martedì 4 settembre 2012

LA PUNIZIONE FUORI DAL CARCERE



Incrementare le misure alternative



A fine settembre il Parlamento dovrà decidere sul decreto legislativo riguardante la penosa situazione della Giustizia, ma soprattutto dovrà cercare un rimedio all’esplosiva situazione dei penitenziari con la prepotente urgenza del sovraffollamento, con un surplus attuale di 23.000 detenuti.Una situazione più volte sottoposta dal Presidente Napolitano all’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica, senza sortire alcun effetto, mentre continuano a fioccare senza sosta le sanzioni europee, somme notevoli che vanno ad aggiungersi ai 250 euro di costo giornaliero per lo Stato per ciascun detenuto, di cui appena 12 centesimi destinati ad attività di recupero, mentre dall’inizio dell’anno vi sono stati 37 suicidi e 5.073 gesti di autolesionismo.
Mancano i fondi? Niente affatto! Sono stati mal adoperati per incompetenza e per corruzione.
Come si spiegherebbe altrimenti che sono stati elargiti 110 milioni di euro alla Telecom per realizzare solo 14 braccialetti elettronici?
Da tempo il dibattito anima le pagine dei giornali, inoltre sono numerosi i libri di esperti che cercano di identificare nella pena, non solo una necessaria espiazione, ma anche un mezzo per preparare il detenuto a reinserirsi nella società, redento e pronto a procacciarsi da vivere attraverso l’onesto lavoro.
E’ una nobile battaglia di idee tra chi considera utile la reclusione e chi vuole abolirla, riaprendo la diatriba che parte da Beccaria per arrivare a Foucault.
Partirei da “Detenuti” di Melania Rizzoli, che fotografa una galleria di personaggi famosi e da “Il perdono responsabile” di Gherardo Colombo. Fondamentale poi “Perché punire è necessario” di Winfried Hassemer ed “Il collaboratore della giustizia penale” di Vittorio Mathieu.
Abbiamo citato i titoli più importanti, ma la bibliografia è vastissima, segno dell’attenzione della cultura allo spinoso problema.
Una notizia clamorosa che è passata sotto silenzio dalla stampa è che per la prima volta i magistrati in tirocinio, nella didattica della nuova scuola di magistratura, saranno obbligati a vivere in prima persona l’esperienza del carcere per alcuni giorni ed alcune notti. Una novità travolgente che permetterà di valutare come va vissuta la pena.
Per Montesquieu o Beccaria la pena viene riconosciuta come un “ male necessario ad impedire al reo dal fare nuovi danni ai cittadini ed a rimuovere gli altri da farne eguali” (Beccaria – Dei delitti e delle pene – 1764).
Concetti oramai superati dai nuovi operatori della giustizia che affermano perentoriamente come il carcere, se risposta esclusiva a qualunque violazione, si riveli inutile e controproducente, divenga scuola di criminalità, non riesca a fare scendere il tasso di recidiva e, all’uscita, restituisca più insicurezza di quanta ne abbia imprigionata all’entrata.
Un’intuizione che già Michel Foucault nel suo celebre “Sorvegliare e punire” aveva stigmatizzato sottolineando che la detenzione, producendo l’effetto di rinnovare e moltiplicare i comportamenti delinquenziali aveva tradito la sua principale finalità.
Gherardo Colombo sottolinea come il concetto del perdono sia il presupposto per una possibilità di collegare alla trasgressione il recupero. Colombo è convinto che far male insegni solo a far male e la sofferenza imposta serve solo a produrre obbedienza anziché consapevolezza.Ai reclusi spesso il nostro sistema carcerario non toglie solo la libertà, ma anche la dignità. E questo non solo per ragioni affettive come il sovraffollamento, l’assenza di riservatezza per le necessità e la cura del proprio corpo, l’inedia e l’ozio coatto che non consentono di esprimersi in una qualche attività in cui poter riconoscere le proprie capacità, ma anche per una serie di micro umiliazioni inflitte ai detenuti che devono subire per non compromettere il loro curriculum di buona condotta che li priverebbe di quei piccoli vantaggi ad essa connessi. E qui viene da pensare che molti suicidi in carcere, che accadono frequentemente nell’indifferenza generale, non siano da imputare solo alla soppressione fisica della libertà, ma anche e soprattutto alla perdita di dignità, che fa percepire la propria vita come insignificante.
Se la perdita della libertà è inevitabile, quella della dignità è una pena supplementare che può e deve essere evitata, educando il personale carcerario ed affidando a tutti i detenuti un’attività occupazionale.
Se lo scopo della detenzione non è solo quello di scontare una pena, ma anche il reinserimento, come solennemente sancito dal dettato Costituzionale, dobbiamo considerare i detenuti come persone degne di rispetto al di là del reato commesso.
Non si tratta di illusioni, ma costituivano l’anima ed il motore di progetti bipartisan di riforma del codice, come le commissioni ministeriali Nordio nel 2005 e Pisapia nel 2008, che, per i reati di minor allarme sociale, prevedevano lavori di risarcimento e servizi alla comunità.Alla fine di settembre in Parlamento si discuterà un decreto delegato sull’argomento, speriamo con serenità e ragionevolezza, e noi ci permettiamo di suggerire alcuni emendamenti quali: il computo per l’applicazione dei mesi di premio fin dal momento dell’ingresso in carcere, così da poter giungere presto ai benefici, senza dimenticare la possibilità di telefonare quando si vuole, come accade in tutta Europa, e di poter utilizzare Internet e Skype.

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