Finalmente un governo tecnico incaricato di assumere provvedimenti poco graditi senza dover temere il giudizio degli elettori: patrimoniale,aumento dell'età in cui andare in pensione,una seria lotta all'evasione fiscale e tra questi,ormai indifferibile ed invocato anche dal nostro saggio Presidente Napolitano, un 'amnistia ed un indulto, che sfollino le carceri dove il sovraffollamento ha creato condizioni di invivibilità che nemmeno Dante ha immaginato per i suoi gironi infernali.
i detenuti non sono bestie e con i lori amici e parenti pregano che un tale provvedimento venga varato, e sono tanti, tutti gli uomini di buona volontà
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martedì 22 novembre 2011
MONNEZZA
correva l’anno 2006 quando decisi di raccogliere in un volume: Viaggio nella spazzatura campana le mie riflessioni sul tema dei rifiuti, che avevano già trovato eco in un capitolo di Gomorra dedicato all’argomento. Il libro da tempo esaurito (ma consultabile sul web) ebbe un discreto successo e tradotto in inglese suscitò l’interesse di alcune importanti aziende del settore, che avevano messo a punto un sistema al plasma sperimentato attraverso le ricerche spaziali della NASA. Esse mi contattarono perché volevano offrire le loro scoperte agli amministratori regionali ed una di esse era disposta ad investire 200 milioni di dollari in cambio dello sfruttamento della spazzatura napoletana per alcuni anni.
Mi attivai tramite le mie conoscenze politiche per far pervenire l’offerta nelle sedi competenti e volete sapere come andò a finire? Bene, lo vorrei sapere anche io, visto che non ricevetti mai risposta, perché la parola gratuitamente spaventò coloro che sono abituati a lucrare tangenti su ogni appalto. Sono passati cinque anni e nulla è cambiato se non in peggio: i sacchetti rimangono in strada e chi protesta per il diritto alla salute propria e dei propri familiari è ancora una volta un “brigante” da manganellare.
La gente è stanca di essere privata di tutto anche dell’aria che respira. Non vuole essere sommersa da cumuli di spazzatura ed ammalarsi di cancro. Eppure a ragioni legittime si risponde con i reparti della polizia in stato di assedio e i diritti più elementari come la dignità umana sono ridotti a un cumulo di monnezza da buttare nelle discariche. Ma dove si trovano queste discariche? Vicino a centri abitati e quando non c’è più spazio, qualcuno pensa di utilizzare il parco naturale del Vesuvio, un’oasi di straordinaria bellezza, come un immondezzaio a cielo aperto. Le discariche per la gente del sud sono diventate delle camere a gas. Le stesse che i tedeschi usavano per mandare a morire milioni d’ebrei. Eppure la UE aveva già ammonito l’Italia per questo problema dilagante e ora giustamente nega i finanziamenti già stanziati, se il governo non risolverà la questione, anzi minaccia gravi sanzioni Siamo diventati i Pulcinella del mondo grazie a come siamo stati e siamo governati. La nostra nazione si sta sbriciolando:erosione delle coste, inquinamento ambientale, abusivismo edilizio e invece di correre ai ripari ascoltando le proteste legittime della gente, si pensa di risolvere le questioni a colpi di manganello.
http://www.guidecampania.com/dellaragione/articolo23/articolo.htm
Mi attivai tramite le mie conoscenze politiche per far pervenire l’offerta nelle sedi competenti e volete sapere come andò a finire? Bene, lo vorrei sapere anche io, visto che non ricevetti mai risposta, perché la parola gratuitamente spaventò coloro che sono abituati a lucrare tangenti su ogni appalto. Sono passati cinque anni e nulla è cambiato se non in peggio: i sacchetti rimangono in strada e chi protesta per il diritto alla salute propria e dei propri familiari è ancora una volta un “brigante” da manganellare.
La gente è stanca di essere privata di tutto anche dell’aria che respira. Non vuole essere sommersa da cumuli di spazzatura ed ammalarsi di cancro. Eppure a ragioni legittime si risponde con i reparti della polizia in stato di assedio e i diritti più elementari come la dignità umana sono ridotti a un cumulo di monnezza da buttare nelle discariche. Ma dove si trovano queste discariche? Vicino a centri abitati e quando non c’è più spazio, qualcuno pensa di utilizzare il parco naturale del Vesuvio, un’oasi di straordinaria bellezza, come un immondezzaio a cielo aperto. Le discariche per la gente del sud sono diventate delle camere a gas. Le stesse che i tedeschi usavano per mandare a morire milioni d’ebrei. Eppure la UE aveva già ammonito l’Italia per questo problema dilagante e ora giustamente nega i finanziamenti già stanziati, se il governo non risolverà la questione, anzi minaccia gravi sanzioni Siamo diventati i Pulcinella del mondo grazie a come siamo stati e siamo governati. La nostra nazione si sta sbriciolando:erosione delle coste, inquinamento ambientale, abusivismo edilizio e invece di correre ai ripari ascoltando le proteste legittime della gente, si pensa di risolvere le questioni a colpi di manganello.
http://www.guidecampania.com/dellaragione/articolo23/articolo.htm
Achille Lauro superstar
un libro,"Achille Lauro superstar", su un napoletano doc ingiustamente dimenticato, nonostante sia stato per decenni sindaco plebiscitario, grande imprenditore ed il più famoso e ricco armatore al mondo di tutti i tempi.
La rilettura storica di Lauro non è fatta da destra e di ciò è garante la fede politica dell'autore, Achille della Ragione, da sempre militante radicale, il quale, nella prefazione, definisce Berlusconi un clone del Comandante. Ed il Nostro eroe, di rincalzo, in una spiritosa intervista impossibile, definisce il Cavaliere il suo miglior allievo"Egli non ha fatto che copiarmi: televisioni, giornali, una squadra di calcio e tanta, tanta pubblicità".
Achille della Ragione, valente ginecologo, è un personaggio poliedrico, attivo in più campi dalla critica d'arte all'agonismo scacchistico. Egli, da anni impegnato a rivisitare concittadini scomodi, ha cercato di sdoganare il Comandante dalla sua sinistra fama, legata alla stagione del sacco edilizio e di "Mani sulla città", dimostrando, con numerosi ed inediti dati documentari, che la grande cementificazione selvaggia non avvenne negli anni in cui Lauro fu sindaco, bensì durante i trenta mesi della reggenza Correra , il famigerato commissario prefettizio inviato dal potere centrale a punire la città che votava monarchico.
Un altro capitolo di grande interesse è quello dedicato al crac della flotta con i conseguenti processi da poco terminati, che hanno interessato personaggi di primo piano (armatori, imprenditori, politici, faccendieri), che possono oggi agire liberamente grazie al complice silenzio dei mass media e che nel libro vengono coraggiosamente indicati con tanto di nome e cognome.
Il libro, scritto con la severità dello storico, ma ricco di aneddoti che rendono la lettura scorrevole ed avvincente, come ad esempio, il capitolo dedicato alla leggendaria esuberanza sessuale di don Achille, è già in seconda edizione a pochi giorni dall'uscita, grazie ad una coraggiosa politica editoriale: consultabile gratuitamente su internet http://digilander.libero.it/achillelauro/indice.htm
ISSO, ESSA E O MALAMENTE, L’EPOPEA DELLA SCENEGGIATA
La sceneggiata è una forma di rappresentazione popolare che alterna il canto con la recitazione su toni drammatici, che si sviluppa a Napoli tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento sulle ceneri del cafè chantant
Lo spettacolo si basava su una canzone di grande successo, da cui la sceneggiata derivava il titolo ed attorno al tema musicale veniva costruito un testo teatrale in prosa.
La nascita del genere è legata ad un motivo fiscale, perché furono istituite delle tasse sulle canzonette, mentre il prelievo sugli spettacoli teatrali era più basso, ciò indusse alcuni autori a scrivere commedie sul testo di canzoni famose.
Uno dei primi spettacoli fu Pupatella nel 1918, basata sulle parole di Libero Bovio e legata ai temi tradizionali del tradimento e della malavita.
Si affermarono alcune compagnie specializzate, come la Cafiero Fumo, che mise in scena nel 1920 Surriento gentile di Enzo Lucio Murolo, al quale si deve l’escamotage di aggirare la tassa sugli spettacoli di varietà con la creazione di spettacoli misti con recitazione drammatica e canzonette. Nella celebre compagnia lavorarono anche D’Alessio, Maggio, Taranto, Sportelli e Trottolino, mentre alcuni teatri divennero dei veri tempi del genere, come il Trianon ed il San Ferdinando.
Oltre ai protagonisti vi era sempre uno stuolo di caratteristi, a volte molto bravi, che concorrevano al trionfo del bene sul male ad opera della giustizia divina o per il decisivo intervento dell’eroe vendicatore.
La sceneggiata ebbe grande successo all’estero tra gli emigranti e leggendaria si staglia tra gli interpreti attivi a New York nella comunità di Little Italy la figura di Gilda Mignonette, la regina degli emigranti e il testo ‘O Zappatore, con accenti fortemente sociali ed ambientata in parte proprio negli Stati Uniti o Guapparia, un vero e proprio decalogo ad uso di uomini d’onore.
All’inizio si sfruttavano canzoni famose, spesso di Libero Bovio, e su questa si creava la trama della sceneggiata, in seguito si lavorò all’inverso: scrivendo di sana pianta il soggetto per trarne eventualmente vantaggi con la vendita dei dischi.
Il pubblico si entusiasmava ascoltando i dialoghi stereotipati dei protagonisti e saliva sul palcoscenico in massa per fermare le gesta del cattivo, prima che a fare giustizia ci pensasse isso, l’eroe, il guappo buono. Talune volte invece obbligava gli attori ad un bis della scena finale, quella nella quale il cattivo veniva ucciso, per cui il ”fetentone” era costretto a rialzarsi e, dopo improperi e colluttazioni, a farsi sparare di nuovo.
Il genere lentamente perse il suo contatto con l’anima del pubblico e venne poco rappresentato, fino agli anni Settanta, quando vi fu una certa ripresa grazie a Mario e Sal Da Vinci a Pino Mauro, Nino D’Angelo, ma soprattutto a Mario Merola, dominatore assoluto del Teatro 2000 e protagonista anche di numerose trasposizioni cinematografiche.
Mario Merola l’eroe della sceneggiata
La donna è vista costantemente in un’ottica maschilista, pronta sempre a tradire ed in grado di riscattarsi solo come mamma.
Gli stessi archetipi si trasferiscono sullo schermo negli anni Settanta ed il successo di pubblico si rinnova, anzi la moltiplicazione degli spettatori insita nel nuovo mezzo di diffusione permette l’acquisizione di un numero di fan ancora più alto.
Le pellicole utilizzano gli stessi ingredienti della sceneggiata classica: l’ingiustizia subita, l’onore ferito, l’amore contrastato, il tradimento della donna, i pianti, i duelli, il sangue che sgorga a fiotti ed alla fine il buono che prevale sul cattivo, un topos universale che pervade la letteratura anche colta dalla notte dei tempi, fino alle moderne rivisitazioni del mito tipo Batman, 007 e simili.
Il ritmo drammatico della sceneggiata, sia essa teatrale o cinematografica, si attaglia perfettamente alla cultura napoletana dominante, che ieri come oggi, è stata quella della plebe con i suoi arcaici riti di sangue ed il modo sbrigativo, ma a volte efficace, di amministrare la giustizia.
Sarà Mario Merola ad incarnare, nonostante la mole poderosa ed il volto di innocuo bamboccione, il mito dell’eroe vendicatore, del camorrista giustiziere, del guappo buono, travasando dai legni dei teatri di periferia alla gloria della celluloide, che ancora si riverbera, dopo oltre trenta anni, sulle emittenti private campane, che imperterrite, quotidianamente, ripropongono le gemme… della sua produzione da I contrabbandieri di Santa Lucia a Napoli serenata calibro 9, dall’esplicativo sottotitolo: I mandolini suonano, le pistole cantano.
Sono film che costituiscono un sottogenere, a metà strada tra il poliziesco americano e la classica storia di camorra, un filone che contagerà anche altre città, a partire da Milano, ma le pellicole napoletane rimarranno le più intriganti.
Un altro protagonista di queste cine sceneggiate sarà Pino Mauro con il suo mitico I figli non si toccano impregnato di retorica e di antiche consuetudini dell’onorata società; egli veste i panni di un vendicatore ancora più spietato ed avrà anche lui il suo pubblico affezionato, pur senza raggiungere il successo di Merola, in versione contrabbandiere o meglio ancora a bordo di una scalcinata 127, in grado di seminare le Alfa Romeo dei carabinieri o di caracollare audacemente su un treno merci, facendo perdere le proprie tracce.
Indimenticabili le sue rivisitazioni del celebre Zappatore, un’icona idolatrata a lungo anche dagli intellettuali di sinistra, gli stessi che in passato avevano massacrato i film di Totò. Le scene più commoventi dei suoi film venivano accolte dal pubblico in delirio con applausi scroscianti.
Negli ultimi anni l’attore era spesso malato e costretto a ricoveri i ospedale, che veniva letteralmente invaso dai suoi sostenitori, appartenenti a quel sottoproletariato degno erede della plebaglia seicentesca del vice regno spagnolo.
Nel 2006 ai suoi funerali vi era mezza città, la Napoli dei vicoli e delle periferie degradate, a mostrare l’egemonia della sua sottocultura e ad urlare a tutto il mondo orgogliosa: questa è Napoli e Napoli siamo noi.
domenica 20 novembre 2011
MEDITAZIONI SUL LAVORO
Ripensare al ruolo del lavoro, liberi dalle categorie ottocentesche
In questo articolo propongo ai lettori alcune meditazioni sul tema del lavoro prese dal relativo capitolo del mio libro “Stato, lavoro, denaro, benessere, felicità” in uscita con Mondadori. Si tratta di spezzoni di articoli, relazioni, lettere al direttore e frammenti di conversazioni con esperti del settore come Bertinotti, Terni o Conway.
Negli ultimi decenni abbiamo osservato in tutti i Paesi occidentali come, sul totale della ricchezza prodotta ogni anno, la quota che va a remunerare il lavoro è scesa in percentuale di molti punti, conquistati da quella che va a remunerare il capitale.
Naturalmente queste variazioni sono l’esito di macchinari sempre più costosi, che svolgono una parte dei compiti prima affidati all’uomo; un contadino o un pescatore, l’uno con la zappa l’altro con l’amo e la canna, producevano solo per il loro lavoro, mentre un moderno impianto con tecnologie avanzate (fig. 03) produce in proporzione al capitale investito. La conferma si è avuta quando sulla questione Fiat, discutendo del costo del lavoro, qualche impertinente ha fatto notare che quest’ultimo incide solo per il 7% nel determinare il prezzo di un’automobile.
Prima o poi la produzione di beni, ma anche di servizi, non avrà bisogno del lavoro. Sorgerà allora il drammatico problema di dividere equamente la ricchezza, basterà un governo sovranazionale, possibilmente illuminato, a risolvere equamente la questione?
Il lavoro solo di recente ha assunto una posizione centrale nella società, infatti in passato esso era affidato agli schiavi ed ai servi della gleba, mentre alcune religioni lo consideravano un modo per espiare le colpe (lavorerai con gran sudore!). Il cristianesimo lo ha parzialmente cominciato a rivalutare con san Benedetto e la sua regola:ora et labora e solo con Lutero prima e con Calvino poi è divenuto un modo per riscattarsi e procurarsi meriti per l’aldilà. In seguito tra lavoro e potere si è creato un collegamento sempre più stretto con la crescita del ruolo delle classi borghesi ed operaie e lavorare è divenuto, oltre che il mezzo per procacciarsi denaro allo scopo di migliorare il proprio tenore di vita, anche una leva per costruire e consolidare la democrazia.
A metà del secolo scorso il capitalismo sembrava avesse risolto gran parte della questione sociale, perché lo sviluppo dell’economia non si era incamminato nello sfruttamento sistematico del fattore lavoro, una delle minacce paventate dal marxismo, bensì le retribuzioni crescevano parallelamente all’aumento della produttività, senza intaccare i profitti del capitale ed i lavoratori progressivamente miglioravano il loro livello di vita, integrandosi armonicamente nel tessuto sociale.
A questa situazione si era pervenuti non certo automaticamente, ma soltanto in virtù della formazione di un potere sindacale (fig. 04) solido, in grado di sostenere alla pari i rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Tutto questo è venuto meno con la liberalizzazione nella circolazione dei capitali e la conseguente globalizzazione dell’economia, che permette alle imprese di trasferire la produzione dove il costo del lavoro è più basso ed il potere sindacale inesistente o debole, circostanza che permette di rendere vani i diritti dei lavoratori faticosamente conquistati dopo decenni di lotta.
Un altro fattore non trascurabile che ha influito nel modificare il mercato del lavoro è stato la scomparsa di quella invisibile, ma consistente barriera, tra capitalismo avanzato occidentale ed economie sottosviluppate del terzo mondo, circostanza che ha messo in concorrenza i lavoratori di diversi Paesi, scatenando una corsa al ribasso nelle remunerazioni.
Il ruolo ed il peso economico di interi gruppi sociali è andato progressivamente declinando, mentre la quota di ricchezza che remunera il lavoro è andata progressivamente diminuendo a favore di quella che remunera il capitale. Nello stesso tempo vi è sempre meno bisogno del fattore lavoro per produrre la stessa, se non maggiore, quantità di beni e servizi.
Nella nostra società la dignità del lavoro ha goduto sempre della massima considerazione e la perdita del suo valore economico ha mortificato anche il suo valore morale e sociale, mettendo in crisi le stesse fondamenta su cui si basano le nazioni occidentali. Il lavoro non è visto soltanto come mero mezzo per procacciarsi del denaro, con il quale acquistare dei beni, ma anche come segno di distinzione e di collocazione nel tessuto sociale.
Esiste un rapporto diretto tra libertà del lavoro e democrazia è lì che si aperta tempo fa la prima crepa nell’assolutismo del potere e probabilmente è proprio lì che potrebbe richiudersi.
L’unica via per sottrarsi a questa concorrenza spietata che in breve lasso di tempo vedrà trasferirsi nei paesi terzi gran parte delle produzioni è un forzato ritorno al protezionismo. L’alternativa è accettare un vertiginoso aumento della disoccupazione ed una estrema precarietà nella durata dei contratti ed una sempre più bassa remunerazione del lavoro.
Vi è anche un’altra possibilità, difficile da percorrere e che può in ogni caso riguardare una piccola quota di lavoratori: specializzarsi in attività ad elevato contenuto di tecnologia e competenza oppure indirizzare le risorse verso settori ad alto benessere sociale. Per essere più espliciti favorire attraverso opportune tassazioni la costruzione di autobus e treni invece che automobili o scooter, o meglio ancora meno telefonini e più investimenti nell’istruzione. Sarebbe necessario che la politica riprendesse il controllo dell’economia, un’ipotesi in controtendenza con l’andazzo attuale che vede la finanza dominare il mondo rendendo vane e risibili le decisioni dei governi. Una riorganizzazione delle scelte consumistiche e degli obiettivi di una società incrinerebbe anche il dominio della concorrenza tra i produttori ed il martellamento della pubblicità, che ci spinge ad acquistare beni e servizi dei quali non abbiamo alcun bisogno.
Sindacalisti e politici affermano continuamente che il lavoro è un diritto. L’affermazione è una vecchia litania populista, demagogica e gravemente fuorviante che non ha alcun fondamento. Il lavoro, quello che consente di creare ricchezza lo creano le imprese le quali ovviamente non hanno alcun dovere. La nostra Costituzione nell’affermare che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro indica un obiettivo che tutte le istituzioni e le parti sociali, ognuna nel proprio ambito di competenze devono porsi. Di conseguenza se il lavoro fosse un diritto ogni disoccupato avrebbe pieno titolo di perseguire, in tutte le sedi possibili, non esclusa quella giudiziaria, chi questo diritto gli nega, già ma chi?
Il lavoro precario: maledizione o necessità?
Il lavoro precario è una maledizione (fig. 05) per i giovani, i quali non hanno più punti fermi che permettano di fare progetti per il futuro: formarsi una famiglia, fare dei figli, comprarsi una casa con un mutuo, godere un domani della pensione.
In passato anche il Papa ha fatto sentire la sua autorevole voce sul problema, ma purtroppo, più che lamentarsi del fenomeno, non è riuscito ad avanzare alcuna proposta risolutiva. Molti credono che il lavoro precario sia una triste prerogativa dell’Italia, viceversa esso è una regola in tutti i paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti, dove la estrema mobilità del lavoro è considerata la ricetta dello sviluppo economico.
La scuola fino a quando il problema non avrà trovato una soluzione dovrà impegnarsi a fornire ai giovani una preparazione multidisciplinare, in previsione che, nel corso della vita, siano costretti più di una volta a cambiare completamente tipo di attività. Lo Stato ed i sindacati devono impegnarsi ad elaborare e rispettare una legislazione che preveda la possibilità reale di licenziamento per giusta causa, allo scopo di sfatare il pregiudizio (in gran parte vero) che un datore di lavoro che assuma un dipendente lo debba assumere a vita. Bisogna convincersi che una strenua difesa del lavoro comporta una palpabile penalizzazione per chi lo cerca.
Gli economisti debbono spiegarci se la precarietà è una condizione favorevole dello sviluppo economico e prospettarci modelli alternativi, nei quali un maggiore rispetto dei diritti del lavoratore sia compatibile con un incremento della produzione.
I politici debbono recepire la gravità del problema e, coraggiosamente, proporre soluzioni anche contro i poteri forti, spesso sopranazionali e sempre onnipotenti. Il loro compito è il più gravoso e necessita di un grosso appoggio per evitare il senso di solitudine delle scelte decisive, in mancanza delle quali non esisterà un futuro, non solo per i giovani ma per la nostra civiltà.
Lavorare è necessario?
Il progresso scientifico e l’automazione (fig. 06) negli ultimi anni hanno fatto sì che, con una quota minore di lavoro, si riesca a produrre una maggiore quantità di beni e servizi, una cosa certamente positiva che nel tempo potrà liberare l’uomo dalla maledizione biblica di essere costretto con gran sudore a procacciarsi il necessario per vivere. Paradigmatico è l’esempio di quanto produce un contadino americano ed uno africano: il primo grazie ai fertilizzanti, alla cospicua irrigazione ed all’uso di macchinari riesce a produrre quanto cento dei suoi colleghi africani, per cui, ipotizzando che in futuro anche loro potranno usufruire degli stessi accorgimenti, fra non molto il lavoro di uno solo potrà bastare a produrre il cibo per gli altri 99, i quali potranno anche non lavorare, se però colui che produce sia disposto a dividere con gli altri il frutto del suo lavoro. E qui nascono le difficoltà forse insormontabili per l’egoismo dell’uomo, probabilmente bisognerà creare una rotazione nel lavoro: un giorno ogni cento. Una prospettiva allettante che invita però alla meditazione sulla sua fattibilità, dopo che per anni abbiamo ascoltato l’utopico slogan “lavorare meno lavorare tutti”. In numerosi altri campi la riduzione del lavoro è stata massiccia, mentre il prodotto ha continuato ad aumentare senza sosta, riuscendo a soddisfare gli scriteriati bisogni crescenti di una civiltà dominata dall’imperativo categorico di consumare, consumare ed ancora consumare.
Non è ipotesi fantascientifica immaginare un mondo nel quale il lavoro non sarà necessario (fig. 07) ed i beni ed i servizi necessari saranno realizzati dalle macchine e dai robot. Il problema drammatico sarà costituito dalla distribuzione dei prodotti, venuto meno anche l’uso del denaro o quanto meno del modo per procacciarselo al quale siamo abituati. Ed a complicare ulteriormente il quadro vi è il moloch della globalizzazione, che annulla le decisioni e le volontà non solo dei cittadini, ma degli stessi Stati, impotenti davanti al potere cieco delle multinazionali.
Potremo in futuro, quanto prima, liberarci dal fardello del lavoro, ma dovremo affrontare e risolvere una serie di non facili problemi: distribuire equamente la ricchezza e creare una reale uguaglianza tra nazioni e cittadini. Un compito arduo ed affascinante che dovrà essere l’obiettivo delle nuove generazioni.
In questo articolo propongo ai lettori alcune meditazioni sul tema del lavoro prese dal relativo capitolo del mio libro “Stato, lavoro, denaro, benessere, felicità” in uscita con Mondadori. Si tratta di spezzoni di articoli, relazioni, lettere al direttore e frammenti di conversazioni con esperti del settore come Bertinotti, Terni o Conway.
fig. 01 - Pelizza da Volpedo - Il quarto Stato
Molti hanno del lavoro ancora una visione fuorviata dalle categorie ottocentesche (fig.01 “Pelizza da Volpedo - Il quarto Stato”), invece è necessario riformularne le coordinate, perché sul lavoro si gioca il futuro del mondo, il quale una volta si divideva semplicemente in ricchi e poveri (fig. 02), mentre oggi, ed in futuro il divario sarà sempre più accentuato, tra chi ha un lavoro e chi non lo ha.fig. 02 - Cammarano - Ozio e lavoro
Negli ultimi decenni abbiamo osservato in tutti i Paesi occidentali come, sul totale della ricchezza prodotta ogni anno, la quota che va a remunerare il lavoro è scesa in percentuale di molti punti, conquistati da quella che va a remunerare il capitale.
Naturalmente queste variazioni sono l’esito di macchinari sempre più costosi, che svolgono una parte dei compiti prima affidati all’uomo; un contadino o un pescatore, l’uno con la zappa l’altro con l’amo e la canna, producevano solo per il loro lavoro, mentre un moderno impianto con tecnologie avanzate (fig. 03) produce in proporzione al capitale investito. La conferma si è avuta quando sulla questione Fiat, discutendo del costo del lavoro, qualche impertinente ha fatto notare che quest’ultimo incide solo per il 7% nel determinare il prezzo di un’automobile.
fig. 03 - Catena di montaggio
Prima o poi la produzione di beni, ma anche di servizi, non avrà bisogno del lavoro. Sorgerà allora il drammatico problema di dividere equamente la ricchezza, basterà un governo sovranazionale, possibilmente illuminato, a risolvere equamente la questione?
Il lavoro solo di recente ha assunto una posizione centrale nella società, infatti in passato esso era affidato agli schiavi ed ai servi della gleba, mentre alcune religioni lo consideravano un modo per espiare le colpe (lavorerai con gran sudore!). Il cristianesimo lo ha parzialmente cominciato a rivalutare con san Benedetto e la sua regola:ora et labora e solo con Lutero prima e con Calvino poi è divenuto un modo per riscattarsi e procurarsi meriti per l’aldilà. In seguito tra lavoro e potere si è creato un collegamento sempre più stretto con la crescita del ruolo delle classi borghesi ed operaie e lavorare è divenuto, oltre che il mezzo per procacciarsi denaro allo scopo di migliorare il proprio tenore di vita, anche una leva per costruire e consolidare la democrazia.
A metà del secolo scorso il capitalismo sembrava avesse risolto gran parte della questione sociale, perché lo sviluppo dell’economia non si era incamminato nello sfruttamento sistematico del fattore lavoro, una delle minacce paventate dal marxismo, bensì le retribuzioni crescevano parallelamente all’aumento della produttività, senza intaccare i profitti del capitale ed i lavoratori progressivamente miglioravano il loro livello di vita, integrandosi armonicamente nel tessuto sociale.
A questa situazione si era pervenuti non certo automaticamente, ma soltanto in virtù della formazione di un potere sindacale (fig. 04) solido, in grado di sostenere alla pari i rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Tutto questo è venuto meno con la liberalizzazione nella circolazione dei capitali e la conseguente globalizzazione dell’economia, che permette alle imprese di trasferire la produzione dove il costo del lavoro è più basso ed il potere sindacale inesistente o debole, circostanza che permette di rendere vani i diritti dei lavoratori faticosamente conquistati dopo decenni di lotta.
fig. 04 - Manifestazione sindacale
Un altro fattore non trascurabile che ha influito nel modificare il mercato del lavoro è stato la scomparsa di quella invisibile, ma consistente barriera, tra capitalismo avanzato occidentale ed economie sottosviluppate del terzo mondo, circostanza che ha messo in concorrenza i lavoratori di diversi Paesi, scatenando una corsa al ribasso nelle remunerazioni.
Il ruolo ed il peso economico di interi gruppi sociali è andato progressivamente declinando, mentre la quota di ricchezza che remunera il lavoro è andata progressivamente diminuendo a favore di quella che remunera il capitale. Nello stesso tempo vi è sempre meno bisogno del fattore lavoro per produrre la stessa, se non maggiore, quantità di beni e servizi.
Nella nostra società la dignità del lavoro ha goduto sempre della massima considerazione e la perdita del suo valore economico ha mortificato anche il suo valore morale e sociale, mettendo in crisi le stesse fondamenta su cui si basano le nazioni occidentali. Il lavoro non è visto soltanto come mero mezzo per procacciarsi del denaro, con il quale acquistare dei beni, ma anche come segno di distinzione e di collocazione nel tessuto sociale.
Esiste un rapporto diretto tra libertà del lavoro e democrazia è lì che si aperta tempo fa la prima crepa nell’assolutismo del potere e probabilmente è proprio lì che potrebbe richiudersi.
L’unica via per sottrarsi a questa concorrenza spietata che in breve lasso di tempo vedrà trasferirsi nei paesi terzi gran parte delle produzioni è un forzato ritorno al protezionismo. L’alternativa è accettare un vertiginoso aumento della disoccupazione ed una estrema precarietà nella durata dei contratti ed una sempre più bassa remunerazione del lavoro.
Vi è anche un’altra possibilità, difficile da percorrere e che può in ogni caso riguardare una piccola quota di lavoratori: specializzarsi in attività ad elevato contenuto di tecnologia e competenza oppure indirizzare le risorse verso settori ad alto benessere sociale. Per essere più espliciti favorire attraverso opportune tassazioni la costruzione di autobus e treni invece che automobili o scooter, o meglio ancora meno telefonini e più investimenti nell’istruzione. Sarebbe necessario che la politica riprendesse il controllo dell’economia, un’ipotesi in controtendenza con l’andazzo attuale che vede la finanza dominare il mondo rendendo vane e risibili le decisioni dei governi. Una riorganizzazione delle scelte consumistiche e degli obiettivi di una società incrinerebbe anche il dominio della concorrenza tra i produttori ed il martellamento della pubblicità, che ci spinge ad acquistare beni e servizi dei quali non abbiamo alcun bisogno.
Sindacalisti e politici affermano continuamente che il lavoro è un diritto. L’affermazione è una vecchia litania populista, demagogica e gravemente fuorviante che non ha alcun fondamento. Il lavoro, quello che consente di creare ricchezza lo creano le imprese le quali ovviamente non hanno alcun dovere. La nostra Costituzione nell’affermare che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro indica un obiettivo che tutte le istituzioni e le parti sociali, ognuna nel proprio ambito di competenze devono porsi. Di conseguenza se il lavoro fosse un diritto ogni disoccupato avrebbe pieno titolo di perseguire, in tutte le sedi possibili, non esclusa quella giudiziaria, chi questo diritto gli nega, già ma chi?
Il lavoro precario: maledizione o necessità?
Il lavoro precario è una maledizione (fig. 05) per i giovani, i quali non hanno più punti fermi che permettano di fare progetti per il futuro: formarsi una famiglia, fare dei figli, comprarsi una casa con un mutuo, godere un domani della pensione.
fig. 05 - Il lavoro come maledizione
La scuola fino a quando il problema non avrà trovato una soluzione dovrà impegnarsi a fornire ai giovani una preparazione multidisciplinare, in previsione che, nel corso della vita, siano costretti più di una volta a cambiare completamente tipo di attività. Lo Stato ed i sindacati devono impegnarsi ad elaborare e rispettare una legislazione che preveda la possibilità reale di licenziamento per giusta causa, allo scopo di sfatare il pregiudizio (in gran parte vero) che un datore di lavoro che assuma un dipendente lo debba assumere a vita. Bisogna convincersi che una strenua difesa del lavoro comporta una palpabile penalizzazione per chi lo cerca.
Gli economisti debbono spiegarci se la precarietà è una condizione favorevole dello sviluppo economico e prospettarci modelli alternativi, nei quali un maggiore rispetto dei diritti del lavoratore sia compatibile con un incremento della produzione.
I politici debbono recepire la gravità del problema e, coraggiosamente, proporre soluzioni anche contro i poteri forti, spesso sopranazionali e sempre onnipotenti. Il loro compito è il più gravoso e necessita di un grosso appoggio per evitare il senso di solitudine delle scelte decisive, in mancanza delle quali non esisterà un futuro, non solo per i giovani ma per la nostra civiltà.
Lavorare è necessario?
Il progresso scientifico e l’automazione (fig. 06) negli ultimi anni hanno fatto sì che, con una quota minore di lavoro, si riesca a produrre una maggiore quantità di beni e servizi, una cosa certamente positiva che nel tempo potrà liberare l’uomo dalla maledizione biblica di essere costretto con gran sudore a procacciarsi il necessario per vivere. Paradigmatico è l’esempio di quanto produce un contadino americano ed uno africano: il primo grazie ai fertilizzanti, alla cospicua irrigazione ed all’uso di macchinari riesce a produrre quanto cento dei suoi colleghi africani, per cui, ipotizzando che in futuro anche loro potranno usufruire degli stessi accorgimenti, fra non molto il lavoro di uno solo potrà bastare a produrre il cibo per gli altri 99, i quali potranno anche non lavorare, se però colui che produce sia disposto a dividere con gli altri il frutto del suo lavoro. E qui nascono le difficoltà forse insormontabili per l’egoismo dell’uomo, probabilmente bisognerà creare una rotazione nel lavoro: un giorno ogni cento. Una prospettiva allettante che invita però alla meditazione sulla sua fattibilità, dopo che per anni abbiamo ascoltato l’utopico slogan “lavorare meno lavorare tutti”. In numerosi altri campi la riduzione del lavoro è stata massiccia, mentre il prodotto ha continuato ad aumentare senza sosta, riuscendo a soddisfare gli scriteriati bisogni crescenti di una civiltà dominata dall’imperativo categorico di consumare, consumare ed ancora consumare.
fig. 06 - Robot al lavoro
Non è ipotesi fantascientifica immaginare un mondo nel quale il lavoro non sarà necessario (fig. 07) ed i beni ed i servizi necessari saranno realizzati dalle macchine e dai robot. Il problema drammatico sarà costituito dalla distribuzione dei prodotti, venuto meno anche l’uso del denaro o quanto meno del modo per procacciarselo al quale siamo abituati. Ed a complicare ulteriormente il quadro vi è il moloch della globalizzazione, che annulla le decisioni e le volontà non solo dei cittadini, ma degli stessi Stati, impotenti davanti al potere cieco delle multinazionali.
Potremo in futuro, quanto prima, liberarci dal fardello del lavoro, ma dovremo affrontare e risolvere una serie di non facili problemi: distribuire equamente la ricchezza e creare una reale uguaglianza tra nazioni e cittadini. Un compito arduo ed affascinante che dovrà essere l’obiettivo delle nuove generazioni.
fig. 07 - Lavoratori sul lastrico.
sabato 19 novembre 2011
villaggio globale
Oggi viviamo in un villaggio globale. Le informazioni circolano in tempo reale dovunque, anche nel terzo mondo. I nostri penitenziari però appartengono purtroppo al quarto mondo.
Tra i provvedimenti a costo zero, che migliorerebbero sensibilmente la vita dei detenuti, vi potrebbe essere la possibilità di ricevere ed inviare mail a parenti ed amici.
I telegrammi costano tanto (ben pochi possono permetterseli) ed arrivano dopo giorni. I colloqui sono per molti impossibili. Pensiamo agli stranieri, che costituiscono oramai il 40% della popolazione carceraria e sono in continuo aumento, i quali non vedono per anni un familiare, mentre con Skype potrebbero vedere i loro volti. Naturalmente la posta elettronica in arrivo ed in partenza (a differenza di quella tradizionale) potrebbe avere il filtro di uno scrivano.
Quante volte vi è la necessità improcrastinabile di contattare un legale o si vive nell’angoscia per un familiare gravemente ammalato?
Senza sognare amnistie o indulti ogni detenuto potrebbe rimanere in contatto con i propri cari, l’unico rimedio veramente efficace che conosco per sopportare la solitudine e la sofferenza.
giovedì 17 novembre 2011
Gentile signora Balivo,
sono un suo conterraneo, potrei essere suo nonno e leggo con interesse la sua rubrica, molto seguita dai giovani, che però le sottopongono quasi sempre problemi legati alla fase dell’innamoramento, transitoria e non dell’amore, quel sentimento misterioso e sublime, il più bel dono che ci ha fatto il Creatore, il quale può sfidare la caducità della materia e durare in eterno.
Vorrei rendere nota ai suoi lettori la mia esperienza.
Ho avuto la fortuna di incontrare una donna unica Elvira e da 40 anni condividiamo la buona e la cattiva sorte, osservando scrupolosamente la promessa che ci scambiammo sull’altare.
In passato ci sono state tante gioie: agiatezza economica, figli, nipoti, la salute, ma poi su di noi ha imperversato un destino avverso fatto di malattie e di traversie giudiziarie. Ma il nostro amore non ha conosciuto crisi: ieri presentazioni di libri a Montecitorio, la partecipazione attiva nel bel mondo della società e della cultura, oggi una ben diversa realtà.
Ma Elvira non mi ha mai lasciato, né in sala di rianimazione, né oggi, che, ingiustamente condannato, sono costretto come un leone in gabbia, a trascorrere il resto dei miei giorni nel buio di una cella.
Grazie all’amore e grazie ad Elvira.
Achille
mercoledì 16 novembre 2011
Gli scacchi tra fumetti e letteratura
Il gioco degli scacchi ha sempre ispirato, sin dai tempi più antichi gli artisti, a partire da oltre 1000 anni prima della nascita di Cristo, come testimoniano la camera mortuaria di Nefertari o gli scacchi eburnei conservati nel museo diocesano di Salerno.
In epoca più recente la letteratura e soprattutto il fumetto si sono ripetutamente interessati all’argomento, a partire dalle strisce più celebri come Topolino o Diabolik, Dylandog o Batman.
Ho avuto la fortuna di poter conoscere un appassionato collezionista: Rocco Rex, il quale, nell’arco degli anni, ha raccolto centinaia di pezzi, alcuni molto rari e li ha messi a disposizione della biblioteca (02) del circolo di cui è presidente, riscuotendo grande interesse tra i soci.
La rivista più antica, di oltre 60 anni, è un fotoromanzo del 1951, nel quale un’affascinante Elisabetta Drago interpreta un’eroina di altri tempi, tra intrighi e passioni culminati in una implacabile sfida da scacco matto, per un totale di trenta puntate (03 – 04).
Sfogliando le pagine consunte di questo antico giornale, principalmente per chi, pur senza avere capelli bianchi, ha tanti anni sul groppone, come il sottoscritto, si rimane colpiti dal candore di questa forma narrativa, che ha entusiasmato per decenni generazioni di adolescenti con storie pulite, costantemente a lieto fine, in grado di far volare a briglia sciolta la fantasia, per le sterminate praterie del sogno e dell’immaginazione.
Mi ha colpito molto la reclame di un concorso di bellezza dell’epoca (05), il culmine dell’ambizione per le ragazze, ma anche per i giovanotti vanesi dell’epoca, che invitava a partecipare spedendo una o più foto, nelle quali era vietato rigorosamente il bikini, sconosciuto allora in Italia e che timidamente faceva la sua comparsa nelle peccaminose spiagge di Saint Tropez.
In particolare la Disney è ritornata più volte sull’argomento dedicando la copertina al gioco (06), allegando un corso di scacchi molto utile per esordienti ed in seguito un numero speciale (07), dedicato al grande Karpov con un nuovo corso per i più piccini.
Tra gli altri divi del fumetto segnaliamo un rarissimo Batman (08) del 1944 alle prese col matto, un Diabolik (09) impegnato sulla scacchiera e un Dylandog (010) che gioca a tutto campo sulle 64 caselle, oltre a due pregiate riviste d’oltre oceano, una del 1958 (011) e l’altra (012) del 1973.
Anche la disinibita Valentina, la flessuosa creatura di Crepax dalle curve irresistibili e dagli anfratti misteriosi, si è entusiasmata del nobile gioco ed in più di un episodio le sue grazie erano in palio tra due sfidanti all’ultima mossa (013 – 014).
Passando alla letteratura cominciamo da alcuni gialli (015 – 016) della mitica casa editrice Urania, che non tutti ricorderanno, con storie avvincenti fino all’ultima pagina, interpretate da personaggi storici famosi, da Napoleone a Fidel Castro, in lotta spasmodica contro marziani ed astronauti sull’infinito territorio di una scacchiera, continuiamo con una copertina angosciante (017) con pezzi e pedine dalle fauci poco raccomandabili, con un testo della Prisma (018), che ci rammenta che il gioco è stato il trastullo prediletto di nobili e borghesi per oltre 30 secoli ed infine il romanzo di un valente giocatore ancora in attività: la variante di Luneburg (019) di Paolo Maurensig.
E vorrei concludere questa breve carrellata proponendo alcuni pezzi della mia personale collezione, da una copia anastatica (020) di un prezioso manoscritto per Luigi di Savoia del 1500, il cui originale è gelosamente conservato nella biblioteca di Parigi, ad alcuni manifesti di propaganda stampati rispettivamente per il concorso ippico romano del 1952 (021), per le Balcaniadi del 1946 (022) e per le Olimpiadi di scacchi di Dubrovnik del 1950 (023).
Colgo l’occasione infine per invitare i lettori a visionare sul web la mia opera sugli Scacchi nell’arte, una carrellata di tremila anni con sessanta immagini sul re dei giochi o il gioco dei Re.
http://www.guidecampania.com/dellaragione/articolo47/articolo.htm
lunedì 14 novembre 2011
Una battaglia di civiltà
Attorno al "Pianeta carcere " da sempre vige un silenzio assordante dei mass media e delle istituzioni. Inoltre, ed è l'aspetto più triste della vicenda, da parte dell'opinione pubblica vi è non solo disinteresse, ma la volontà pervicace di non interessarsi, di non sporcarsi le mani ed il cervello al contatto di problematiche che riguardano chi ha sbagliato ed ha contratto un debito verso la società. In tal modo si commette il grave errore di dimenticare una drammatica verità, costituita dal fatto che i 2/3 dei detenuti sono in attesa di giudizio - per cui, secondo la nostra Costituzione, innocenti - e, di questi, oltre il 60% sarà assolto alla fine del giudizio, naturalmente dopo essere stati annientati e con loro, i loro familiari.
Ho toccato con mano questa invincibile riluttanza, ricevendo da parte di numerosi amici e conoscenti un rifiuto perentorio all'invito a partecipare, anche se solo come ascoltatori, a questo convegno.
La vita dei carcerati è una realtà scottante, ma alla pari dell'eutanasia, dell'omosessualità, della follia, della droga, dell'aborto non interessa, in maniera trasversale, l'intera classe politica, perché non solo non procura voti, bensì fa perdere consensi non appena si accenna all'argomento.
Il livello di civiltà e di democrazia di un Paese si valuta a seconda del modo in cui vengono trattati i più deboli e non esiste categoria più abbandonata e negletta della popolazione carceraria, privata non solo del bene più prezioso per un individuo: la libertà, ma costretta, per il disumano sovraffollamento delle nostre infernali "caienne", a subire una infinità di pene accessorie più varie, dalle violenze sessuali alla sporcizia obbligatoria, stipati come bestie in gabbia, fino a limiti allucinanti di 16 persone in una cella di 4 metri per 4, più una squallida ed angusta latrina per i bisogni corporali, per lavarsi e per lavare le stoviglie dopo i pasti.
Napoli, come sempre, quando si tratta di record negativi è in testa alla classifica con il sovraffollamento da quarto mondo dei suoi penitenziari, al cui confronto i gironi infernali danteschi impallidiscono miseramente.
Il carcere di Poggioreale, come riferito ufficialmente all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2002 , può contenere al massimo 1276 detenuti, ma ne ha avuti in media 2199. Nel 2003, pur rimanendo invariata la capienza, abbiamo appreso che si è raggiunto il record di 2386 detenuti. Eureka!!
In queste disperate condizioni,prive di qualsiasi dignità, naturalmente qualsiasi tentativo di recupero è mera utopia:diritto allo studio, al lavoro, ad un minimo spazio vitale rappresentano chimere irraggiungibili.
E così ogni giorno si calpesta e si ignora sfacciatamente il terzo comma dell'articolo 27 della nostra Costituzione, il quale recita solennemente:
"... le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".
Inoltre, alle disperate condizioni di vita nei penitenziari si associano ulteriori disfunzioni, quali la esasperante lentezza con cui i giudici di sorveglianza esaminano le posizioni dei detenuti, che avrebbero diritto ad uscire dal carcere ed usufruire del regime di semilibertà.
Anche tutti gli altri istituti di pena campani soffrono di condizioni di sovraffollamento più o meno gravi e di condizioni di vivibilità ai limiti dell'incubo.
Un discorso a parte merita il famigerato "41bis", un regime di ulteriore grave restrizione delle libertà personali in aggiunta a tutte le limitazioni della carcerazione. Una normativa ignota negli altri Stati europei, che, applicata con severità, può sconfinare in un trattamento che nel diritto internazionale ha un nome ben preciso : tortura, anche se solo psicologica.
Alla fine di questo angoscioso tunnel non si riesce ad intravedere che una luce fioca, la cui esiguità sembrerebbe togliere ogni speranza ai detenuti ed ogni desiderio di proseguire la lotta ai pochi uomini di buona volontà, che da tempo combattono, ad armi impari, contro inique ingiustizie.
Una sola proposta che possa suonare da minaccia: cosa aspettiamo a portare lo Stato italiano davanti alle Corti di giustizia internazionali!?
Il tramonto del denaro
l’automazione, i computer, i robot quanto prima libereranno l’umanità dal fardello del lavoro ed anche il denaro, ad esso collegato, andrà in soffitta dopo millenni di baratti e secoli di moneta.
Sarà la più rivoluzionaria delle rivoluzioni alla quale non siamo assolutamente preparati, affezionati come siamo a quei simpatici pezzi di carta, sporchi e stropicciati che sono i soldi.
Li desideriamo ardentemente, li conserviamo come reliquie nel portafoglio, per averli facciamo qualsiasi cosa, anche lavorare come matti per tutta la vita, per averne di più siamo disposti a tradire un amico, a scavalcare un debole, ad ingannare un avversario.
Crediamo ciecamente che con il loro possesso si possa comperare tutto ciò che si desidera: oltre a vestiti, auto, cibo ed oggetti lussuosi anche il favore degli altri, l’onestà delle donne, la giustizia degli uomini, la coscienza del prossimo.
Se non ne abbiamo la gente ci guarda con insofferenza e con disprezzo, mentre se mostriamo di averne tanto tutti si dimostrano amici.
Dimentichiamo che il denaro non ci permette di acquistare né la salute, né l’amore, né la vera amicizia e neppure la serenità. Con il loro possesso ci procuriamo soltanto l’invidia della gente, l’unica cosa di cui faremmo volentieri a meno.
ELOGIO DEL POMODORO: L’ULTIMO LIBRO DI PIETRO CITATI
Quando l’anno scorso Pietro Citati licenziò alle stampe il suo monumentale saggio su Leopardi ebbi modo di chiedergli a cosa stesse lavorando.
“Ad 80 anni non vi possono essere grandi progetti” fu la sua laconica risposta. Invece a pochi mesi di distanza ecco un suo nuovo libro dal nome originale: “Elogio del pomodoro”, una raccolta di meditazioni sul declino dell’Europa e sul disastro dell’Italia, sulla morte di Dio e sulla crisi del Cristianesimo fino al devastante fenomeno della globalizzazione.
Tanti piccoli capitoletti densi di significato morale, resi con una prosa fluida e con una cura del dettato sconosciuta a gran parte dei nostri pseudoscrittori e che fa di Citati un punto imprenscindibile per le nuove generazioni.Non sono tutti scritti inediti, alcuni sono già stati pubblicati sulle pagine culturali dei principali quotidiani o sono ripresi da quel magistrale capolavoro che é “l’armonia perduta”, un libro che ho letto almeno 3-4 volte e che consiglio a tutti di leggere.
Ma le inedite riflessioni sui temi più svariati sono molteplici e vanno prima lette e poi a lungo meditate. Il capitolo che l’autore ha scelto come titolo del libro sembra banale, ma la descrizione di quel sublime ortaggio, ormai standardizzato nella forma e privo di sapore, rappresenta per Citati il rimpianto per la lontana giovinezza, quando condito con olio e sale, esso costituiva il Principe della tavola, sia del ricco che del povero, in tutta l’area mediterannea.
Erano pomodori veraci, con profonde screziature ed audaci spaccature, che sembravano partorire dal pennello di un pittore napoletano del secolo d’oro.
Citati dedica una particolare attenzione al declino dell’Europa ed alla disperata ricerca di spiritualità del mondo contemporaneo. La malattia dei nostri giorni é la depressione, uno stato dell’anima che in passato si chiamava Melanconia, costituendo per 24 secoli il più grandioso mito che abbia elaborato la civiltà occidentale. Il medico moderno la descrive con le stesse parole adoperate in passato dai poeti e dagli artisti.
Sul consumismo, Citati é particolarmente severo e recita una filippica memorabile, auspicando un ritorno alla virtù della civiltà contadina: la parsimonia, spinta fino all’avarizia. E sperando che ciminiere ed automobili finiscano di inquinare l’aria che respiriamo, ma sopratutto che dovranno respirare i nostri discendenti, non gli interessa se conosceremo la decadenza, se saremo più poveri e consumeremo di meno. La nostra civiltà continuerà ad esistere fino a quando coltiveremo la cultura e sapremo accogliere, come facciamo da 24 secoli con ogni forza della fantasia tutte le tradizioni, tutti i miti, tutte le religioni e tutti gli esseri umani in fuga dalla povertà e dalla fame. La disperata ricerca di spiritualità del mondo contemporaneo é scandagliata con lucida razionalità ed a chi si lamenta per la morte di Dio Citati replica perentoriamente che mai, nella storia del Cristianesimo é stato attivo un nucleo così puro ed entusiasta come ai nostri giorni. Toccante il capitolo dedicato ai mendicanti: gli ultimi tra gli ultimi, una categoria sempre esistita e che la crescente crisi economica fa crescere a dismisura e confessa di praticarla assiduamente senza preoccuparsi dello sguardo sprezzante della signora snob in visone, nonostante il termometro segni 25 gradi.
Potremmo continuare a lungo, ma non vogliamo togliere al lettore il piacere della scoperta.
Un libro istruttivo da tenere a lungo sul comodino. Buona lettura
domenica 13 novembre 2011
Ragionevoli proposte per svuotare i penitenziari
Si parla tanto di amnistia ed indulto, alimentando inutili speranze tra i 70000 detenuti, stipati come bestie nelle carceri, dimenticando il delicato momento politico con un governo che vive alla giornata, per cui è pura utopia sperare che si possa raggiungere in Parlamento la maggioranza qualificata necessaria a varare un provvedimento di clemenza.
Si potrebbero invece svuotare rapidamente i penitenziari attraverso una legge ordinaria, che preveda il rispetto di leggi già esistenti, inapplicate per il congestionamento degli uffici dei giudici di sorveglianza, costretti, nonostante il loro lodevole impegno, ad esaminare con attese estenuanti migliaia di istanze.
Le ragionevoli proposte che mi sentirei di avanzare al legislatore sono:
1) Il diritto automatico ai domiciliari per chi deve scontare meno di un anno.
2) L’avviamento obbligatorio ai servizi sociali per tutti coloro che devono scontare gli ultimi tre anni di reclusione.
3) L’utilizzo della carcerazione preventiva solo in casi eccezionali, facendo tesoro del braccialetto elettronico in uso in tutti i paesi civili e non dimenticando che secondo la Costituzione si tratta di innocenti.
4) La possibilità di scontare la pena ai domiciliari per tutti i malati passibili di peggioramento in regime di reclusione e per chi ha compiuto 65 anni.
5) Trasferire in strutture attrezzate i tossicodipendenti per un più efficace programma di recupero, favorendo un futuro inserimento nella società.
Vade retro ciccia
L'obesità, con il corteo di patologie accessorie, dal diabete all'arteriosclerosi, dall'ipertensione all'infarto, ha assunto da tempo in Occidente la forma di una vera e propria pandemia. Il problema, prima ancora che medico, ha assunto oramai una valenza etica e politica, tenendo conto che miliardi di uomini devono fare i conti con la fame e la carestia. All'origine della pinguedine vi sono antiche credenze religiose e momenti storici, come il Rinascimento, quando le donne opulente erano le piu' ambite, come ci tramandano tanti artisti da Giorgione a Tiziano.
Anche l'uomo primitivo era attirato dalla donna formosa, perchè é impresso nel nostro DNA e nel nostro inconscio la convinzione che parto ed allattamento saranno avvantagiati. Nello stesso tempo, nel Cristianesimo celebri eremiti praticavano il digiuno per avvicinarsi a Dio ed i mussulmani osservano da sempre il Ramadan. Anche letteratura e teatro, oltre alla pittura, hanno coniato prototipi debordanti: dal pancione di Falstaff ai grassoni di Dickens, oltre alla bonaria stazza di Babbo Natale o al ventre prominente di Buddha.
Oggi l'obeso comincia a rendersi conto anche moralmente di essere in colpa con se stesso e con la società. Mentre i governi si sono accorti degli enormi costi sanitari rappresentati da tanto lardo in giro. Bisognerà cominciare a vietare la pubblicità di alimenti ipercalorici ed a prescrivere dalle scolastiche diete rigorosamente bilanciate nelle calorie.
La medicina é in ritardo, perchè la cause dell'obesità continuano a sfuggirci, di recente una ricerca australiana ha evidenziato due ormoni: Leptina e Grelina, responsabili dei chili di troppo. Speriamo che venga ideato un antidoto, ma in attesa di farmaci miracolosi, bisogna fare perno sulla volontà ed il sacrificio.
Per chi saprà praticare queste virtu' i risultati saranno esaltanti e duraturi.
L’Amore, il motore che muove il mondo
Bruno Vespa dopo il successo dei suoi libri ambientati nel mondo della politica, fa un’incursione sul tema dell’amore, il sentimento misterioso che muove il mondo.
Anche Attali, il celebre economista francese, l’anno scorso aveva scritto del Matrimonio e dell’Amore. Sono argomenti di scottante attualità, né più, né meno della globalizzazione e della crisi economica.
Nel suo volume il celebre giornalista traccia un singolare dell’animo degli Italiani dai quindici ai novant’anni.Dalle precocissime esperienze sessuali delle ragazze, che gettano la verginità al primo arrivato, al ruolo di dominatrice svolto dalle donne, agli amori delle star dello spettacolo e dei politici con un capitolo dedicato al priapeo Berlusconi, senza però trascurare l’amore verso Dio, quello che provano tanti religiosi, che rinunciano ai piaceri della carne per immolarsi completamente al bene del prossimo.
Si rimane sorpresi ascoltando le storie delle giovanissime, come Giuditta, 15 anni, che ha già baciato centinaia di uomini ed ha avuto il primo rapporto completo con uno sconosciuto.Si parla anche del Viagra, ma senza passione né desiderio, il pur potente farmaco è un’arma spuntata.
Mi sia consentito concludere questa breve digressione con una convinzione personale: l’amore esiste, è tra le meraviglie del creato, il più bel dono che Dio ha fatto all’uomo. Esso può sfidare la caducità della materia e durare in eterno.
Dovete credermi, posso giurarvelo.
sabato 12 novembre 2011
DIO NON ABITA PIU’ QUI
Da troppi anni a Napoli sono gli omicidi a scandire ritmicamente il calendario, mentre tutto il territorio sfugge completamente al controllo dello Stato, che da tempo ha abdicato alle sue funzioni, vicariato dalla delinquenza organizzata, che detta legge oramai in ogni faccenda pubblica e privata. Il Comune e la Regione sono entità astratte prive di ogni potere. L’assoluta incertezza del diritto fa sì che gran parte dei malavitosi siano certi di farla franca e di dover rispondere al massimo ai rimorsi della propria coscienza, un tribunale, almeno da Dostoevskij in poi, di tutto rispetto, ma purtroppo, non ancora parificato agli ordinamenti di una moderna Repubblica. I giovani fuggono in massa verso un destino meno amaro, una diaspora di dimensioni bibliche che preclude ogni speranza di miglioramento futuro; restano soltanto i vecchi borghesi, pensionati e piccoli commercianti che oramai si sono arresi.
Leopardi che pure l’amava la definì “terra di lazzaroni e di pulcinella” e tanti altri insigni personaggi, da Campanella alla Serao, condivisero pareri negativi, senza parlare dei tanti viaggiatori stranieri, in visita a Napoli, quando la capitale era una delle mete obbligate del Gran Tour. Si giunse così al laconico giudizio di “ un paradiso abitato da diavoli”, coniato quando la camorra non era ancora divenuta una delle organizzazioni criminali più feroci della Terra.
Eppure nonostante questa antica maledizione gravi come un macigno, non esiste città dove disorganizzazione e gioia di vivere convivano con maggiore armonia. Ed è questa la colla che tiene ancora uniti tutti coloro che amano svisceratamente il loro luogo natio, la loro patria e soffrano una struggente malinconia quando sono costretti a cercare altrove pane e tranquillità.
E’ probabile che la nostra città rappresenti un laboratorio dove affrontare una serie di tematiche che da noi hanno da tempo raggiunto e superato il livello di guardia, ma che interessano tutti gli Italiani: traffico, disoccupazione, delinquenza organizzata, smaltimento dei rifiuti, abusivismo, ecc.
I Napoletani sono gente antica, che non ha reciso le radici col passato e che ha rifiutato vigorosamente le suadenti sirene della modernità. Rappresentiamo una delle ultime tribù della terra in lotta contro la globalizzazione.
Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo ancora distinguere tra il clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed il frangersi del mare sulla scogliera sottostante.
Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e la forza dei Napoletani, gelosi del loro passato ed arbitri del loro futuro, costretti a vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente.
Una mostra su Ribera al museo di Capodimonte
Indagati gli anni giovanili del pittore valenzano
Mentre Napoli sprofonda sempre più nel degrado, la locale sovrintendenza non smette di stupirci e pur tra mille difficoltà logistiche e finanziarie riesce ad organizzare splendide mostre come quella su Ribera, che si inaugura il 22 settembre nelle sale del museo di Capodimonte, dove sarà visibile fino all’8 gennaio.
L’esposizione, curata da Nicola Spinosa, si preannuncia come una delle più interessanti della stagione e si pone principalmente lo scopo di investigare gli anni giovanili del grande pittore valenzano. Essa è una versione ampliata di quella già organizzata sullo stesso tema al Prado da Josè Milicua e Javier Portus. Saranno visibili infatti 45 dipinti, 13 in più della rassegna spagnola.
Nel 1616 giunge a Napoli Jusepe Ribera che rappresenterà una delle figure più importanti del Seicento europeo; valenzano di nascita, ma napoletano a tutti gli effetti per scelta culturale, interessi familiari, affinità di sentimenti. A Napoli avrà residenza, affetti, lavoro, protezione e per alcuni anni sarà protagonista assoluto e punto di riferimento indiscusso.
La sua bottega che forgerà alcuni dei maggiori pittori del secolo dal Maestro degli Annunci ai due Fracanzano, dal Falcone a Salvator Rosa, allo stesso Giordano, sarà un punto di riferimento e di scambio culturale anche verso la Spagna, ove giungerà gran parte della sua produzione, mentre dal Murillo allo Zurbaran, fino allo stesso Velazquez, ospite del Ribera per alcuni mesi nel 1630, perverrà a Napoli l’eco della migliore pittura spagnola, il cui influsso possiamo cogliere agevolmente da un’attenta lettura di molte opere del Finoglia, del Falcone, del Vaccaro, del Guarino e di tanti altri ancora.
Le sue opere ebbero una notevole diffusione anche per la sua abilità di incisore, grazie alla quale egli riproduceva e moltiplicava le sue opere più significative.
Poco sappiamo della sua giovinezza, la tradizione gli assegna come maestro il Ribalta, dal 1611 al 1616 è a Roma, dove con i caravaggisti stranieri, legati da un realismo descrittivo dagli effetti caricati, ci sarà uno scambio fecondo di idee e di esperienze.
Di recente, grazie al reperimento di alcuni documenti, il periodo di permanenza nella città eterna è divenuto più ampio e di conseguenza maggiori le opere da ricercare; è stata proposta dal Papi una diversa ricostruzione della sua produzione romana con lo spostamento nel suo catalogo dei dipinti precedentemente assegnati al Maestro del Giudizio di Salomone, ipotesi che per il momento non ha convinto gran parte degli studiosi, anche se lo stesso Spinosa, massimo studioso dell’artista, la ha parzialmente accolta. Certamente però da respingere la pretesa di attribuire al Ribera la Negazione di Pietro(01) della sacrestia della Certosa di San Martino che è opera di un ignoto caravaggista nordico attivo intorno al 1620.
La mostra certamente permetterà di approfondire maggiormente la questione, che presenta ancora contorni poco definiti.
Al periodo romano intorno al 1614 – 15 è da collocare la serie di dipinti personificanti i cinque sensi, nota inizialmente da copie seicentesche e per il racconto delle fonti (Mancini) ed in seguito identificata in tele certe del Ribera: dal Gusto(02) di Hartford al Tatto(03) di Los Angeles, dalla Vista(04) di Città del Messico all’Olfatto(05) di una collezione madrilena. A quegli anni appartiene anche, per evidenti affinità stilistiche, lo splendido Democrito(06) presso Pietro Corsini a New York.
Giunto nel maggio del 1616 a Napoli egli sposerà la figlia del pittore Giovan Bernardo Azzolino ed entrerà nelle grazie del viceré, il duca di Osuna, che diventerà il suo protettore, come lo saranno in seguito tutti i potenti di Spagna, presso i quali il suo prestigio sarà illimitato. Egli del luminismo diede una sua personale interpretazione: il realismo caravaggesco fu infatti profondamente drammatico e sintetico, quello di Ribera fu analitico, caricaturale fino al grottesco.
Il Ribera si abbandona ad un verismo esasperato al di là di ogni limite convenzionale col suo pennello intriso di una densa materia cromatica, con un vigore di impasto che ricorda l’accesa policromia delle più crude immagini sacre della pittura spagnola coeva, segno indefettibile della sua mai tradita hispanidad, ignara dei risultati della pittura rinascimentale italiana. Ed ecco rappresentato un infinito campionario di umanità disperata e dolente, ripresa dalla realtà dei vicoli bui della Napoli vicereale con un’aspra e compiaciuta ostentazione del dato naturale.
La sua pittura è carica di materia da poter essere paragonata ad un bassorilievo cromatico, in grado di trasformare il potente chiaroscuro caravaggesco in un’esperienza percettiva tattile. I bagliori della sua tavolozza fanno risaltare la ruvida pelle dei suoi martiri ed in egual misura lo splendore cangiante delle vesti, che a partire dagli anni Trenta segnano il recupero della lezione coloristica della pittura veneta.
Con una tavolozza accesa vengono rappresentati con enfasi appassionata e senza alcuna pietà santi ed eremiti penitenti, sadicamente indagati nella smagrita decadenza dei corpi consunti, dalla epidermide incartapecorita e grinzosa, dagli occhi lucidi e brillanti, martirii efferati e spettacolari, giganti contorti in esasperazioni anatomiche, repellenti esempi di curiosità naturali: donne barbute e bambini storpi dal sorriso ebete; tipizzazioni mitologiche spinte fino all’osceno, come la ripugnante figura del Sileno nella dilagante rotondità dell’enorme ventre pendulo; il tutto con un tono superbo e crudele e con accenti di grottesca ironia e di cupa drammaticità.
Lentamente la brutalità delle sue prime composizioni che fece esclamare al Byron che il Ribera”imbeveva il suo pennello con il sangue di tutti i santi” cedette ad una maggiore ricerca di introspezione psicologica dei personaggi e ad un lento allontanamento dal tenebrismo per approdare, sotto l’influsso della grande pittura veneziana e dal contatto con la pittura fiamminga di radice rubensiana e vandychiana, a nuove soluzioni di “chiarezza pittorica e di rinnovata cordialità espressiva che culmineranno nello splendido Matrimonio di Santa Caterina (012)del Metropolitan di New York “sintesi superba di naturalismo, classicismo e pittoricismo in una sublime armonia di luci e colori” (Spinosa).
“A dispetto della sua reputazione ottocentesca di crudo alfiere di un realismo sadico, Ribera fu anche - in certi momenti soprattutto – classico, dando ai racconti del mito la sensualità dionisiaca del Sileno ebbro(013), la crudeltà del Supplizio di Marsia(014), la compunta triste elegia della favola di Venere e Adone(015). Ma sempre con una capacità unica di rendere tutto palpabile, presente, in grado di magnetizzare la retina dello spettatore”(Lattuada).
Dopo il 1640 una grave malattia limitò di molto la sua attività, anche se la collaborazione di una bottega molto valida gli permise di immettere sul mercato ancora molte opere, spesso da lui firmate anche se eseguite solo in parte.
Anche nella piena maturità Ribera non rinuncia a certi effetti ottenibili solo attraverso contrasti di luce ed ombra e con la grande Comunione degli apostoli(016) completata nel 1651 per i monaci della Certosa di San Martino egli ci regala la sua ultima opera, che esprime la summa del suo stile, perché ad una visione naturalista del volto degli apostoli si accoppia una solenne scenografia di puro stampo veronesiano.
La bottega del valenzano assunse a Napoli un’importanza fondamentale e fu un polo di riferimento culturale per un’intera generazione di pittori, alcuni direttamente suoi allievi, altri come il Giordano, che si formò giovanissimo sui suoi esempi, esercitandosi nell’imitazione a tal punto da sconfinare nel plagio. Il messaggio riberesco si irradiò non solo a Napoli ed in Italia ma in tutta Europa, principalmente in Spagna e fu rappresentato da una pittura che, nata sotto l’influsso del luminismo caravaggesco, seppe cogliere e tradusse in immagini la realtà più intima degli uomini e volle parlare più al cuore che alla mente.
01 Negazione di Pietro
L’esposizione, curata da Nicola Spinosa, si preannuncia come una delle più interessanti della stagione e si pone principalmente lo scopo di investigare gli anni giovanili del grande pittore valenzano. Essa è una versione ampliata di quella già organizzata sullo stesso tema al Prado da Josè Milicua e Javier Portus. Saranno visibili infatti 45 dipinti, 13 in più della rassegna spagnola.
Nel 1616 giunge a Napoli Jusepe Ribera che rappresenterà una delle figure più importanti del Seicento europeo; valenzano di nascita, ma napoletano a tutti gli effetti per scelta culturale, interessi familiari, affinità di sentimenti. A Napoli avrà residenza, affetti, lavoro, protezione e per alcuni anni sarà protagonista assoluto e punto di riferimento indiscusso.
La sua bottega che forgerà alcuni dei maggiori pittori del secolo dal Maestro degli Annunci ai due Fracanzano, dal Falcone a Salvator Rosa, allo stesso Giordano, sarà un punto di riferimento e di scambio culturale anche verso la Spagna, ove giungerà gran parte della sua produzione, mentre dal Murillo allo Zurbaran, fino allo stesso Velazquez, ospite del Ribera per alcuni mesi nel 1630, perverrà a Napoli l’eco della migliore pittura spagnola, il cui influsso possiamo cogliere agevolmente da un’attenta lettura di molte opere del Finoglia, del Falcone, del Vaccaro, del Guarino e di tanti altri ancora.
Le sue opere ebbero una notevole diffusione anche per la sua abilità di incisore, grazie alla quale egli riproduceva e moltiplicava le sue opere più significative.
Poco sappiamo della sua giovinezza, la tradizione gli assegna come maestro il Ribalta, dal 1611 al 1616 è a Roma, dove con i caravaggisti stranieri, legati da un realismo descrittivo dagli effetti caricati, ci sarà uno scambio fecondo di idee e di esperienze.
Di recente, grazie al reperimento di alcuni documenti, il periodo di permanenza nella città eterna è divenuto più ampio e di conseguenza maggiori le opere da ricercare; è stata proposta dal Papi una diversa ricostruzione della sua produzione romana con lo spostamento nel suo catalogo dei dipinti precedentemente assegnati al Maestro del Giudizio di Salomone, ipotesi che per il momento non ha convinto gran parte degli studiosi, anche se lo stesso Spinosa, massimo studioso dell’artista, la ha parzialmente accolta. Certamente però da respingere la pretesa di attribuire al Ribera la Negazione di Pietro(01) della sacrestia della Certosa di San Martino che è opera di un ignoto caravaggista nordico attivo intorno al 1620.
Al periodo romano intorno al 1614 – 15 è da collocare la serie di dipinti personificanti i cinque sensi, nota inizialmente da copie seicentesche e per il racconto delle fonti (Mancini) ed in seguito identificata in tele certe del Ribera: dal Gusto(02) di Hartford al Tatto(03) di Los Angeles, dalla Vista(04) di Città del Messico all’Olfatto(05) di una collezione madrilena. A quegli anni appartiene anche, per evidenti affinità stilistiche, lo splendido Democrito(06) presso Pietro Corsini a New York.
02 gusto
03 tatto
04 vista
05 olfatto
06 Democrito
Negli ultimi anni Papi e parte della critica hanno fatto il nome di Ribera nei suoi anni giovanili come autore di tele in precedenza diversamente attribuite. Tra queste segnaliamo: il San Paolo(07) ed il San Bartolomeo(08) della Fondazione Longhi di Firenze, il San Gerolamo(09) delle Gallerie Trafalgar di Londra, il Mendicante(010) della Galleria Borghese di Roma, l’Udito(011) in una collezione privata che andrebbe a chiudere la serie dei Cinque sensi già Cussida e la Negazione di Pietro della Galleria Corsini.07 San Paolo
08 San Bartolomeo
09 San Gerolamo
10 mendicante
11 l'udito
Il Ribera si abbandona ad un verismo esasperato al di là di ogni limite convenzionale col suo pennello intriso di una densa materia cromatica, con un vigore di impasto che ricorda l’accesa policromia delle più crude immagini sacre della pittura spagnola coeva, segno indefettibile della sua mai tradita hispanidad, ignara dei risultati della pittura rinascimentale italiana. Ed ecco rappresentato un infinito campionario di umanità disperata e dolente, ripresa dalla realtà dei vicoli bui della Napoli vicereale con un’aspra e compiaciuta ostentazione del dato naturale.
La sua pittura è carica di materia da poter essere paragonata ad un bassorilievo cromatico, in grado di trasformare il potente chiaroscuro caravaggesco in un’esperienza percettiva tattile. I bagliori della sua tavolozza fanno risaltare la ruvida pelle dei suoi martiri ed in egual misura lo splendore cangiante delle vesti, che a partire dagli anni Trenta segnano il recupero della lezione coloristica della pittura veneta.
Con una tavolozza accesa vengono rappresentati con enfasi appassionata e senza alcuna pietà santi ed eremiti penitenti, sadicamente indagati nella smagrita decadenza dei corpi consunti, dalla epidermide incartapecorita e grinzosa, dagli occhi lucidi e brillanti, martirii efferati e spettacolari, giganti contorti in esasperazioni anatomiche, repellenti esempi di curiosità naturali: donne barbute e bambini storpi dal sorriso ebete; tipizzazioni mitologiche spinte fino all’osceno, come la ripugnante figura del Sileno nella dilagante rotondità dell’enorme ventre pendulo; il tutto con un tono superbo e crudele e con accenti di grottesca ironia e di cupa drammaticità.
Lentamente la brutalità delle sue prime composizioni che fece esclamare al Byron che il Ribera”imbeveva il suo pennello con il sangue di tutti i santi” cedette ad una maggiore ricerca di introspezione psicologica dei personaggi e ad un lento allontanamento dal tenebrismo per approdare, sotto l’influsso della grande pittura veneziana e dal contatto con la pittura fiamminga di radice rubensiana e vandychiana, a nuove soluzioni di “chiarezza pittorica e di rinnovata cordialità espressiva che culmineranno nello splendido Matrimonio di Santa Caterina (012)del Metropolitan di New York “sintesi superba di naturalismo, classicismo e pittoricismo in una sublime armonia di luci e colori” (Spinosa).
12 Matrimonio di Santa Caterina
“A dispetto della sua reputazione ottocentesca di crudo alfiere di un realismo sadico, Ribera fu anche - in certi momenti soprattutto – classico, dando ai racconti del mito la sensualità dionisiaca del Sileno ebbro(013), la crudeltà del Supplizio di Marsia(014), la compunta triste elegia della favola di Venere e Adone(015). Ma sempre con una capacità unica di rendere tutto palpabile, presente, in grado di magnetizzare la retina dello spettatore”(Lattuada).
13 Sileno ebbro
14 Supplizio di Marsia
15 Venere e Adone
Anche nella piena maturità Ribera non rinuncia a certi effetti ottenibili solo attraverso contrasti di luce ed ombra e con la grande Comunione degli apostoli(016) completata nel 1651 per i monaci della Certosa di San Martino egli ci regala la sua ultima opera, che esprime la summa del suo stile, perché ad una visione naturalista del volto degli apostoli si accoppia una solenne scenografia di puro stampo veronesiano.
16 Comunione degli apostoli
La bottega del valenzano assunse a Napoli un’importanza fondamentale e fu un polo di riferimento culturale per un’intera generazione di pittori, alcuni direttamente suoi allievi, altri come il Giordano, che si formò giovanissimo sui suoi esempi, esercitandosi nell’imitazione a tal punto da sconfinare nel plagio. Il messaggio riberesco si irradiò non solo a Napoli ed in Italia ma in tutta Europa, principalmente in Spagna e fu rappresentato da una pittura che, nata sotto l’influsso del luminismo caravaggesco, seppe cogliere e tradusse in immagini la realtà più intima degli uomini e volle parlare più al cuore che alla mente.
L’ALTISONANTE URLO DI SGARBI
Per chi ha assistito alle composte trasmissioni di Tribuna politica, con un conduttore serafico, un gruppo di giornalisti competenti ed il politico di turno, che dando del lei all’interlocutore, rispondeva puntualmente senza subire alcuna interruzione, passare all’ascolto delle baraonde televisive, nelle quali, decine di personaggi cercano disperatamente di sovrapporsi all’avversario politico, unicamente sul piano sonoro, senza alcuna preoccupazione per la logica o per la verità, rappresenta un trauma difficile da superare ed induce a cambiare rapidamente canale alla ricerca di un programma diverso, di qualunque genere, purché non si parli di politica in maniera così sguaiata ed inconcludente. Numerosi sono gli alfieri di queste scriteriate trasmissioni, uomini e donne senza differenza, dalla focosa Mussolini, al puntiglioso Ghedini, dalla Turco, in grado delle affermazioni più risibili senza arrossire, al rissoso Bondi, dallo sguardo truce e vendicativo, dall’ineffabile Capezzone all’inviperita Santanchè, dal vanesio Franceschini alla virginale Bindi, ma tutti sono nel loro diapason iperbolico figli dell’urlo di Sgarbi, una meteora acustica entrata da tempo immemore nella classicità catodica, più dell’urlo di Munch, che impallidisce sbiadito al confronto o di quello animalesco di Tarzan, impersonato dal possente Weismuller, un vagito neonatale rispetto al clangore assordante dell’ineffabile Vittorio.
Sgarbi è un raffinato critico d’arte (posso confermarlo personalmente conoscendolo dai tempi in cui era alla corte di Federico Zeri), ma quando entra in contradditorio con chicchessia fa affidamento, non più sulla forza delle idee, ma unicamente sulla perentorietà vocale, più metallica che umana, della sua voce altisonante, superiore ai do di petto di Mussolini ed agli acuti di Pavarotti, certo che nessuno possa passare indenne attraverso un così abile uso del suono, capace non solo di far tremare un lampadario o rompere un delicato bicchiere di cristallo, ma soprattutto di far arrendere l’interlocutore dopo avergli perforato il timpano.
UNA BIOGRAFIA SU MARCO PANNELLA L’ULTIMO DEI POLITICI VERACI
Ricevere una mail da Pannella per un vecchio radicale non è una sorpresa, Marco possiede uno sterminato indirizzario ed è stato il primo politico a convertirsi al web, la sorpresa è stata accorgersi che non si tratta del solito invito ad un congresso o ad una riunione, bensì dell’annuncio dell’uscita della sua biografia, un’impresa nella quale aveva tentato di impegnarsi lo stesso Umberto Eco, ma senza successo. Finalmente il grande vecchio ha deciso di raccontarsi attraverso una lunga intervista concessa a Stefano Rolando, una carrellata di oltre cinquanta anni di vita politica italiana, che ha visto il prode Marco, non certo tra i protagonisti, ma sicuramente tra i comprimari nobili di quella squallida combriccola che ha dominato la scena tra prima e seconda repubblica. Il ritratto che ne viene fuori ci configura le tante anime pannelliane: evangelica, anarchica, gandiana, liberale, agnostica; il tutto tra non violenza, uomini sandwich ed infiniti digiuni, una specialità del Nostro, inventore dell’anoressia ingrassante, infatti mentre il mahatma, dopo poche astensioni dal cibo divenne evanescente se non etereo, Marco, complici pizze e cappuccini assunti di nascosto, dopo il millesimo digiuno aveva raggiunto e sorpassato i 140 kilogrammi.
Le duecento pagine del libro sono piene di aneddoti ed incontri con personalità non solo del mondo della politica, una compagnia, a volte pericolosa, che ha fatto corona per decenni al suo piccolo quanto incontrastato regno, sul quale voleva e vuole essere un astro senza satelliti, infatti ogni qual volta, uno dei suoi pupilli, da Rutelli a Capezzone, tentava di assumere una sua veste automa, lui lo estrometteva da ogni carica. Un’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle, quando candidato nel 2001 per il Senato e risultato primo, non entrando a Palazzo Madama unicamente perché la lista non raggiunse il quorum, l’anno successivo alle europee, dove avevo serie chances di successo, non venni nemmeno messo in lista, per non intralciare un suo protetto.
Il partito è stato solo e soltanto Pannella (unica lodevole eccezione Emma Bonino) nel bene e nel male, e tramonterà con lui.
Il racconto si ferma alle soglie della sua camera da letto, per un inutile pudore, perché Marco non ha mai nascosto le sue preferenze a 360°, che includevano tutti i generi, anche se negli ultimi tempi pareva assiduo di una piacente ginecologa romana. Egli non ha fatto mai mistero di questa apertura di veduta, una lezione coraggiosa per questi nostri tempi ipocriti e corrotti. Vi è poi una parte dedicata a pensieri esoterici, per non dire gigantesche corbellerie, come quando afferma di credere alla compresenza dei vivi e dei morti o quando tenta di richiamarsi alle leggi dell’astrofisica per spiegare i concetti di armonia e rottura.
Un libro che forse vuole rappresentare una sorta di testamento spirituale, ma chi lo conosce bene, sa che dopo la prima e la seconda repubblica egli anela a divenire un attore, anche se nel ruolo di comparsa, pure della terza.
CHI OGGI PUO’ DIRSI UN INTELLETTUALE ?
Dopo aver tenuto una conferenza presso l’Istituto di cultura italiano di Parigi su Caravaggio ed i suoi seguaci a Napoli, la parola passa al pubblico per le domande, ma il primo quesito da parte di una giornalista francese è un po’ fuori tema: ” Secondo lei chi oggi può dirsi un intellettuale?”.
Sorpreso dall’argomento, per prendere tempo, affermo che risponderò volentieri al quesito dopo almeno una domanda sull’argomento trattato. Dopo aver chiarito alcuni aspetti della pittura di Battistello e di Sellitto, non vi è che ritornare sul tema dell’intellettuale, sul quale premetto che la definizione che proporrò è del tutto personale.
Di rincalzo la giornalista mi prega anche di fare il nome di 10 intellettuali italiani.
Ne citerò allora 11 e di ognuno il perché, alla fine sarà così facile estrapolare le caratteristiche patognomoniche che contraddistinguono l’intellettuale ideale.
Partirei da Umberto Eco il quale è, a mio parere, il prototipo dell’intellettuale moderno: profondo conoscitore della propria materia, abile divulgatore, esperto di tematiche di interesse generale e, nel caso specifico, eccellente conferenziere.
Anche un altro Umberto famoso può considerarsi a tutti gli effetti un intellettuale; intendiamo riferirci a Veronesi, chirurgo, oncologo di fama mondiale, aperto ai problemi che arrovellano l’uomo moderno dall’aborto alla clonazione, da tempo impegnato nel campo della prevenzione dei tumori e della medicina sociale.
Vittorio Sgarbi
Pier Giorgio Odifreddi
Eduardo Boncinelli
Sergio Romano
Giuliano Ferrara
Eugenio Scalfari
Giulio Tremonti
Ed infine per obbligo patriottico due napoletani: Giuseppe Galasso, indefesso studioso, strenuo difensore della verità storica, sempre pronto sulle principali testate a diffondere le sue profonde conoscenze ad un vasto pubblico e Gerardo Marotta, che ha lasciato la sua professione di avvocato ed ha profuso il suo cospicuo patrimonio familiare per fondare l’Istituto per gli studi filosofici, un faro di cultura di caratura internazionale in un mondo dominato dal disinteresse e dall’ignoranza.
Qualcuno potrà notare che da questo elenco mancano i filosofi, che dovrebbero costituire il prototipo dell’intellettuale, ma tra gli italiani non ne ho trovato uno di rilievo che potesse dirsi libero da legami politici, una condizione per me indispensabile per fregiarsi del titolo, per cui ne cito alcuni solo per onore di cronaca: Massimo Cacciari, Marcello Veneziani e Paolo Flores d’Arcais.
In questo elenco allargato di nomi non vi sono donne, perché ritengo che nessuna sia degna di essere considerata un’intellettuale, ma eccezionalmente, per non scontentare il mio pubblico, costituito in gran parte da appartenenti al gentil sesso, citerò Margherita Hack e Dacia Maraini, la prima per essere una delle poche scienziate italiane di fama internazionale, ma soprattutto per essere da sempre in prima fila nella divulgazione scientifica e per la ricerca di risposte a domande frequenti tra la gente comune sul nostro destino e sulla nostra condizione nei riguardi dell’immensità dell’universo; la seconda per il suo costante impegno sulla stampa a trattare con garbata ironia le più disparate questioni di interesse umano, che tutti noi siamo costretti ad affrontare in questi anni difficili.
“Potrebbe farci il nome di qualche intellettuale non italiano?”, incalza la giornalista.
Tra gli stranieri Tahar Ben Jellun, Jeremy Rifkin e sarei tentato di includere anche papa Benedetto XVI.
Il primo, scrittore francofono di ampie vedute, per avere sempre nei suoi libri tenuto ben presente il problema della coesistenza di popoli e culture diverse, uno degli imperativi categorici più impellenti della modernità, il secondo per essersi interessato con grande vigore morale ed estrema competenza di una serie di problematiche di vitale importanza per il nostro futuro, dalle energie alternative alla fine del lavoro, riuscendo sempre ad avere un uditorio ampio, internazionale ed estremamente qualificato.
Riguardo al pontefice, nessuno può discutere la sua sterminata erudizione ed estrema saggezza, che ne fa uno dei punti di riferimento più certi non solo per i credenti, ma per tutti gli uomini di buona volontà, come dimostrano le sue encicliche, che parlano di argomenti di scottante attualità per i quali propone ragionevoli soluzioni.
Nel passato l’intellettuale, si identificava spesso con il potere o era al suo servizio, la conoscenza in un mondo di ignoranti era un passaporto decisivo per occupare una posizione di rilievo nella società, dallo stregone in una tribù al consigliere del principe o dell’imperatore.
Anche nel secolo scorso il ruolo dell’intellettuale era frequentemente contiguo alle stanze del potere o ad un credo politico; emblematico in Italia il caso dell’intellettuale definito organico, per intendere un personaggio legato, per non dire docilmente asservito, ai diktat del partito comunista.
Oggi dall’intellettuale ci aspettiamo un’indipendenza di giudizio, che dia alle sue affermazioni pubbliche la necessaria autorità morale.
Possiamo inoltre delineare le altre caratteristiche: erudizione nella propria materia, apertura ai problemi della società, disponibilità ad usare i mass media per trasmettere idee e pensieri, estraneità nei riguardi dei partiti, preoccupazione per il futuro dell’umanità.
REGOLIAMO LA CACCIA, UN’ANACRONISTICA VERGOGNA
In questi giorni al Senato si discute di abolire i periodi in cui la caccia è permessa, in tal modo si potrà sparare qualsiasi preda dal 1 gennaio al 31 dicembre, con esiti naturalmente devastanti sul pochi animali che ancora sopravvivono sul nostro territorio. Periodicamente monta la polemica sulla caccia e sempre più persone ne chiedono l’abolizione; anni fa la questione fu persino oggetto di un referendum, che però non raggiunse il quorum, ma questa volta i giornali non si sono interessati minimamente della vicenda, perché in Italia esistono più di due milioni di cacciatori, i quali mettono in moto un mercato multimilionario. L’economia di intere città, ad esempio Brescia, è legata alla vendita delle armi, delle cartucce, delle divise, una massa di denaro e di posti di lavoro che sarebbero in pericolo se fossero vietate le attività venatorie.
I cacciatori esercitano per puro diletto quella che fu un’inderogabile necessità per i nostri progenitori: procacciarsi il cibo, ma uccidere a freddo senza motivo è semplicemente vergognoso. L’aspetto più sconcertante, e da abolire quanto prima, è la possibilità per i cacciatori, sancita dall’articolo 842 del codice civile, di poter entrare armati nelle proprietà altrui e sparare a 150 metri dalle case, con rischi gravissimi, tenendo conto che le carabine adoperate per gli ungulati possono avere un raggio di azione di 3500 metri ed in considerazione anche dei requisiti richiesti per ottenere la licenza di uccidere, che ne permettono il rilascio anche a guerci, occhialuti e monchi con protesi. E non dimentichiamo che l’arcaico rito prevede un corteo inevitabile di grida spaventate, rantoli strazianti, sangue in abbondanza e spari assordanti, uno spettacolo indegno al quale si è costretti ad assistere in casa propria, subendo un’invasione autorizzata dalla legge di gente spesso prepotente e minacciosa.
Ci sarà qualche parlamentare coraggioso che voglia inimicarsi le lobby potentissime che si arricchiscono su questa turpe abitudine? Possiamo solo sperarlo.
IL LEONARDO, MONUMENTO ALL’INEFFICIENZA IN MOVIMENTO
Il Leonardo del quale intendiamo parlare non è il celebre scalo internazionale sul quale pure ci sarebbe tanto da recriminare, bensì più modestamente è il treno che ogni 30 minuti permette ai viaggiatori che debbano prendere un aereo di raggiungere le piste dalla stazione Termini e viceversa. Il prezzo del biglietto: 12 euro per un percorso di poche decine di chilometri farebbe ipotizzare grande confort ed elevate velocità, pagando l’utente una cifra superiore in proporzione a quanto si sborsa per accomodarsi sul Freccia Rossa, vanto delle nostre ferrovie.
Si comincia con la difficoltà ad identificare il binario di partenza, arretrato di oltre cinquecento metri rispetto alla griglia degli altri treni, con sforzi sovraumani per trasportare le valigie in una stazione dove mancano non solo i facchini, una specie estinta nonostante la straripante disoccupazione, ma anche dei modesti carrelli. Giunti finalmente alla metà, affannati ed imprecanti, si fatica a riconoscere il convoglio sul quale salire; infatti ad accogliere il malcapitato utente vi sono carrozze puteolenti, prive di settori per i bagagli e con i servizi igienici quasi sempre fuori servizio, senza parlare dei tempi di percorrenza, superiori a quelli del primo treno italiano: il Napoli Portici, che nel lontano 1839 viaggiava più veloce, grazie ai tanto bistrattati Borbone.
Un biglietto da visita per il turista deplorevole che richiede al più presto un intervento per dare dignità ad un servizio indispensabile, che fa attualmente di Roma nel campo dei trasporti una città del quarto mondo.
IL BAROCCO TRA APOLOGETI E DENIGRATORI Il sogno inesausto di un cromatismo straripante
Il Barocco ha rappresentato il linguaggio della Controriforma trionfante in pittura, scultura ed architettura, dopo un periodo segnato dalla severità e dal grigio rigore tridentino. La Chiesa vuole celebrare la propria gloria e la potenza della fede, uscita vittoriosa dal confronto con i protestanti. Vi fu un’ansia quasi smodata di celebrare il rinnovato potere. La nuova corrente nasce a Roma intorno al 1630 con artisti del calibro di Bernini, di Borromini e di Pietro da Cortona e da lì si irradierà in gran parte dell’Europa cattolica.
In Italia conobbe momenti di debordante felicità cromatica a Napoli grazie a Mattia Preti, convertitosi al nuovo verbo dopo una prima adesione alla lezione caravaggesca, a Luca Giordano ed al Solimena, fino al De Mura attivo a metà del Settecento e toccò anche Lecce e la Sicilia. La versione genovese ha l’uomo di punta in Gregorio de Ferrari, un pennello di gusto già rocaille ed a Venezia fu un’ondata che si fermò solo nel secolo successivo con Piazzetta e Tiepolo.
All’estero dalla Spagna il movimento si diffuse a macchia d’olio in America meridionale sulla scia dei Gesuiti, fu molto vivo nella Germania meridionale ed in Austria, territori riconquistati alla religione cattolica e toccò il vertice in Belgio con il Rubens e con la ritrattistica aulica del Van Dyck. Non ebbe fortuna in Francia dove a lungo vi fu una polemica tra poussinisti e rubensisti e dove dettava legge una cultura ufficiale di stampo classicistico.
Esso rappresentò la fine per consunzione dell’arte rinascimentale: Raffaello, Michelangelo e gli altri giganti dei secoli d’oro avevano toccato la perfezione e non vi erano più traguardi da raggiungere. Il Barocco nasce da questa esigenza di nuovo, oltre che dal desiderio della Chiesa di esaltare i suoi trionfi. Essa diventa per molti anni l’unica committente, in mancanza di un ceto borghese con un gusto laico, come invece era la regola per i paesi protestanti dove gli artisti non erano costretti a lavorare per un mecenate assecondandone le richieste, ma potevano lavorare per una clientela anonima di mercanti, imprenditori, professionisti, artigiani ricchi. Nelle opulente case del nord non vi è spazio alcuno per l’apologia né per il compiacimento delle virtù, mentre paesaggi, nature morte, meticolose indagini anatomiche e scene della vita di ogni giorno del villaggio sono molto diffuse.
In precedenza nel Quattrocento e nel Cinquecento la Chiesa non aveva goduto di una preminenza da monopolio, per la presenza di potenti mecenati laici. Un artista licenziato dal papa o da un cardinale avrebbe trovato subito sistemazione presso un Medici o un Gonzaga, se non alla corte di un doge, inoltre l’umanesimo aveva permeato anche i religiosi, che tolleravano quei pittori che plasmavano le loro madonne con una sensualità più carnale che celeste.
L’arte sacra era anche profana e perciò riuscì a raggiungere i livelli più alti.
Dopo il Concilio di Trento questa tolleranza viene meno e vengono fissati dei canoni severi ai quali bisogna sottomettersi, pena l’intervento dei gendarmi spagnoli, braccio armato di una Chiesa che esercitava una rigida censura sulla libertà di pensiero e di espressione. Non vi era altra scelta che enfasi e declamazione, solennità ampollosa e glorificazione di santi e madonne.
Tutta l’arte viene costretta ad esprimersi entro binari ben determinati e l’unica evasione per l’artista risiede nel poter sfogare senza limiti la sua fantasia coloristica e la bizzarria decorativa fino alla pura farneticazione. Grande maestria, ma anche tanto mestiere, nel creare quell’orgia di forme e quel diluvio cromatico, quella teatralità di sfondi, quei contorsionismi muscolari esagitati nella scultura, quella falsa solennità scenografica nell’architettura.
Il trionfo del Barocco si raggiunge quando si può dare libero corso alle ragioni del cuore più che della mente, dare ascolto alle voci varie e mutevoli dell’universo traducendole in fantasie ed emozioni variopinte. In questo abbandono dei sensi il sogno di levità, di delizia e di rapita eleganza del secolo si esprime in una radiosa tastiera cromatica, in grado di sciogliere la forma in luce, radiosa e vibrante , mentre la materia si scorpora e si smaterializza come un tenero miele di sole che scorre dappertutto e tutto intride con la sua dolcezza.
Nell’Ottocento il Barocco, oramai soppiantato da altre mode ed espressioni artistiche, fu condannato in un clima di rigore neoclassico e fu definito come strampalattezza e cattivo gusto. Anche Croce condannò il movimento, ma il suo giudizio era riferito alla letteratura del tempo ed a certi aspetti del costume seicentesco, anche se poi il suo parere è stato erroneamente esteso anche alle arti figurative.
Vi furono come in ogni tempo buoni e cattivi artisti, i primi agitati da un pathos interno che domina gli spazi, flette le superfici architettoniche, agita i marmi, imprime la vita al bronzo e fa turbinare con eguale energia glorie celesti ed allegorie profane, mentre i meno ispirati, appesantiscono con pesante orpello le superfici sfacciatamente dorate in una volgare combinazione di forme grevi e di colori stridenti.
Queste brevi considerazioni sul Barocco hanno costituito il nucleo principale di una lezione da me tenuta, su invito del professor Loire, davanti ad un pubblico giovane ed entusiasta, costituito da appassionati e non da specialisti, al College de France, una celebre e preziosa istituzione, che autorizza i relatori ad affrontare i temi assegnati con una certa libertà e di questa possibilità dobbiamo essere grati in egual misura a Guillaume Budé e a Francesco I.
IL COMPITO DELL’EUROPA: FAVORIRE L’INTEGRAZIONE
Nel suo ultimo libro, Bauman, celebre per le sue ipotesi rivoluzionarie e per aver coniato il termine di società liquida, assegna all’Europa un compito gravoso: quello di correggere il progresso e la sua spirale di consumismo esasperato, con bisogni che tendono a dilatarsi all’infinito, fino all’imminente esaurimento delle risorse planetarie. Il nostro deleterio modello di sviluppo senza limiti prevede, come corollario indispensabile, il degrado intollerabile del tenore di vita di miliardi di uomini e l’irreversibile apocalisse ambientale. Anche le forze di sinistra più oneste, prive di idee e di programmi, si limitano a mitizzare l’aumento della produzione come panacea di tutti i mali. Purtroppo tra i pochi intellettuali rimasti, spenti i grandi ideali del secolo passato, si avverte oramai la sensazione di essere giunti al fine corsa. L’Europa è in grado di adempiere a questa missione impossibile nello stato di apparente decadenza che da tempo sembra averla colpita e che si può riscontrare nei troppi corpi debordanti ed in tante menti svogliate?
Il vecchio continente da tempo ha abdicato al suo ruolo di guida del mondo, dopo aver dominato la scena per secoli, grazie alla sua straordinaria forza creatrice che negli ultimi due secoli ha prodotto ingegni mirabili da Proust ad Einstein, da Baudelaire a Picasso, da Freud a Marx, da Yeats a Monet, ma anche grandi massacratori come Napoleone, Hitler, Stalin. La vocazione dell’Europa è stata sempre quella di accogliere e di trasformare, una prodigiosa capacità di amalgamare dei e miti provenienti da lontano ed oggi vi è un disperato bisogno di questo dono di metamorfosi. Il brulicante mondo povero preme ai nostri confini e reclama almeno le briciole della nostra opulenza. I giovani indiani e cinesi studiano più dei nostri figli ed il futuro dell’umanità è nelle loro mani.
Bisogna però domare i veleni devastanti annidati nel fanatismo religioso, che agita milioni di uomini in marcia, esaltando nello stesso tempo le energie più vitali che sgorgano copiose dall’intreccio libero e fantasioso del meticciato genetico e culturale. Nessuno come gli europei ha viaggiato, ha conosciuto, ha posseduto il mondo con inesauribile vitalità, fin da quando le navi greche portavano la civiltà su tutte le coste del Mediterraneo ed Ulisse placava la sua sete di conoscenza oltre le colonne di Ercole. Ora non sentiamo più l’obbligo di dominare la storia, di vincere, di conquistare, di colonizzare, percepiamo la presenza intorno a noi di popoli proiettati verso il futuro dell’umanità, ma possiamo concedere loro di abbeverarsi alla nostra cultura ed alla nostra saggezza.
Sappiamo discernere le civiltà più lontane da noi ed i sussulti magmatici di uomini in marcia verso una nuova civiltà, dobbiamo sforzarci di comprendere le loro ansie e le loro aspirazioni, dobbiamo favorire la creazione di uno spazio dove possano convivere pacificamente tutte le idee e le passioni che si sono affacciate sulla scena dall’inizio del mondo. Bisognerà sfruttare ancora la nostra intelligenza e la nostra fantasia, la nostra intuizione e la nostra immaginazione, questa è la missione che attende l’Europa e che tutti noi dobbiamo affrontare con volontà e determinazione.
Possiamo essere certi: l’Europa sarà all’altezza delle sue migliori tradizioni ed ognuno di noi può divenire un umile quanto indispensabile soldato in questa pacifica battaglia