L’ultima fatica letteraria di Salvatore Cuffaro
SALVATORE CUFFARO ex presidente della regione Sicilia ed ACHILLE DELLA RAGIONE |
Dopo il successo di pubblico (40.000 copie vendute) e di critica (candidato al premio strega) del suo primo libro “Il candore delle cornacchie” a giorni uscirà il libreria “Le carezze della nenia” la seconda fatica letteraria di Salvatore Cuffaro (per gli amici Totò), già governatore della Sicilia, parlamentare ed euro parlamentare, da tempo detenuto nel carcere di Rebibbia, dove si è spontaneamente costituito, per il reato di favoreggiamento esterno alla mafia.
Il titolo originario a cui l’autore aveva pensato era “Il santuario di sbarre”, poi, dopo aver riflettuto sulla durezza e la tristezza del carcere, ha ritenuto di scegliere un titolo più dolce e più tenero ed è nato “Le carezze della nenia”.
Lo ha deciso di comune accordo con il padre morto da un anno, ma che in sogno lo viene a trovare di frequente, lo conforta, lo consiglia. Ed al padre Cuffaro ha dedicato il suo lavoro: «A mio padre che mi ha educato ed è morto senza capire perché mi stanno rieducando».
La copertina creata da un grafico detenuto è tutto un programma: in primo piano l’autore in divisa da galeotto con sul petto il numero di matricola 87833, in mano i ceppi utilizzati per ogni minimo spostamento, come presenziare ad un’udienza, o recarsi in ospedale per sottoporsi ad una visita specialistica. Sullo sfondo, oltre ad una serie di celle, si apre un cielo che cede all’alba, nel quale svetta un aquilone colorato, da cui sciamano verso il basso le note della nenia.
Commuovente è anche la quarta di copertina, dove si legge: «Il carcere non è storia di corpi come molti credono e tra questi lo Stato, ma storia di anime».
Due le prefazioni, una di Marco Pannella, il glorioso patriarca, che da decenni si batte in favore dei detenuti e l’altra della figlia Ida, pregna di amore e devozione.
Ho assistito giorno dopo giorno alla creazione del libro, gomito a gomito con Totò, dalle 9 alle 18, nell’aula universitaria del penitenziario; lui con il computer, io impegnato a leggere quotidiani, a studiare, a scrivere con la tradizionale penna i miei articoli ed i miei libri. Ogni tanto ci guardavamo negli occhi senza parlare, leggendo tristezza, nostalgia, mal di vivere.
Venticinque sono i capitoli nei quali Cuffaro ha suddiviso il suo doloroso calvario attraverso l’Inferno dei vivi. Titoli crudi che parlano da soli come “Le vessazioni del carcere”, “Inquietudine e morte” o “ La festa dei morti”, mentre altri lasciano lo spazio alla speranza, ad esempio “Amicizia”, “Il bene fa bene”, “Natale in carcere”.
Il libro avvince con la sua prosa asciutta e vivace e si fa leggere tutto di un fiato, ma poi lo si rilegge volentieri, più lentamente, gustando ogni parola, ma soprattutto meditando su ciò che viene raccontato, con sarcasmo senza cattiveria e che induce il lettore a vergognarsi come cittadino e come elettore per lo stato pietoso in cui versano i nostri penitenziari, ove vige un regolamento ottuso ed antiquato (mi assumo la piena responsabilità per questa definizione), creato da una mente diabolica per rendere difficile ciò che è facile e per trasformare la quotidianità in un percorso ad ostacoli con barriere inutilmente alte e difficili da superare.
Ogni tanto una poesia ingentilisce il racconto come questa spiritosa
ODE ALLA TURCA
Quanto sei bella
appena sei pulita,
come una mattonella
di bianco vestita.
Io prima d’ora poco ti conoscevo,
il tuo nome mi riportava nell’epoca del medioevo.
La tua storia voglio rispettare
e con il pennello ti voglio pulire.
Mai smetterò di tenerti pulita,
come la veste bianca di una sposa ambita.
Con il pennello attinto nell’ipoclorito,
darò al tuo bianco corpo un sorriso ardito.
Poi il racconto rapidamente cede il passo alla malinconia del Natale passato lontano dalla famiglia. «Lo spirito del Natale è uguale a quello che c’è negli ospedali, negli orfanotrofi, nei rifuggi dei poveri. Nei giorni di festa il carcere si ferma, niente colloqui, niente telefonate, niente lettere, niente visite di volontari, niente».
O la tristezza infinita della costruzione dell’aquilone «Non sento il rumore delle catene, ma odo il più doloroso lamento delle anime che lo portano. Ho costruito un aquilone. lo farò volare nell’ora d’aria. Il regolamento non lo vieta, ma neanche lo prevede. Vedremo cosa succede».
Tra le inutili cattiverie ne racconta una riguardante i defatiganti quanto diseguali controlli delle cibarie e dei vestiti che, con mille sacrifici, i parenti portano ai detenuti per farli mangiare e vivere con un minimo di dignità. Delle scarpe Hogan, già consegnate altre volte, vengono bloccate. Timidamente la rimostranza della moglie: «Sono sempre passate», «Noi dobbiamo controllare tutto, anche i peli del culo» la replica arrogante.
L’autore ha dedicato molte pagine al mio libro “Favole da Rebibbia” ed ha trasformato uno dei capitoli: “Sfida per la libertà”, facendo divenire protagonista Mohamed, un egiziano mio compagno di cella, padre di infiniti figli, il quale, nella battaglia sconfigge Capitan Uncino, ma si rifiuta di ucciderlo.
Anche nel capitolo “Rebby il topolino”, vi è un chiaro richiamo a Michelino, il personaggio da me creato, che visita gli ambienti del penitenziario, dalla chiesa alle cucine e, nonostante abbia fatto amicizia con l’anziana gatta Lucia, scappa via inorridito.
Potremmo continuare a lungo, ma non vogliamo togliere al lettore il piacere di scoprire personalmente la dura realtà del carcere, dove però vige una solidarietà che, se prorompesse da quelle tristi mura, il mondo il mordo sarebbe migliore.
Salvatore Cuffaro |
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