata di più ) si faceva la "frittata" alla sera o per il giorno dopo. Mia madre diceva che per farla riuscire bene era meglio far "riposare" i maccheroni conditi, per un po' di ore, in modo che la pasta potesse assorbire il sugo del ragu' . Nel Sud, la frittata di maccheroni e' considerata il cibo degli angeli. Il mio ricordo e' legato al trambusto e ai litigi che nascevano fra noi ragazzi quando la mamma faceva le porzioni. Misuravamo con gli occhi la grandezza delle fette e cominciavamo a protestare: "Io ne ho avuto meno, lui ne ha di più ...". "Non è vero, la mia è più stretta!". "La finite o non la finite?", interrompeva dolcemente arrrabbiata mia madre, ma visibilmente contenta per il nostro desiderio insaziabile. Nella mia memoria quelle sere restano l'immagine di un'infanzia felice.

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