Libri sulla storia di Napoli e sulla napoletanità ne esistono a migliaia
e se ne continuano a stampare senza sosta. Molti, innamorati della
città, si improvvisano scrittori, copiando da precedenti pubblicazioni
ed aumentando oltre misura il numero dei volumi dedicato all’argomento.
Tanti illustri sconosciuti che cercano di aggiungersi a nomi famosi ed
autorevoli quali Vittorio Paliotti, Aurelio De Rose e Pietro Gargano
(fig.1–2–3). Ma anche questi ultimi non sono immuni da errori e scopo di
questo articolo e di altri che seguiranno è quello di mettere in luce
una serie di inesattezze, se non vere e proprie castronerie, che si
raccontano sulla storia di Napoli e dei Napoletani.
fig. 01 - Vittorio Paliotti |
fig. 03 - Pietro Gargano |
Un terreno particolarmente fertile di imprecisioni è costituito dal capitolo: Napoli capitale delle reliquie, che si trova in qualunque libro che tratta di storia della città, oltre che di tradizioni e superstizioni. Dovunque leggiamo che nelle chiese, oltre a quello celeberrimo di San Gennaro, si conservano decine e decine di ampolle di altri santi, che contengono sangue che si coagula in particolari giorni dell’anno. Fatta eccezione per quello di S. Patrizia (fig. 04), venerata in San Gregorio armeno, il quale ogni tanto… di martedì compie il prodigio, invano cerchereste altrove altre ampolle miracolose. Sono da tempo irreperibili nei luoghi ove viene riferito si trovino, come nel caso del sangue di S. Alfonso Maria dei Liguori, che dovrebbe trovarsi nella chiesa della Redenzione dei captivi a Port’Alba, ma dove manca all’appello da tempo immemorabile. E se pure altrove riuscite a trovare in altre chiese delle reliquie, esse non producono alcun fenomeno a memoria di uomo.
La situazione si fa più comica se vi mettete alla ricerca delle famigerate ampolle (circa cento) contenenti coaguli di sangue di santi e beati, di proprietà di antiche famiglie napoletane. La notizia viene riferita in tutti i libri che trattano dell’argomento, alcuni addirittura dal titolo la Città dei sangui, ignorando che in italiano la parola sangue non possiede il plurale.
Alcuni mesi fa mi sono personalmente messo alla ricerca di una di queste ampolle, per cui ho cominciato a chiedere a tutti coloro che ne avevano parlato nei loro scritti, il nome di almeno una famiglia che le possedesse. Oltre ai tre famosi napoletanisti citati all’inizio mi sono rivolto senza esito a Pietro Treccagnoli, Paolo Jorio, Marino Niola ed a molti altri, arrivando alla conclusione che trattasi di una leggenda metropolitana, priva di alcun fondamento storico. Tutti hanno candidamente dichiarato che avevano riportato la notizia semplicemente perché altri la avevano riferita.
E rimanendo in campo ematologico segnaliamo che nella cappella destra della navata della chiesa dedicata a San Gennaro (fig.05), posta sulla Domiziana nel comune di Pozzuoli, si venera la pietra sulla quale, secondo la tradizione, è stato decapitato il santo, la quale attira numerosi fedeli da ogni dove e in qualsiasi periodo dell'anno, poiché nei giorni che precedono l'anniversario della sua decapitazione le presunte tracce di sangue appartenenti al santo assumono ogni giorno di più un colore rosso rubino, mentre durante tutto il resto dell'anno la pietra è nera. Secondo studi recenti si è però dimostrato in maniera incontrovertibile che la pietra è in realtà il frammento di un altare paleocristiano di due secoli posteriore alla morte del martire sul quale si sono depositate tracce di vernice rossa e di cera e che il tutto è solo frutto di una suggestione collettiva.
fig. 04 - Culto di S. Patrizia |
fig. 05 - Chiesa di San Gennaro alla Solfatara |
Se ci portiamo ora in ambito artistico le boiate aumentano considerevolmente, perché la fonte di tutti i napoletanisti, professionisti e dilettanti, è il De Dominici, biografo settecentesco, dotato di un acuto occhio con il quale sa discernere un pittore dall’altro, ma nello stesso tempo dotato di una fervida fantasia, con la quale condisce di particolari del tutto inventati la vita dei protagonisti del suo libro: Vita dei pittori, scultori ed architetti napoletani, pubblicato in tre tomi tra il 1742 ed il 1745.
Il caso più eclatante è senza dubbio quello di Diana De Rosa (fig.06), la famigerata Annella di Massimo, moglie del pittore Agostino Beltrano e pittrice anch’ella, nell’ambito della scuola stanzionesca. Diana era la sorella maggiore di Pacecco De Rosa (non la nipote come spesso riferito) e, secondo il celebre biografo, allieva dello Stanzione «cara al maestro come collaboratrice in pittura e, per la sua bellezza, come modella».
Anche le sue sorelle Lucrezia e Maria Grazia, la quale sposò Juan Do, un altro artista, erano molto belle e con Diana furono soprannominate le «tre Grazie napoletane», vezzeggiativo che fu poi ereditato dalle tre figlie di Maria Grazia, anch’esse bellissime.
Pur se citata dalle fonti e resa famosa dall’aneddoto sulla sua morte violenta, «Annella» è a tutt’oggi «una pittrice senza opere» che possano esserle attribuite con certezza. Sicuri sono soltanto i dati anagrafici, 1602-1643, resi noti dal Prota Giurleo.
Il De Dominici ciarlava che Annella, allieva di Massimo Stanzione, fosse la pupilla del maestro, il quale si recava spesso da lei, anche in assenza del marito per controllare i suoi lavori e per elogiarla. Una serva della pittrice, che più volte era stata redarguita dalla padrona per la sua impudicizia, incollerita da ciò, avrebbe riferito, ingigantendone i dettagli, della benevolenza dimostrata dal «Cavaliere» verso la discepola, scatenando la gelosia di Agostino, il marito, il quale accecato dall’ira, sguainata la spada, spietatamente le avrebbe trafitto il seno. A seguito di questo episodio il Beltrano, pentito dell’enormità del suo gesto ed inseguito dall’ira dei parenti di Annella, si rifugiò prima a Venezia e poi in Francia dove visse molti anni prima di ritornare a Napoli.
Oggi la critica, confortata da dati inoppugnabili, tra cui la documentazione che morì nel suo letto dopo avere ricevuto l’estrema unzione, non crede più a tale favoletta, anche se il nomignolo di «Annella di Massimo» che dal Croce al Prota Giurleo, dal Causa a Ferdinando Bologna unanimemente si credeva fosse stato inventato in pieno Settecento dal De Dominici, è viceversa dell’«epoca», essendo stato rinvenuto in alcuni antichi inventari: in quello di Giuseppe Carafa dei duchi di Maddaloni nel 1648 ed in quello del principe Capece Zurlo del 1715. In entrambi vengono riferiti dipinti assegnati alla mano di «Annella di Massimo».
Questa nuova constatazione fa giustizia della vecchia diatriba tra il comune di Napoli ed il Prota Giurleo, indispettito che una strada della città fosse dedicata ad un nome inesistente e convinto che dovesse ritornare all’antico toponimo di via Vomero Vecchio.
Nonostante questa realtà di dati non vi è scrittore di storia napoletana che non ci racconti la sua fine violenta, un vero e proprio femminicidio ante litteram, oggi tanto di moda.
Passiamo a Mattia Preti (fig.07), il famoso cavaliere calabrese, uno dei giganti della pittura italiana ed ascoltiamo il racconto del De Dominici, ripreso in tutti i libri su Napoli:” Siamo nel 1656, nel pieno infuriare della peste, il pittore si presenta ad una delle porte di accesso della città e, qualificatosi come sommo artista, chiede di poter entrare, ma riceve un diniego da parte del comandante del picchetto di guardia. Senza scomporsi il Preti estrae lo stiletto e trafigge l’interlocutore, al che, i soldati spaventati da tanto ardire, gli cedono il passo e l’ingresso entro le mura. Scatta in breve una condanna a morte con la possibilità di commutare la pena nell’esecuzione di una importante committenza: affrescare le sette porte della città con dei giganteschi ex voto di ringraziamento (fig.08) per la cessazione della peste, che saranno eseguiti in maniera magistrale, ma non certo dopo aver patteggiato la pena, perché il Preti, come ha dimostrato in maniera inconfutabile Spike, uno studioso americano, massimo esperto dell’artista, che ha reperito alcuni documenti che attestano che il Preti risiedeva a Napoli già nel 1653, tre anni prima che infuriasse la peste!!!
fig. 06 - Annella De Rosa |
fig. 07 - Mattia Preti |
fig. 08 - Bozzetto del Preti per un affresco |
E passiamo ora a raccontare la vera storia della sfogliatella (fig.09), ben diversa da quella descritta in tutti i libri su Napoli.
La cucina napoletana è una delle più famose del mondo con alcuni piatti come gli spaghetti al pomodoro e la pizza che rappresentano un simbolo della gastronomia italiana all’estero. Meno gloriosa la pasticceria, ma con le dovute eccezioni, perché alcuni dolci sono molto conosciuti ed apprezzati come il sanguinaccio, la pastiera, gli struffoli, le zeppole di San Giuseppe e la sfogliatella. Meno noti, ma non meno saporiti: il casatiello, i taralli, il babà, i mostaccioli, i biscotti all’amarena, la pasta reale, la coviglia al caffè, i croccanti, la pizza di amarena e crema. Nel Seicento andavano di moda tanti piccoli dolcetti, come quelli puntigliosamente descritti nei quadri di natura morta da Giuseppe Recco (fig.010) o da Tommaso Realfonso (fig.11), infarciti di miele e di marmellate, da mangiare letteralmente con gli occhi prima che con la bocca, tanta era la cura nel prepararli e la gentilezza nell’offrirli.
I pittori napoletani erano abili quando rappresentavano fiori o frutta nel renderla talmente somigliante all’originale che, senza esagerazione, si poteva percepire l’odore ed il sapore, per cui raffigurando dolci e dolcetti ed avvicinandosi alla tela all’osservatore veniva letteralmente l’acquolina in bocca.
Erano la gioia dei salotti della nobiltà e della borghesia, ma non mancavano nei monasteri più a la page della città, affollati da fanciulle provenienti dalle famiglie più altolocate della nobiltà, che alternavano la preghiera ed il raccoglim ento alle delizie del palato, gustando dolci, senza trascurare rosolio, nocillo ed effervescenti bevande zuccherate. lo testimoniano i documenti di pagamento che zelanti ricercatori, un po’ ficcanaso, hanno reperito nell’archivio del Banco di Napoli (fig.012). Tra i dolci partenopei il più famoso è certamente la sfogliatella della quale esistono tre tipi: riccia, frolla e la santa rosa. Tutte hanno un ripieno identico e tre involucri e fogge diverse, le ricce a forma di conchiglia rivestite da un nastro di pasta sfoglia, tonde e morbide le frolle, più grandi ed arricchite di crema e confettura di amarene le S. Rosa. Molti credono che la sfogliatella nasca in ambiente monastico e precisamente in un convento di conca dei Marini sulla costiera amalfitana, in torno al XV-XV secolo, frutto dell’abilità culinaria di una sconosciuta monachella, ma se indaghiamo la storia dei principali monasteri napoletani, da Santa Chiara (fig.013) alla Croce di Lucca (fig.014), scopriremmo che tutti ritengono che il famoso dolce sia nato nelle proprie cucine e dirimere la verità è impresa ardua. la scoperta recentissima di alcuni documenti in lingua latina ci permette di retrodatare l’invenzione del prelibato dolce ad oltre duemila anni fa. Pare infatti che già durante le feste priapiche (fig.015), che si svolgevano nell’antica grotta di Piedigrotta (fig.016), venisse distribuito ai contendenti per rifocillarsi un dolce energetico dalla forma triangolare, a rimembrare simbolicamente la forma dell’oggetto del contendere: il pube femminile. Gli effetti afrodisiaci sull’animosità dei giovani impegnati nei sacri riti deflorativi si racconta superassero i benefici corroboranti di un poderoso zabaione. nella grotta si svolgeva anche il culto a Venere genitrice, praticato dalle spose sterili, che invocavano la grazia della fecondità. il rito si svolgeva durante tutto il mese di settembre sia all’interno che all’esterno della cripta. alcuni volenterosi e ben dotati sacerdoti, grazie all’effetto di potenti afrodisiaci, tra i quali probabilmente anche l’iperglicemica antenata della sfogliatella, si attivavano in maniera biblica per ingravidare quante più donne possibile. Petronio, Seneca e Strabone ci raccontano che, mentre all’interno ci si impegnava per la riproduzione della specie,all’esterno, tra anfratti e cespugli, la plebe si abbandonava, al ritmico suono di rudimentali strumenti musicali, a multipli amplessi, in un’atmosfera delirante di eccitazione. dagli espliciti riti orgiastici al segreto del claustro è difficile ipotizzare il tortuoso cammino della ricetta, divenuta segreta e vanto di sacerdotesse della castità. Ma intorno al Seicento qualcuna di queste monachelle, ansiosa di liberarsi del fardello di una noiosa verginità, fa amicizia con qualche baldo pasticciere, disposto in cambio della ricetta a compiere il pasticcio…ed ecco che della sfogliatella possono godere tutti. con un pizzico di fantasia questa dovrebbe essere la nuova storia della sfogliatella, vanto indiscusso della gastronomia campana e da oggi in poi quando una fanciulla offrirà il prelibato dolce ad un astante le sue intenzioni saranno ben chiare.
fig. 09 Sfogliatella riccia napoletana |
fig. 010 - Giuseppe Recco |
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