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martedì 3 aprile 2012

La fattura ed il Diavolo di Mergellina


21/10/2010

La napoletanità nella storia dell’arte 

Entrando nella chiesa di S. Maria del Parto, voluta dal Sannazaro e posta sopra al celebre ristorante Ciro a Mergellina, si può ammirare, sul primo altare entrando a destra, un dipinto di Leonardo da Pistoia, un artista toscano a lungo attivo nel Cinquecento all’ombra del Vesuvio, raffigurante San Michele Arcangelo che trafigge un bellissimo diavolo, anzi una diavolessa, il cui volto è quello di una gentildonna dell’epoca. Un’iconografia originale che sta alla base di una famosa leggenda partenopea: quella del diavolo di Mergellina e di un detto popolare, ancora scandito da qualche vecchia abitante del borgo marinaro all’indirizzo di fanciulle sfacciate ed ammaliatrici:”Si bella e ‘nfama comm’ o riavule ‘e Margellina.
Ma partiamo dal principio, raccontando questo episodio realmente  accaduto sul quale scrisse lo stesso Benedetto Croce, che indagò personalmente tra i polverosi fascicoli dell’archivio familiare della nobildonna.
Le cronache ci riferiscono solo il nome di battesimo, Vittoria, ma noi sappiamo che si trattava di una D’Avalos, per qualche anno novizia nel famigerato convento di S. Arcangelo a Baiano, la quale, invaghitasi del vescovo di Ariano Diomede Carafa, abbandonò la tristezza del claustro ed incaricò una celebre fattucchiera del tempo di preparare una pozione per far innamorare di lei il religioso.
E qui dobbiamo interrompere la storia di questa passione scellerata per disquisire sulla fattura da distinguere dal malocchio, altro caposaldo della tradizione esoterica superstiziosa napoletana.
Diretta discendente dei filtri d’amore medioevali, diffusi in molte culture a diverse latitudini, la fattura, cosidetta buona, viene messa in atto per destare interesse in una persona che non vuole corrispondere al sentimento di una donna innamorata. Essa viene preparata da una donna, a cui il segreto della preparazione è stato tramandato per via familiare, da nonna a nipote, e vengono utilizzati una ciocca di capelli dell’uomo o meglio ancora un brandello di abito adoperato di recente, che conservi ancora l’odore della pelle; il tutto mescolato al sangue mestruale della richiedente. 
La pozione viene poi fatta ingurgitare all’ignaro oggetto del desiderio amoroso, con l’aiuto di qualche persona vicina alla persona da affatturare, in genere una domestica prezzolata, che riesca a convincere il malcapitato ad ingerire la rivoltante mistura con suadenti parole:”tu nun staie bbuono, pigliate stà mericina, è fetente, ma te fà bbene”.  Colui che beve il ben dosato intruglio, dopo un diffuso malessere, scopre all’improvviso un trasporto amoroso irresistibile verso la persona prima trascurata, assieme ad una rinnovata energia, per permettere l’attuazione dell’improvvisa voglia.
E ritorniamo alla nostra tresca amorosa. La fanciulla si presentò in casa dell’ignaro prelato offrendogli delle zeppullelle, per essere ricordata nelle sue preghiere affinché potesse trovare marito, impresa fino allora vana, nonostante la giovane si fosse recata più volte presso la prodigiosa statua di San Raffaele ad impetrare la grazia attraverso il rituale bacio del pesce…
Tali cortesie erano frequenti tra le ragazze delle nobili famiglie, che spesso portavano dolcetti ai religiosi per farli distribuire ai poveri, per cui il vescovo non sospettò di nulla per il grazioso omaggio, ma mal gliene incolse, fu preso da una passione sfrenata verso Vittoria, il cui volto lo perseguitava giorno e notte e non poteva placare la sua frenesia se non attraverso quotidiani contatti ravvicinati del quarto tipo.
Per liberarsi dalla fattura che oramai gli rendeva la vita impossibile si rivolse ad un monaco procidano, grande esperto di negromanzia e di tecniche magiche, esorcista segreto del cardinale di Napoli. Il vecchio frate era un nemico giurato del diavolo e dei suoi malefici, che combatteva servendosi dell’aiuto di San Michele Arcangelo, al quale era dedicato il suo cenobio. 
Egli studiò la questione, consultò le formule segrete contenute in antiche carte sottratte alle streghe bruciate durante il medioevo, pregò e meditò a lungo ed infine emise diagnosi, prognosi e terapia.
Il vescovo Diomede avrebbe dovuto sfruttare il potere catartico dell’immagine, dando incarico ad un pittore di rappresentare un poderoso San Michele che sconfigge un diavolo con il volto della donna, annichilendo così, attraverso il simbolismo, il potere della fattura. Il quadro, di grosse dimensioni, andava collocato in un luogo sacro e benedetto quotidianamente con l’acqua santa. 
La sfrenata bramosia di possesso di Diomede si tramuta così in una pacata contemplazione delle sembianze della donna raffigurate nel dipinto; la fattura è sciolta  ed il religioso può ritornare ai peccati di concupiscenza della fantasia, abbandonando quelli più defatiganti della carne.
Ancora oggi possiamo ammirare questa splendida pala d’altare dal potere taumaturgico e leggere il cartiglio che recita:”Fecit victoriam alleluia 1542, Carafa” un victoria che allude naturalmente al nome della donna suscitatrice di insane passioni.

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