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giovedì 16 febbraio 2017

Esemplari di natura morta napoletana in posa

Fig.1 - Giacomo Recco - Vaso di fiori

La pittura di genere, il paesaggio e, in particolare, la “Natura morta” ebbero a Napoli, nel Seicento, grande sviluppo. Tema privilegiato dell’indagine naturalistica di pittori fiamminghi e caravaggeschi, la natura morta subì, nella pittura napoletana, una sorta di trasposizione in chiave barocca, con graduale passaggio dall’effetto di ammirazione per la fedeltà oggettiva della rappresentazione a quello di stupore e meraviglia per la fantasia dell’invenzione compositiva.

 
Fig.2 - Giacomo Recco - Vaso di fiori
Giacomo Recco, (Napoli 1603 - prima del 1653) considerato dalla critica tra gli iniziatori della natura morta nella nostra città, ci è noto, più che per le sue opere, attraverso numerosi documenti d’archivio, che ci hanno permesso di puntualizzare i suoi dati biografici.
Citato da don Camillo Tutini tra i fondatori del genere a Napoli, viene poi ricordato in un manoscritto compilato tra il 1670 ed il ’75, reperito dal Ceci, come «pittore di fiori, frutti, pesci ed altro». Il De Dominici lo segnala come padre di Giuseppe. Il Prota Giurleo reperisce il contratto di matrimonio del 1627, da cui ricava la data di nascita ed il contratto di discepolato del 1632, con il quale viene messo a bottega presso Giacomo il quindicenne Paolo Porpora. Ed infine il Delfino ha pubblicato un documento del 1630, nel quale il Nostro entra in società con uno sconosciuto pittore, tale Antonio Cimino, con l’intento di esercitare la compravendita di dipinti e di eseguire «qualsivoglia quadri, et figure di qualsivoglia sorta ... ad oglio come a fresco».
Pur in assenza di tele certe e documentate, sulla base di queste poche notizie e di considerazioni di carattere stilistico, la critica ha ricostruito un catalogo dell’artista a partire da un «Vaso di fiori» in collezione Rivet a Parigi, su cui si legge la data 1626 e da una coppia di vasi di fiori in collezione Romano, di cui uno siglato «G.R.», di impostazione arcaica, tale da non generare dubbi con la sigla di Giuseppe Recco.
Negli ultimi anni, ad ulteriore conferma della confusione che regna sovrana in campo attribuzionistico, sono passati in asta numerose opere assegnate più o meno forzatamente a Giacomo Recco, che è così divenuto, da pittore senza quadri, artista di riferimento di una folla di anonimi autori di dipinti di fiori i più varii, nel cui ambìto contenitore di fiorante entrano ed escono le tele più disparate.
Le opere raggruppate sotto il nome di Giacomo Recco, pur nell’ipotesi che la critica cambi completamente le sue valutazioni da un momento all’altro, presentano una serie di caratteri distintivi molto particolari, che sono espressione di una personalità artistica ancora attirata dal repertorio cinquecentesco ricco di fregi e di decorazioni, poco o nulla toccata dai risultati delle indagini luministiche e nello stesso tempo fortemente influenzata dalla leziosità ed artificiosità dei fioranti fiamminghi.
Il vaso assurge a punto focale della composizione e, riccamente decorato, ha pari dignità con i fiori, disposti sempre simmetricamente ed illuminati in maniera innaturale, pur se definiti minuziosamente nella loro verità ottica, tanto da sfidare la precisione scientifica di uno Jacopo Ligozzi.
Delle caratteristiche che riscontriamo nei due pendant (fig.1-2) della collezione in esame, attribuiti a Giacomo da Ferdinando Bologna
La fama di Giacomo Recco è legata alla sua abilità di fiorante, quasi uno specialista nella specialità, e aumentò con ogni probabilità contemporaneamente a quella di Mario Nuzzi detto Mario dei fiori, a lungo erroneamente ritenuto regnicolo, il cui nome crebbe nei secoli, mentre il prestigio di Giacomo in poco tempo svanì quasi nel nulla, per riemergere faticosamente dopo oltre 300 anni di oblìo.
I tantissimi inventarî di collezioni napoletane raramente descrivono opere di Recco senior, quello del Vandeneynden riporta un suo quadro di frutti di mare e pesci. Altri documenti ricordano stranamente, uccellami e frutta, pesci ed una figura rappresentante la pietà, mai un vaso con dei fiori.

Fig.3 - Elena Recco - Trionfo marino

La nipote di Giacomo Elena Recco (attiva tra la fine del XVII secolo e l’inizio del successivo) predilesse del padre Giuseppe l’iconografia marina, dove riuscì a raggiungere esiti più che cospicui. Ella si recò in Spagna con il genitore nel 1695 e lì si trattenne per qualche tempo, lavorando per la corte, dove negli inventarî risultano alcune tele di soggetto floreale al momento non rintracciate.
Le uniche sue opere certe sono due composizioni di pesci, una delle quali firmata, conservate nel castello di Donaveschingen, illustrate dal Di Carpegna.
La critica ha affiancato a queste due tele un gruppo di altri dipinti conservati nel museo di Varsavia, nel museo Puskin a Mosca e nella City Art Gallery di Leeds.Di recente in aste nazionali ed internazionali sono passate composizioni marine assegnate ad Elena Recco ed alcune di queste posseggono i caratteri distintivi per una attribuzione certa.
Una particolare tinta rosata delle squame unita ad una sprizzante vitalità delle prede appena pescate che brillano lucentezza e trasudano l’umido del mare sono i caratteri patognomonici della pittrice, che nelle tele veramente sue ben si è meritata il successo e la considerazione che godette tra i suoi contemporanei.
Purtroppo sul mercato circolano tele di modesta qualità che di Elena Recco hanno soltanto il nome imposto da antiquarî desiderosi di etichettare sempre e comunque qualsiasi opera.
Per identificare le tele di Elena, spesso fatte passare da antiquari spericolati per opere di Giuseppe, le quali godono di una maggiore quotazione, esiste un segreto: bisogna attentamente osservare le squame dei pesci, caratterizzate costantemente da una tonalità virante dal rosa al rosato, come possiamo constatare nella tela in esame (fig.3) un vero e proprio trionfo marino nel quale distinguiamo triglie, razze, un polipo, posti su un piano di pietra, opera certa di Elena Recco, che eredita dal padre la rara capacità di fissare sulla tela il delicato momento del trapasso tra la vita e la morte e si fa riconoscere dagli intenditori per il tenue colorito rosato con cui definisce le squame dei pesci. La presente attribuzione si basa su confronti stilistici con altre opere di Elena Recco, a partire dal dipinto firmato raffigurante un trionfo di pescato al castello di Donaveschingen in Germania, da cui sembra ripresa per analogo taglio compositivo, seppure in formato ridotto, la razza nel dipinto in esame. I riflessi argentei e grigio azzurri alternati alla particolare tinta rosata delle squame dei pesci e alla guizzante torsione dei loro corpi sono tutti aspetti che denunciano la mano abile dell’artista, che sa restituire la freschezza e l’abbondanza dei doni del mare.

Fig.4 - Ruoppolo G.B. - Grappoli d'uva e frutta

Giovan Battista Ruoppolo, (Napoli 1629 – 1693), è assieme al coetaneo Giuseppe Recco una delle figure chiave della natura morta napoletana della seconda metà del Seicento con doti di colorista spinte fino al lirismo più acceso, egli sa infondere alle sue creazioni una luce con accenti di tale energia da trasfondere nelle sue vegetazioni uno splendido canto e ad imporre alle sue cascate di frutta un ritmo ed un fremito di vita.
Il percorso artistico del Ruoppolo, scandito da poche firme e ancor meno date, prende il via poco dopo il 1650 e si svolge senza sosta per oltre un quarantennio. Egli è ai suoi inizi un rigoroso naturalista, che ha studiato il suo luminismo violento d’ombre e vivissimo sui testi sacri di Battistello e di Stanzione.
La sua prima opera documentata, firmata «G.B. Ruoppolo», è Sedani e boules de neige, conservata allo Ashmolean Museum di Oxford.
Intorno a questo fondamentale dipinto la critica ha raggruppato numerose tele improntate da spiccati interessi naturalistici.
Nel settimo decennio gli interessi iconografici del Ruoppolo virano verso tematiche portate al successo da Giuseppe Recco, poi si converte al trionfante gusto barocco,
di Abraham Brueghel, discendente della gloriosa famiglia di generisti fiamminghi e portatore di un nuovo verbo superficiale ed incline al facile decorativismo.
Sono gli anni del Ruoppolo più noto al grande pubblico, l’artista idolatrato dal De Dominici che lo eleva ad indiscusso caposcuola, da cui prenderanno ispirazione i suoi numerosi seguaci ed i tanti imitatori.
Giovan Battista comincia la serie dei trionfi vegetali e marini, delle cascate di fiori e di frutta, in cui i colori assurgono ad una dimensione trionfante e la luce viene a dilatarsi sulle superfici ancora indagate con antico scrupolo naturalista.
Il rigoglio espositivo raggiunge il culmine nei meloni, spesso presenti nelle sue tele, nelle tipiche superfici rugose, o nei grandi cocomeri, tipici delle fertili pianure campane, variopinti e ben torniti nei loro volumi con la consueta perizia plastico luministica.
Tutti i suoi ultimi dipinti sono immersi in un’atmosfera «dorata che assorbe i volumi, si aggruma sulle superfici e le impreziosisce: i pampini si ravvolgono frenetici sui tronchi delle querce, esplodono ceppaie di funghi, chicchi, nervature, foglie, viticci, si fanno perle, rugiada, umori occidui, rubini la polpa rossa del cocomero tagliato; i più agevoli, i più facilmente immaginabili  tra i possibili traslati analogici e metaforici» (Causa).
Il nostro, Grappoli d’uva e frutta (fig.4) fa parte di un tema che a partire dal 1675 ebbe grande successo nella natura morta napoletana, quello dei grandi trionfi vegetali di fiori e di frutta, delle spettacolari cascate di grappoli d’uva: nera, bianca e cornicella. Queste composizioni di uva, sembrano cantate a pieni polmoni da un novello Bacco, innamorato del loro succo dolce ed acre.
L’allegra composizione di un vivace cromatismo è resa con l’antica predilezione del maestro verso la resa naturalistica, che fa apparire estremamente realistica la frutta rappresentata, tanto da indurre l’estasiato osservatore a pregustarne il sapore.
Queste opere fastose e ridondanti, questi trionfi orgiastici e prorompenti, sospesi in una luce purissima, sono il canto del cigno per Ruoppolo, al quale si associa con flebile suono una folla di comprimari, di seguaci, di imitatori che solo da poco la critica ha imparato a riconoscere ed ai quali ha destinato un suo spazio nel gran libro ideale del genere della natura morta nel secolo d’oro della pittura napoletana.

Fig.5 - Lopez - Trionfo floreale
La natura morta settecentesca è degnamente rappresentata da un Trionfo floreale in un vaso a grottesche (fig.5) di Gaspare Lopez, un allievo del Belvedere, trasferitosi poi al nord tra Firenze e Venezia, dove fu artefice di una pittura ornamentale, segnata costantemente da un brillante cromatismo.
Nella tela, già presso l’antiquario Parenza a Roma, si osserva “la tipica modalità del pittore nel disporre i fiori in sintonia col gusto rococò dominante a Napoli nei primi decenni del secolo” come sottolinea il mio amico Sgarbi. Una caratteristica che possiamo riscontrare in altre tele del Lopez, come nel Fiori, anguria e maioliche del museo Filangieri di Napoli e nel Vaso di fiori entro un paesaggio di collezione privata modenese, caratterizzato da “una vivissima accensione cromatica che riscatta il taglio compositivo piuttosto convenzionale” (Middione), ma soprattutto in una coppia (tav.66-67) di identiche dimensioni, presso l’antiquario Tornabuoni di Firenze, nella quale oltre al giardino, compaiono alcuni oggetti sovrapponibili come lo splendido piatto decorato. “Si tratta di esempi di straordinaria freschezza di quel gusto pastorale e boschereccio, amante della vita in villa e di una natura addomesticata e graziosa così caratteristica del Settecento” (Berti).

Achille della Ragione

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