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martedì 3 aprile 2012

I figli di un dio minore


23/10/2010


La napoletanità nella storia dell’arte


La napoletanità non vive soltanto nel centro storico della città, ma anche e soprattutto nelle grandi periferie da Pianura a Soccavo, da Chiaiano a Miano, da Piscinola a Marianella, da San Pietro a Patierno a Secondigliano fino a Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, le quali sono state colpevolmente dimenticate dalle amministrazioni e dalle istituzioni ed abbandonate al loro triste destino di abiezione e sottosviluppo.
Oggi pochi pseudo intellettuali in combutta con il potere si trastullano a discutere di filosofia, senza tener conto dei bisogni delle grandi periferie degradate e senza speranza e delle loro mille tragedie quotidiane, delle aspirazioni deluse dei loro giovani senza lavoro e senza futuro, dei bisogni non più differibili di gran parte della popolazione.
Napoli è giustamente ricca di giacimenti culturali, ma la vera ricchezza della città è costituita dal gran numero di giovani, la maggiore concentrazione di energia vitale del mondo occidentale, una molla tesa in grado di sviluppare una forza propulsiva di inaudite dimensioni, un magma impetuoso da fare impallidire quello che cova minaccioso sotto le pendici del sonnecchiante Vesuvio.
Questi giovani oggi si trovano, per la quasi totalità, concentrati nelle grandi periferie dell’hinterland ed un caso emblematico è costituito da Secondigliano, temuto Bronx, che potrebbe rivelarsi, ne siamo sicuri, se sapientemente esorcizzato, il nostro vero Eldorado.
Oggi dal Vomero con la metropolitana si arriva in pochi minuti da piazza Vanvitelli e via Scarlatti a via Bakù e via Ghisleri, dagli eleganti negozi e dai tanti cinema sempre affollati, al deserto più assoluto di esercizi commerciali e di luoghi di aggregazione.
Salendo le scale della nuova linea metropolitana ci imbattiamo in un cielo grigio e basso con all’orizzonte ciò che rimane delle famigerate Vele, grandioso esempio di insipienza urbanistica prima e di scellerato spreco delle risorse poi.




Scritte sui muri e, dovunque, graffiti, disegni sguaiati, ma soprattutto il segno di un messaggio di odio giurato verso tutti: i ladroni, i padroni, i benpensanti, i venditori di morte, i cravattari.
Se cerchiamo notizie del quartiere su libri, enciclopedie, raccolte di giornali e riviste, recuperiamo poche e sconsolate parole, segno di una rimozione e di un disinteresse generale.
Secondigliano per il Lessico della Treccani è semplicemente un sobborgo settentrionale di Napoli (a sette km) situato a 99 metri sul livello del mare, ai piedi delle ultime propaggini dei Flegrei. Il centro risale all’ottavo secolo. Stazione ferroviaria sulla linea Napoli Capua. 
Di Scampìa non si sospetta nemmeno l’esistenza, mentre nei celebri volumi di Romualdo Marrone sulle strade napoletane, vera miniera di notizie, che dedicano intere pagine a vie e piazze del centro storico, per via Bakù, arteria principale del quartiere e simbolo stesso di Secondigliano, pochi e lapidarie parole: «dalla strada statale Appia al Centro Direzionale rione 167, quartiere Secondigliano. La strada è dedicata al capoluogo dell’Azerbaigian sovietico, città sul Mar Caspio con cui Napoli ha stretto un patto di gemellaggio il 21 luglio 1972». E aggiungerei patria del campione mondiale di scacchi Kasparov.
La caratteristica che più colpisce l’osservatore è l’assenza di negozi e la difficoltà in cui si dibattono i pochi che ancora resistono.
È un segno inequivocabile dell’economia stagnante e della piaga dell’usura mai combattuta, alla quale molti, tanti, commercianti sono stati costretti a rivolgersi in assenza di qualsiasi sistema creditizio a sostegno delle iniziative locali. E molti di questi bottegai sono divenuti oramai ostaggi degli strozzini, i terribili cravattari, ai quali hanno ceduto i sogni, i progetti, le stesse speranze. Sono negozianti dalle facce tutte uguali, solcate dalle stigmate di antiche tribolazioni, dallo sguardo abbassato ed assente, sepolti vivi di un tempo difficile, senza memoria del proprio passato e senza certezza del futuro, ma solamente angosciati da un esasperato senso del presente.





La metropolitana era la grande promessa, qualcuno si illudeva che sarebbero addirittura arrivati anche i turisti, ma qui non si avventurano neanche i napoletani, perché impauriti dalla sinistra fama dei luoghi, anche se, spavaldi, hanno affrontato senza timore i quartieri più malfamati di Londra e New York, di Istanbul e di Calcutta.
Qui, alle spalle della fermata della metropolitana, vi sono fango e fogne otturate, roulottes di zingari e tanta infinita tristezza e malinconia.
Il turismo si è svolto all’incontrario e così il Vomero si è trovato inondato da torme di giovani vocianti e questa invasione pacifica, ma tanto temuta dai benpensanti, è stata magistralmente raccontata da Beppe Lanzetta, uno dei pochissimi intellettuali, assieme ad Edoardo Bennato e Pino Daniele nelle loro canzoni ed a Piscicelli nei suoi film, struggenti di angoscia e mal di vivere, che ha descritto questo dimenticato angolo di Napoli. «La ciurma da paura, festosa, puzzolente, colorata, borchiata, griffata, prezzolata, falsa, figlia dei R.E.M., Ramones, U2, orfana dei Clash, figlia dei cantanti napoletani più gettonati sui matrimoni e battesimi, tifosa ad oltranza del Napoli, arriverà da voi, si presenterà, farà storcere il muso, farà discutere, darà fastidio, mescolerà deodoranti prendi tre paghi due con colonie di Guerlain, farà imprecare contro i tempi moderni, le alte velocità, vi farà dire: ma era proprio necessaria questa metropolitana? E allora rimpiangerete i tanto vituperati autobus dell’Atan, il 160 nero, il 34, il 118 e soprattutto il 185 che quando lo volevi non passava mai, mai, mai...».
Un’altro problema del quartiere, sentito qui più che altrove, è la presenza di una malavita che, oltre ad impaurire, detta regole e codici di comportamento i quali, se fossero adottati anche dai giovani, troncherebbero qualsiasi speranza di riscatto o di rinascita. Ma per fortuna a Secondigliano la stragrande maggioranza dei Tonino e dei Totore, delle Assuntine e delle Annarelle sono ragazzi puliti, generosi, con nel portafoglio la foto dell’idolo preferito, che è sempre un campione positivo, anche se è un cantante, un calciatore, o una diva di soap opera. E dietro di loro vi è un’enorme massa di brava gente, lavoratori, quando è possibile, pensionati, piccoli commercianti e mamme coraggio, che sono nate qui, come aggregazione spontanea nell’alveare disumano dei grandi edifici della 167, un pollone spontaneo sgorgato all’improvviso per innalzare un argine alla diffusione della droga. Tutte persone oneste che con il loro comportamento costituiscono un esempio edificante per i giovani.
Nelle mani delle autorità cittadine e nazionali vi è oggi un’enorme responsabilità nei riguardi di questi giovani, ai quali bisognerà costruire un futuro attraverso il lavoro, che non potrà essere certo quello di contrabbandiere, posteggiatore abusivo, lavavetri, taglieggiatore, spacciatore, le uniche prospettive che si presentano oggi.
Il futuro di Napoli non si gioca soltanto a via dei Mille o in piazza Plebiscito, bensì in questi rioni periferici zeppi di giovani, che attendono soltanto di essere istradati, ma assolutamente privi di tutto: cinema, circoli culturali, consultorî, giardini, luoghi di aggregazione.
Senza ripetere i disastrosi errori del passato, con cattedrali nel deserto e migliaia di miliardi erogati scriteriatamente a pioggia ed in gran parte finiti nelle tasche della camorra e di politici corrotti, bisognerà cercare la vera inclinazione dei napoletani, che non sono certo le catene di montaggio, bensì quelle attività che sono state per secoli la ricetta vincente della nostra economia: agricoltura, artigianato, industrie di trasformazione, alle quali bisognerà aggiungere turismo e terziario avanzato.
Sembra una ricetta semplice, quasi l’uovo di Colombo, ma su queste indicazioni bisognerà meditare a lungo ed agire con determinazione ed anticonformismo.
Lo richiede il futuro della città, ma principalmente lo invocano tanti giovani privi di bussola, con tanta voglia di fare, ansia di realizzare e di realizzarsi, ai quali bisognerà offrire più opportunità ed incoraggiamento.
Solo se sarà vinta questa sfida coraggiosa Secondigliano non sarà più il nostro Bronx, bensì un Eldorado felice ed i suoi figli cesseranno di essere considerati figli di un Dio minore.

 




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