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sabato 5 aprile 2014

I due volti del quartiere chic, tra liberty e catapecchie

Palazzo Guevara alla Riviera di chiaia

Chiaia è la zona delle griffe, dei palazzi nobiliari, abitati dalla gente bene. Un lungo percorso che da via Chiaia arriva a piazza Amedeo, per prolungarsi poi lungo via Crispi, strada residenziale e sede dei più importanti consolati.
La passeggiata può essere un’occasione per ammirare una serie di espressioni dello stile liberty, che anche nella nostra città ebbe modo di esprimersi compiutamente, ma prima di addentrarci desideriamo fare una premessa.
Molti studiosi sostengono che il napoletano è una vera e propria lingua, dotata di un vocabolario che comprende circa un terzo di termini in più rispetto all’italiano: ciò dice quanto dettagliata possa essere una descrizione nel nostro dialetto. Ad esempio con la parola SPASSO in dialetto possiamo tanto riferirci al divertimento quanto al passeggiare. Ciò induce a pensare che per un napoletano andare a zonzo e godere possano coincidere; ed è questo proprio il senso dell’andare a spasso nella zona di via Filangieri e via dei Mille, un concentrato di stile Liberty a Napoli.
Ma comunque, E’ nel clima della Bella Epoque, l’epoca bella, sinonimo di allegria e di ottimismo che nasce il Liberty, in stretta correlazione con l’avanzare della società borghese: rappresenta, quindi, il modo in cui la società industriale cerca di darsi un’estetica, attraverso una ricerca anche esasperata della decorazione e suo carattere distintivo diventa proprio l’eleganza decorativa: la linea è assunta come espressione di forza e di dinamismo, cioè come simbolo di vitalità; alla base di questo gusto c’è, come abbiamo detto, una forte fiducia nel progresso, nel futuro, nel “nuovo”.
Il liberty si chiamò infatti Art Nouveau in Francia, Modern Style in Inghilterra, Jugendstil in Germania, Modernismo in Spagna, Secessione in Austria. In Italia il Liberty è detto anche Stile Floreale. Tema ornamentale è la linea curva, sinuosa, elegante, sviluppata spesso in motivi naturalistici, per lo più derivati da fiori e da piante (da cui l’attributo di floreale, molto presente da noi per la ricchezza della natura e quindi anche di una certa facilità di ispirazione). Ma chiariamo che il nome Liberty non deriva da un sostantivo, bensì da un cognome: quello del signor Arthur Lasenby Liberty che nel 1875 fondò dei magazzini a Londra specializzati nella vendita di prodotti dell’Estremo Oriente. Il gusto per l’arte dell’estremo Oriente, diffuso dagli impressionisti francesi, e specialmente accentuato in H. Toulouse-Lautrec, ebbe un’importanza notevole nella formazione del nuovo stile ornamentale proprio per il suo carattere di cambiamento.
In architettura molto si erano sviluppate nuove soluzioni costruttive per integrare tradizioni consolidate (ad esempio il romanico o il gotico) con le nuove possibilità tecnologiche, adoperando nuovi materiali nella costruzione quali il ferro, il vetro e il cemento: è il cosiddetto neoeclettismo. Il Liberty tentò un superamento dell’eclettismo rifiutando gli stili storici del passato: evitò il più possibile la simmetria della costruzione, arrotondando spesso gli spigoli con la creazione di edifici con un lato diversissimo da un altro; inserì elementi senza nessuna funzione se non quella decorativa, servendosi molto del vetro e del ferro proprio con questo scopo; cercò ispirazione nella natura e nelle forme vegetali, creando uno stile nuovo, del tutto originale rispetto a quelli allora in voga. Il punto di partenza fu forse il Belgio, ma il movimento interessò l’intero mondo occidentale, compresa l’America. La città che presenta il maggior numero di edifici in questo stile è Riga, capitale della Lettonia, con oltre 800 costruzioni (per lo più opera dell’architetto russo Eisenstein).
In Italia l’impulso iniziale partì da Torino, in occasione dell’Esposizione d’arte decorativa moderna del 1902, con un po’ di ritardo rispetto al resto d’Europa.
Il primo esempio che incontriamo è Palazzo Acquaviva Coppola, sito tra il parco Margherita e via San Pasquale.
L’ing. Acquaviva Coppola costruì tra il 1909 e il 1912 questo edificio servito da due strade poste a quote molto differenti, ideando due blocchi diversi con due ingressi sfalsati. In entrambe le parti si ritrovano spunti modernisti, ma mentre la parte alta è più classicheggiante, con un elegante ingresso sull’asse centrale di simmetria, quella bassa tende ad un floreale riccamente decorativo, molto evidente nell’elemento d’angolo evidenziato con l’ampio portone.
Un altro interessante palazzo è quello della famiglia Leonetti, sito in via dei Mille 40.
Costruito dall’impresa Mannajuolo, tra il 1908 e il 1910, era stato progettato da Arata come albergo, ma poi per ragioni economiche fu adibito a palazzo a più scale per abitazioni civili. Data la preesistente presenza di edifici storici (i palazzi d’Avalos e Roccella e la chiesa di S. Teresa) arretrati rispetto alla sede stradale, il progettista rinunciò alla facciata continua ed optò per un impianto planimetrico ad U, aperto verso la strada, facendo precedere il corpo centrale da un giardino, come l’adiacente palazzo d’Avalos. Presenta un bugnato nella parte bassa, lesene giganti decorate che scandiscono le campate, timpani massicci che riportano ad un classicismo perfino monumentale, ma i numerosi richiami vegetali (foglie, fiori, grappoli d’uva) e gli esili ferri modernisti delle ringhiere e della cancellata rimandano al vitalismo del Liberty.
Poco più avanti alle Rampe Brancaccio vi è la palazzina Velardi, opera dell’arch. Francesco De Simone, precoce espressione del Liberty a Napoli (come dell’uso di solai laterocementizi armati, cioè fatti di calcestruzzo armato con funzioni di sostegno ed elementi laterizi di alleggerimento), ha perduto molte delle decorazioni a stucco delle finestre, sostituite da semplici fasce d’intonaco. Interessante la volumetria: coperture piane e terrazze degradanti richiamano anche la tradizione edilizia locale. Ma, in realtà, l’edificio avrebbe dovuto avere un giardino su via dei mille, che avrebbe giustificato le terrazze, mentre si è trovato poi relegato per la presenza di un agglomerato popolare povero. Colpisce il torrino, un elemento intellettualistico da alcuni considerato estraneo al contesto.
E concludiamo con Palazzo MannaJuolo in via Filangieri.
L’ing. Mannajuolo, proprietario del terreno, affidò la progettazione di questo edificio, uno dei più riusciti esempi di Liberty a Napoli, all’arch. Giulio Ulisse Arata che risolse il problema di far ben figurare un palazzo ad uno snodo incongruo come quello ad Y tra via dei Mille, via Filangieri ed i gradini dedicati al giurista napoletano Francesco D’Andrea. Il risultato viene ottenuto: si crea un fondale monumentale per la via dei Mille attraverso un gioco complesso di masse ad impianto ellittico nei primi piani lievemente sporgente e caratterizzato dalla prevalenza di superfici vetrate e un andamento concavo poligonale rientrante nella parte superiore terminante con una semicupola che completa la scenografia con i poderosi cornicioni che si allineano con le fughe prospettiche delle strade. E’ un incontro tra tradizione barocca napoletana e stilemi del Liberty con gli eleganti disegni dei ferri battuti e l’accurata plastica dei cementi decorativi. Assolutamente da vedere all’interno la scala ellittica con leggeri gradini in marmo ed eleganti ringhiere.
Da decenni la vita notturna del quartiere fa perno su di un night leggendario, fondato negli anni Sessanta dai fratelli Campanino: La Mela, investita giorni fa da una polemica per una festa originale.
Basta poco, nel mondo della notte, a scatenare la polemica. Persino una festa in maschera in pieno Carnevale, se il tema non è di quelli politically correct. È il caso della querelle, scatenata dai Verdi Francesco Emilio Borrelli e Gianni Simioli in merito al cattivo gusto della serata organizzata giovedì scorso alla Mela, locale cult del by night cittadino. A suscitare lo sdegno, il tema scelto dai promotori del party, i clochard: vestiti stracciati, finta fuliggine in viso e scarpe rotte hanno fatto la parte del leone nelle mise scelte da centinaia di giovani che hanno affollato non solo il locale di via dei Mille ma anche lo spazio adiacente l’ingresso, lasciando così immaginare che il locale si fosse trasformato in un meeting dei senzatetto cittadini. A suscitare lo sdegno di qualcuno non è stato però l’impatto a sorpresa con i finti barboni quanto, piuttosto, l’idea stessa di ironizzare su una condizione non felice di tante persone costrette ogni giorno a rimediare cibo e vestiti tra cassonetti e beneficenza.
«Alcuni residenti di Chiaia si sono spaventati vedendo tutte queste persone vestite da barboni, pensavano fossero veri ed hanno temuto una invasione o addirittura che dovessero essere ospitati in zona, invece erano i loro figli. Noi crediamo che gli organizzatori dovrebbero chiedere scusa e devolvere l’incasso ai veri clochard passando una sera con noi ad aiutarli invece di sbeffeggiarli e deriderli». Immediata la risposta della direzione del locale, che del resto non ha, il più delle volte, voce in capitolo sulla scelta del tema delle serate che sono gestite da professionisti della notte che ne curano poi ogni dettaglio, dalla denominazione della festa alla comunicazione della stessa.«In risposta alle polemiche innescate dalla serata Clochard Style da parte di chi ricerca ogni giorno visibilità e clamore per scopi personali e non certamente dettati dalla propria sensibilità umana - ha commentato il patron della Mela Luciano Monte, uno dei nomi più noti della vita notturna partenopea - la direzione precisa che la serata è stata organizzata da un gruppo di giovani di età compresa tra i venti ed i quarant’anni e non da under 18, e che il tema voleva richiamare concetti più ampi come già in campo letterario è successo. Del resto il clochard è talvolta anche uno stile di vita adottato per scelta e non per necessità. Tuttavia non era certamente nostra intenzione mancare di rispetto a chi soffre ed è meno fortunato di noi. Se questo è successo ce ne scusiamo e presto organizzeremo un evento per fornire aiuto ai senzatetto.
Ma anche Chiaia ha i suoi buchi neri, i suoi vicoli senza luce, le sue vie tortuose che salgono e scendono dalla riviera, nelle quali vive un popolo genuino, legato a valori antichi, nonostante i suoi miasmi e le ferite recenti inferte dai crolli, divenuti ormai periodici, con punte eclatanti, come quello di Palazzo Guevara, che ad un anno di distanza, è ancora lì con i suoi problemi che non trovano soluzione tra elefantiasi burocratica e giustizia lumaca.
Si ricorda ancora come il lunedì nero della città, quel 4 marzo di un anno fa. La mattina il crollo di un’ala di palazzo Guevara del Bovino, miracolosamente senza vittime, in un’ora in cui sarebbe potuta succedere una strage. Nella serata il drammatico incendio della Città della Scienza. È passato un anno esatto. Una doppia ferita per Napoli. Alla Riviera si è scelto di non coprire la parte dello stabile crollato. Ci sono ancora le transenne a delimitare l’area del crollo. Botteghe chiuse, il supermercato si è spostato in via Giordano Bruno. Il gommista ha aperto un posto di fortuna nella curva tra viale Dohrn e piazza della Repubblica. Gli altri sono chiusi e finiti. Sono circa 30 le persone che hanno perso il lavoro, commessi e dipendenti che ora si sono spostati altrove. Altri hanno perso tutto. Perché il contributo della Regione c’è stato, come il blocco delle tasse comunali, ma non tutto è servito a ridare una vita normale a chi era considerato un privilegiato prima del crollo e ora si trova ancora senza più nulla.
Ad un anno di distanza ci sono ancora una ventina di sfollati.
Ad un anno di distanza. La strada è stata è stata riaperta (l’estate scorsa) ma solo alle auto e non ai bus come si era inizialmente ipotizzato con tanto di avvisi sulle paline, messi e tolti nel giro di meno di 24 ore. Ma il passaggio delle auto non è stato d’aiuto ai commercianti, la situazione non è mutata, anzi e la sera il quartiere è deserto tanto che spesso a turno ci sono o vetture della polizia a presidiare o della municipale. I tentativi di furto, proprio al civico 66, infatti non sono mancati.
Quanto ancora ci vorrà per il rientro degli sfollati del 66 nelle proprie abitazioni ancora non si sa. Nessuno si sbilancia. L’ultima parola spetta infatti ai tecnici, che purtroppo, essendo così numerosi non sempre si mettono d’accordo. Si tratta di questioni burocratiche ma non solo. Molto si gioca sul risarcimento dei danni e all’accertamento della verità. Ci vorrà del tempo nella speranza che comunque le vite del quartiere non restino sospese ad oltranza.
Dopo il crollo alla Riviera, un anno fa, di un’ala di Palazzo Bovino di Guevara, l’acqua e la sicurezza sono i due argomenti che si rincorrono. Si sente di tutto e di più: un saliscendi di paure. Una pozzanghera, un ristagno scatena allarmi. Più avanti, risalendo per via Santa Maria della Neve a Chiaia, te lo gridano dai balconi. Anziane in vestaglia: «qui, ogni palazzo tiene le perdite sue». Urologia e idraulica. «Qui devono solo riaprire al traffico la Riviera, prima fanno meglio è. Altrimenti chiudiamo tutti. Ci stanno strangolando, non arriva più nessuno». «Ma guardate bene, guardate bene» suggerisce con un sorrisetto beffardo la signora Carmela, le mani ingombre di buste della spesa. «Vedete le saittelle? Sono tutte appilate. Quando piove qui scorre la lava, un fiume in piena». E andrebbe pure bene. «La verità è che queste saittelle sono la tana per scarafaggi e topi, d’estate e d’inverno».
Entrambi gli edifici sono ancora deserti. L’impressione, camminandoci davanti, è quella di attraversare un quartiere appena bombardato in cui non c’è stata nessuna guerra. 
La parte finale della Riviera è ormai chiamata «la strada del palazzo crollato». E i nomi contano, si sa. Il rudere di palazzo Guevara sta ancora lì, suggestivo e drammatico, sotto gli occhi di napoletani e vacanzieri. Suggestivo, dato che nei mesi scorsi si organizzavano perfino visite di turismo da tragedia per curiosare nelle ossa di cemento dell’edificio frantumato. Drammatico perché c’è gente che ha perso casa, speranza e lavoro in un attimo.
Tutto fermo, in attesa di perizie. Sono tanti i poteri pubblici coinvolti e prima di decidere si prendono i loro tempi. Che poi sono i tempi d’Italia. A quasi dodici mesi dal crollo, nel silenzio delle istituzioni cittadine e non, siamo ancora fuori. E’ un fatto scandaloso che in una città moderna, che si vuole dotare di metropolitane ed essere all’avanguardia, ci sia ancora gente “terremotata” passato un anno da un evento tanto grave. Non è bastato un anno per aggiustare il destino di chi è ancora senza casa o negozio. Buon compleanno crollo.
Se da via Crispi scendiamo lungo via Pontano ci sembrerà di andare dietro nel tempo, percorrendo via Croce Rossa, una strettoia con metà delle case abbandonate. Arriviamo davanti alla Direzione Generale del Santobono-Pausillipon con annesso centro d’igiene mentale della ASL 1. E’ tutto un tourbillon di scooter che la percorrono contro mano, mentre più giù in via Palasciano possiamo trovare ristoranti dove si può gustare del pesce appena pescato o comprarlo nei negozi limitrofi.
Nei vicoli balconi maestosi con vecchiarelle affacciate come se stessero a teatro, nelle botteghe si vende di tutto, dalla frutta alle uova ed anche vestiti dozzinali.
Arrivati in basso vi è l’edificio fascista, denominato bonariamente La Torre, costruito là dove una struttura militare confinava con la spiaggia, da tempo svanita.
Pochi altri passi e ci troviamo davanti ad una chicca, che conosciamo attraverso una mia lettera, che venne pubblicata nel 2002 da tutti i quotidiani napoletani.
Strada con tre nomi primato imbattibile
Gentile Direttore, 
ho letto con interesse nella rubrica “curiosità”de Il Mattino che l’autore dell’articolo sulla strada napoletana in possesso di due toponimi riteneva la circostanza degna di figurare nel Guinnes dei primati. A tale proposito vorrei segnalare ai lettori un’altra strada che straccia ogni primato, essendo in possesso di ben tre nomi chiaramente espressi in tre distinte targhe che campeggiano austere ai lati della stessa. 
Trattasi di una perpendicolare tra via Piedigrotta e via Mergellina. Da un lato possiamo leggere la scritta “Jan Palach”, al lato opposto due diverse lastre marmoree, l’una indicante “Traversa Mergellina” e l’altra, resa quasi illeggibile dal tempo e dall’incuria , “Vico Lungo”. Tale anomalia fu da me segnalata in un articolo pubblicato tempo fa e di cui mandai copia ai componenti della commissione toponomastica cittadina, senza sortire alcun risultato.
Curiosità nella curiosità, in questa strada trovasi una dimenticata edicola votiva dedicata alla Madonna di Piedigrotta, un antico stendardo settecentesco, memore di chissà quante processioni, la cui effige tradisce in maniera lampante delle sembianze virili, segno inequivocabile dei gusti dello sconosciuto artista, il quale ha voluto immortalare il volto del suo amato glorificandolo e trasformandolo in un’immagine sacra. (Il Mattino 20 Settembre 2002) 
Inutile dire che a distanza di quasi 15 anni tutto è rimasto immutato.

i finti clochard della Mela

La "Torre"

E più avanti a via San Filippo, hanno messo paletti e transenne per impedire lunghe soste abusive. Parcheggiano lo stesso, però e le strade diventano così strette che non ci passa nemmeno il piccolo compattatore dell’Asìa. I vicoli conservano ancora in parte il toponimo di cupe, come sentieri di campagna. Quello era un tempo, tra mare e collina, tra i giardini e la spiaggia sorvegliata dalla Torretta che avvistava i saraceni e che dà il nome all’intera zona. Ora è un ufficio comunale, rifatto interamente durante il fascismo. Separa via Giordano Bruno da via Piedigrotta e ospita uffici comunali. Dell’antica struttura non conserva più nulla. Già dalle foto del primo Novecento non si vedono più tracce militari sull’edificio. Un tempo il mare arrivava fino a via Giordano Bruno.. Qui tutta l’edilizia nei secoli ha sfidato le falde acquifere. Se ne sono accorti, eccome, anche gli ingegneri della linea 6. Ma di acqua se ne trova pure negli scantinati di via Torretta. «E’ un fenomeno periodico e costante, precedente ai lavori del metrò».
Leggenda vuole che nei sotterranei, durante il Ventennio, venivano rinchiusi degli oppositori del regime e qualcuno era torturato. Ma, se chiedete, nessuno conferma. La memoria è diventata labile, perché il quartiere, da almeno quindici anni, sta cambiando pelle. Di pescatori non ne vedete, anche se in qualche vicolo c’è un gozzo a secco. Di pescivendoli ce ne sono ancora, ambulanti e con il negozio.
Un tempo via Generale Carmelo Cucca  era un angolo malfamato. Uno degli epicentri dei clan locali. Ora è quasi deserto, con i bassi che hanno invaso con un passetto la strada. Qualcuno ci ha incastrato persino la lavatrice, fuori, all’aperto. Dietro i cancelli intravedi un cortile che è quasi un fondaco. Arrivano richiami di comari, il ronzio di un frullatore, ma anche l’odore della frittura. «Un tempo si sentiva persino l’odore del mare, poi il mare si è seccato, non c’è più. Nella Torretta, durante la guerra c’erano gli americani che erano sempre a caccia di signorine. Venivano fin dentro al vicolo a cercarle. E c’era tanta gente che andava con loro, per fame. Diventò un commercio». Da pescatori di polpi e spigole a pescatori di femmine.
Sopra i vicoli, sopra questo retrobottega di Mergellina, svettano i palazzi di via Isernia e di via Schipa, alti edifici che s’innalzano sul tufo. Lassù si respira l’aria studentesca dei licei e quella degli studi professionali. Per inerpicarti puoi imboccare i viali privati dei condomini, trasformati in passaggi pedonali. Sbocchi lassù e l’intrigo lo vedi per scorci, a frammenti. Lo senti pulsare, però, è un richiamo animalesco. Rassicurante, quasi protettivo, come un’identità che ti accoglie e ti insegue con i suoi infiniti altarini, tutta una processione di Padri Pio e, qui, una moltiplicazione stordente di Madonne dell’Arco. Ce n’è una enorme, a grandezza naturale e a figura intera, protetta da una cappelluccia in vetro, accanto a un circolo omonimo e alla lapide delle vittime dei bombardamenti aerei dell’ultima guerra mondiale.
Per quanto si giri, cercando differenze, i quartieri, appena accetti la sfida delle vie traverse, mostrano l’identico ventre, mai piatto, sempre gravido. Le due città forse non esistono più, forse non sono mai esistite, nonostante la teorizzazione fatta negli anni Cinquanta da Domenico Rea. Ce n’è una che toglie e mette la maschera. Ma non c’è trucco e non c’è inganno. Giano, il dio con due facce, ha persino dato il nome al patrono Gennaro. Tutto torna., E tutto ha più nomi. Se vi fermate, ad esempio, davanti alla chiesa dei marinai, giù alla Riviera, e fate qualche domanda, potete assistere ad un talk show ruspante dove, come accade in tv, gridano, ridono e non si trova un’intesa. Nemmeno sul nome della stessa chiesa che, sebbene sulla facciata mostri l’inequivocabile scritta di santa Maria della Neve, per tante donne si chiama Sant’Anna. Tutto doppio e niente torna.
Il cuore della Torretta è il mercatino coperto. Una piccola Medina. In fondo c’è una trattoria dai prezzi popolari sempre affollatissima dai clienti di ogni ceto. E’ «Nonn’Anna»., un’istituzione.
L’ultima mutazione è di un decennio fa. «Hanno cominciato ad andare via le famiglie più popolari. Prezzi alti persino per i bilocali. Lavoro in zona ce n’era sempre meno e si sono trasferiti a Fuorigrotta o addirittura a Pianura». Ma lo spopolamento ha coinvolto pure la fascia alta dei redditi. «Viale Elena, io lo chiamo ancora così, viale Gramsci non m’è mai entrato nella testa, viale Elena è diventata una strada di uffici. Sempre meno famiglie e sempre meno consumi». A guardarsi attorno, anche nelle vecchie cupe proliferano i cartelli «vendesi» e «fittasi». E a volte neanche quelli: solo finestre chiuse o persino murate.
Questa è Chiaia: Liberty e catapecchie, griffe e bottegucce, signori e plebei, miseria e nobiltà, ma questa è da sempre l’anima immortale della città.

Pescheria

vicoli con balconi

vicolo

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