Giacomo
Recco, (Napoli 1603 - prima del 1653) considerato dalla critica tra gli
iniziatori della natura morta nella nostra città, ci è noto, più che per
le sue opere, attraverso numerosi documenti d’archivio, che ci hanno
permesso di puntualizzare i suoi dati biografici.
Citato da don
Camillo Tutini tra i fondatori del genere a Napoli, viene poi ricordato
in un manoscritto compilato tra il 1670 ed il ’75, reperito dal Ceci,
come «pittore di fiori, frutti, pesci ed altro». Il De Dominici lo
segnala come padre di Giuseppe. Il Prota Giurleo reperisce il contratto
di matrimonio del 1627, da cui ricava la data di nascita ed il contratto
di discepolato del 1632, con il quale viene messo a bottega presso
Giacomo il quindicenne Paolo Porpora. Ed infine il Delfino ha pubblicato
un documento del 1630, nel quale il Nostro entra in società con uno
sconosciuto pittore, tale Antonio Cimino, con l’intento di esercitare la
compravendita di dipinti e di eseguire «qualsivoglia quadri, et figure
di qualsivoglia sorta ... ad oglio come a fresco».
Pur in assenza
di tele certe e documentate, sulla base di queste poche notizie e di
considerazioni di carattere stilistico, la critica ha ricostruito un
catalogo dell’artista a partire da un «Vaso di fiori» in collezione
Rivet a Parigi, su cui si legge la data 1626 e da una coppia di vasi di
fiori in collezione Romano, di cui uno siglato «G.R.», di impostazione
arcaica, tale da non generare dubbi con la sigla di Giuseppe Recco.
Negli
ultimi anni, ad ulteriore conferma della confusione che regna sovrana
in campo attribuzionistico, sono passati in asta numerose opere
assegnate più o meno forzatamente a Giacomo Recco, che è così divenuto,
da pittore senza quadri, artista di riferimento di una folla di anonimi
autori di dipinti di fiori i più varii, nel cui ambìto contenitore di
fiorante entrano ed escono le tele più disparate.
Le opere
raggruppate sotto il nome di Giacomo Recco, pur nell’ipotesi che la
critica cambi completamente le sue valutazioni da un momento all’altro,
presentano una serie di caratteri distintivi molto particolari, che sono
espressione di una personalità artistica ancora attirata dal repertorio
cinquecentesco ricco di fregi e di decorazioni, poco o nulla toccata
dai risultati delle indagini luministiche e nello stesso tempo
fortemente influenzata dalla leziosità ed artificiosità dei fioranti
fiamminghi.
Il vaso assurge a punto focale della composizione e,
riccamente decorato, ha pari dignità con i fiori, disposti sempre
simmetricamente ed illuminati in maniera innaturale, pur se definiti
minuziosamente nella loro verità ottica, tanto da sfidare la precisione
scientifica di uno Jacopo Ligozzi.
Delle caratteristiche che
riscontriamo nei due pendant (fig.1-2) della collezione in esame,
attribuiti a Giacomo da Ferdinando Bologna
La fama di Giacomo
Recco è legata alla sua abilità di fiorante, quasi uno specialista nella
specialità, e aumentò con ogni probabilità contemporaneamente a quella
di Mario Nuzzi detto Mario dei fiori, a lungo erroneamente ritenuto
regnicolo, il cui nome crebbe nei secoli, mentre il prestigio di Giacomo
in poco tempo svanì quasi nel nulla, per riemergere faticosamente dopo
oltre 300 anni di oblìo.
I tantissimi inventarî di collezioni
napoletane raramente descrivono opere di Recco senior, quello del
Vandeneynden riporta un suo quadro di frutti di mare e pesci. Altri
documenti ricordano stranamente, uccellami e frutta, pesci ed una figura
rappresentante la pietà, mai un vaso con dei fiori.
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Fig.3 - Elena Recco - Trionfo marino |
La nipote di
Giacomo
Elena Recco (attiva tra la fine del XVII secolo e l’inizio del
successivo) predilesse del padre Giuseppe l’iconografia marina, dove
riuscì a raggiungere esiti più che cospicui. Ella si recò in Spagna con
il genitore nel 1695 e lì si trattenne per qualche tempo, lavorando per
la corte, dove negli inventarî risultano alcune tele di soggetto
floreale al momento non rintracciate.
Le uniche sue opere certe
sono due composizioni di pesci, una delle quali firmata, conservate nel
castello di Donaveschingen, illustrate dal Di Carpegna.
La
critica ha affiancato a queste due tele un gruppo di altri dipinti
conservati nel museo di Varsavia, nel museo Puskin a Mosca e nella City
Art Gallery di Leeds.Di recente in aste nazionali ed internazionali sono
passate composizioni marine assegnate ad Elena Recco ed alcune di
queste posseggono i caratteri distintivi per una attribuzione certa.
Una
particolare tinta rosata delle squame unita ad una sprizzante vitalità
delle prede appena pescate che brillano lucentezza e trasudano l’umido
del mare sono i caratteri patognomonici della pittrice, che nelle tele
veramente sue ben si è meritata il successo e la considerazione che
godette tra i suoi contemporanei.
Purtroppo sul mercato circolano
tele di modesta qualità che di Elena Recco hanno soltanto il nome
imposto da antiquarî desiderosi di etichettare sempre e comunque
qualsiasi opera.
Per identificare le tele di Elena, spesso fatte
passare da antiquari spericolati per opere di Giuseppe, le quali godono
di una maggiore quotazione, esiste un segreto: bisogna attentamente
osservare le squame dei pesci, caratterizzate costantemente da una
tonalità virante dal rosa al rosato, come possiamo constatare nella tela
in esame (fig.3) un vero e proprio trionfo marino nel quale
distinguiamo triglie, razze, un polipo, posti su un piano di pietra,
opera certa di Elena Recco, che eredita dal padre la rara capacità di
fissare sulla tela il delicato momento del trapasso tra la vita e la
morte e si fa riconoscere dagli intenditori per il tenue colorito rosato
con cui definisce le squame dei pesci. La presente attribuzione si basa
su confronti stilistici con altre opere di Elena Recco, a partire dal
dipinto firmato raffigurante un trionfo di pescato al castello di
Donaveschingen in Germania, da cui sembra ripresa per analogo taglio
compositivo, seppure in formato ridotto, la razza nel dipinto in esame. I
riflessi argentei e grigio azzurri alternati alla particolare tinta
rosata delle squame dei pesci e alla guizzante torsione dei loro corpi
sono tutti aspetti che denunciano la mano abile dell’artista, che sa
restituire la freschezza e l’abbondanza dei doni del mare.
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Fig.4 - Ruoppolo G.B. - Grappoli d'uva e frutta |
Giovan
Battista Ruoppolo, (Napoli 1629 – 1693), è assieme al coetaneo Giuseppe
Recco una delle figure chiave della natura morta napoletana della
seconda metà del Seicento con doti di colorista spinte fino al lirismo
più acceso, egli sa infondere alle sue creazioni una luce con accenti di
tale energia da trasfondere nelle sue vegetazioni uno splendido canto e
ad imporre alle sue cascate di frutta un ritmo ed un fremito di vita.
Il
percorso artistico del Ruoppolo, scandito da poche firme e ancor meno
date, prende il via poco dopo il 1650 e si svolge senza sosta per oltre
un quarantennio. Egli è ai suoi inizi un rigoroso naturalista, che ha
studiato il suo luminismo violento d’ombre e vivissimo sui testi sacri
di Battistello e di Stanzione.
La sua prima opera documentata, firmata «G.B. Ruoppolo», è Sedani e boules de neige, conservata allo Ashmolean Museum di Oxford.
Intorno a questo fondamentale dipinto la critica ha raggruppato numerose tele improntate da spiccati interessi naturalistici.
Nel
settimo decennio gli interessi iconografici del Ruoppolo virano verso
tematiche portate al successo da Giuseppe Recco, poi si converte al
trionfante gusto barocco,
di Abraham Brueghel, discendente della
gloriosa famiglia di generisti fiamminghi e portatore di un nuovo verbo
superficiale ed incline al facile decorativismo.
Sono gli anni
del Ruoppolo più noto al grande pubblico, l’artista idolatrato dal De
Dominici che lo eleva ad indiscusso caposcuola, da cui prenderanno
ispirazione i suoi numerosi seguaci ed i tanti imitatori.
Giovan
Battista comincia la serie dei trionfi vegetali e marini, delle cascate
di fiori e di frutta, in cui i colori assurgono ad una dimensione
trionfante e la luce viene a dilatarsi sulle superfici ancora indagate
con antico scrupolo naturalista.
Il rigoglio espositivo raggiunge
il culmine nei meloni, spesso presenti nelle sue tele, nelle tipiche
superfici rugose, o nei grandi cocomeri, tipici delle fertili pianure
campane, variopinti e ben torniti nei loro volumi con la consueta
perizia plastico luministica.
Tutti i suoi ultimi dipinti sono
immersi in un’atmosfera «dorata che assorbe i volumi, si aggruma sulle
superfici e le impreziosisce: i pampini si ravvolgono frenetici sui
tronchi delle querce, esplodono ceppaie di funghi, chicchi, nervature,
foglie, viticci, si fanno perle, rugiada, umori occidui, rubini la polpa
rossa del cocomero tagliato; i più agevoli, i più facilmente
immaginabili tra i possibili traslati analogici e metaforici» (Causa).
Il
nostro, Grappoli d’uva e frutta (fig.4) fa parte di un tema che a
partire dal 1675 ebbe grande successo nella natura morta napoletana,
quello dei grandi trionfi vegetali di fiori e di frutta, delle
spettacolari cascate di grappoli d’uva: nera, bianca e cornicella.
Queste composizioni di uva, sembrano cantate a pieni polmoni da un
novello Bacco, innamorato del loro succo dolce ed acre.
L’allegra
composizione di un vivace cromatismo è resa con l’antica predilezione
del maestro verso la resa naturalistica, che fa apparire estremamente
realistica la frutta rappresentata, tanto da indurre l’estasiato
osservatore a pregustarne il sapore.
Queste opere fastose e
ridondanti, questi trionfi orgiastici e prorompenti, sospesi in una luce
purissima, sono il canto del cigno per Ruoppolo, al quale si associa
con flebile suono una folla di comprimari, di seguaci, di imitatori che
solo da poco la critica ha imparato a riconoscere ed ai quali ha
destinato un suo spazio nel gran libro ideale del genere della natura
morta nel secolo d’oro della pittura napoletana.
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Fig.5 - Lopez - Trionfo floreale |
La natura morta
settecentesca è degnamente rappresentata da un Trionfo floreale in un
vaso a grottesche (fig.5) di
Gaspare Lopez, un allievo del Belvedere,
trasferitosi poi al nord tra Firenze e Venezia, dove fu artefice di una
pittura ornamentale, segnata costantemente da un brillante cromatismo.
Nella
tela, già presso l’antiquario Parenza a Roma, si osserva “la tipica
modalità del pittore nel disporre i fiori in sintonia col gusto rococò
dominante a Napoli nei primi decenni del secolo” come sottolinea il mio
amico Sgarbi. Una caratteristica che possiamo riscontrare in altre tele
del Lopez, come nel Fiori, anguria e maioliche del museo Filangieri di
Napoli e nel Vaso di fiori entro un paesaggio di collezione privata
modenese, caratterizzato da “una vivissima accensione cromatica che
riscatta il taglio compositivo piuttosto convenzionale” (Middione), ma
soprattutto in una coppia (tav.66-67) di identiche dimensioni, presso
l’antiquario Tornabuoni di Firenze, nella quale oltre al giardino,
compaiono alcuni oggetti sovrapponibili come lo splendido piatto
decorato. “Si tratta di esempi di straordinaria freschezza di quel gusto
pastorale e boschereccio, amante della vita in villa e di una natura
addomesticata e graziosa così caratteristica del Settecento” (Berti).