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giovedì 6 marzo 2014

Lo splendore del Grand Tour

Goethe

Il Settecento sarebbe stato caratterizzato dall’invasione dei grandi viaggiatori europei spinti a sud di Roma dal desiderio irrefrenabile di ammirare in presa diretta le città che venivano dissepolte dalle ceneri del Vesuvio dopo secoli di oblio, come Pompei od Ercolano, ma non temevano di spingersi fino a contemplare i templi di Paestum immersi in un’atmosfera bucolica.
Si trattava di viaggiatori ricchi e colti, la crema della cultura europea e tra questi illustri personaggi come Goethe. Molti erano alla ricerca delle tracce indefinite di un lontano passato, che ammaliava lo spirito desideroso di un contatto quasi fisico col mondo classico, al quale si cercava di improntare lo stile di vita.
Numerosi tra i viaggiatori i letterati ed i pittori, che cercavano nella luce e nei panorami mozzafiato l’ispirazione artistica e lo slancio morale. Alcuni sono famosi come Voltaire, Vernet e Wright of Derby, altri meno noti. Si stabiliscono per mesi all’ombra del Vesuvio per respirarvi un’aura magica, invano cercata altrove. Tutti fissano nei loro taccuini di viaggio o sulle proprie tele scorci di paesaggio, vedute e particolari della vita degli abitanti. Coloro che non sono in grado di farlo personalmente, utilizzano l’abilità di pittori locali specializzati, i quali con pochi tratti immortalano i siti più significativi della Campania. Questi artisti adoperano spesso fogli di cartoncino al posto della tela, l’acquerello invece che l’olio. Utilizzano tonalità di immediata presa emotiva, elaborando in modo immediato e corsivo, le immagini più gettonate dai viaggiatori, ansiosi di riportare in patria, gli stupefacenti paesaggi, il mare, il sole, l’allegria della popolazione. Si percepisce la lezione del grande vedutismo partenopeo, trasformata in uno stile brillante con effetti spettacolari, soprattutto quando il protagonista assoluto è il Vesuvio con le sue fiamme implacabili che incutono rispetto e terrore.
Tra la folla anonima di una pletora di artisti artigiani spiccano alcuni nomi come quelli di Saverio della Gatta e Alessandro d’Anna, i quali non sfigurano al cospetto di colleghi più famosi quali Pietro Fabris o lo stesso Hackert, i cui dipinti facevano da modelli ed erano molto imitati.
Un genere particolare fu quello delle gouaches, che raggiunsero un livello molto alto grazie a Camillo De Vito e Gioacchino La Pira, specialista in paesaggi notturni e che ebbero successo fino alla prima metà dell’Ottocento, andando poi scemando di importanza per la pedissequa ripetizione seriale dei soggetti rappresentati.
Il mercato stimolato dal Grand Tour farà da traino anche alla feconda stagione della Scuola di Posillipo, marcata da ben più alti intenti compositivi e da una puntigliosa analisi della luce.
Ad attrarre i visitatori a Napoli, oltre ai reperti archeologici che febbrilmente venivano alla luce ad Ercolano e Pompei, furono la spettacolare seduzione dell’inquietante sfondo dei vulcani più famosi dall’antichità: il Vesuvio ed i Campi Flegrei, un mare incantato dai riflessi magici, il verde di colline di tufo giallo che scivolano verso la costa, il pittoresco intrigo di vicoli e piazzette percorsi da un’umanità rumorosa e gaudente.
Nella seconda metà dell’Ottocento per i viaggiatori del Grand Tour era d’obbligo una visita del cimitero monumentale per poter fruire di uno straordinario patrimonio di storia e arte. Una situazione oggi completamente cambiata al punto di trasformare la percezione della morte e conseguentemente il camposanto da tempio della memoria e degli affetti in luogo di dolore da visitare in fretta e da dimenticare non appena rientrati nella città dei vivi.
Napoli è una città di chiese e di scale, come annotò nel suo taccuino un anonimo vedutista ottocentesco di passaggio in città all’epoca del Grand Tour.
Controversa, come è noto, l’immagine storica del Mezzogiorno, divisa come è agli occhi di chi la visita non meno che agli occhi dei suoi stessi abitanti, tra il fascino di una terra benedetta dagli dei, l’insidia di un mondo posto al confine tra la barbarie e la civiltà. Tanto più agisce questa contraddizione se a guardare il Sud sono i sudditi di una nazione che si prepara a costruire il più imponente sistema imperiale e il più ramificato sistema di alleanze, influenze, egemonie, dell’età contemporanea. Il libro si presenta oggi alle 17,30 al rettorato dell’Orientale, Palazzo du Mesnil, in via Chiatamone.
Gli inglesi non sono più, o non sono più solo, gli emozionati viaggiatori del Grand Tour, scolari affamati di lezioni di bello. Gli eroi sono i contemporanei di Waterloo, forse vi hanno combattuto, certamente ne hanno acquisito la bellezza che deriva, dopo quella storica vittoria, di aver trionfato di un avversario della grandezza di Napoleone Bonaparte, aprendosi la via ad un dominio più che secolare sul mondo conosciuto.
Questa condizione li rende, fatalmente meno svagati: gli inglesi perdono l’innocenza di chi cerca lontano da sé le risposte che il suo contesto non può dargli. Cominciano a viaggiare con qualche verità in tasca: i loro occhi selezionano già con rapidità a volte eccessiva ciò che ha ragione di stare al di qua della barra della civiltà. Le prime tappe di questo percorso vengono segnate in quelli che, prima dell’avventura napoleonica, erano stati i luoghi preferiti di una sperimentazione dell’immaginario obbligato ora a cedere il passo alla pratica, assai più prosaica, dell’egemonia. E nel mutamento, tuttavia, si racchiude qualche interessante novità. Il nuovo sguardo dell’Inghilterra civilizzatrice e romantica al tempo stesso, quando ora si rivolge al Sud, piuttosto che alle pietre, preferisce soffermarsi sugli uomini. All’ammirazione per le rovine si accompagna, e spesso si sostituisce, la conoscenza incuriosita per gli abitanti di abbandonati villaggi delle Calabrie, per donne e uomini a cui una società ingiusta e arretrata regala condizioni di vita che l’Europa ha cominciato, sia pur lentamente, ad allontanare da sé. Il Grand Tour si fa, insomma, politico, diventa, soprattutto dopo la rivoluzione del 1820-21, l’occasione d’una denuncia civile.
E’ in questo momento che si determina peraltro quel rapporto stretto tra il giudizio del viaggiatore e quello di coloro che nel Regno di Napoli vivono per effetto della loro funzione: diplomatici di diversa formazione e ruolo, ai quali compete la responsabilità di indicare alla Corte di San Giacomo la migliore condotta da assumere nelle ricorrenti crisi attraversate dal Regno borbonico, alcune delle quali – come accade, nel 1820, appunto, come accadrà negli anni Quaranta con la «guerra degli zolfi» - minacciano persino di incidere sugli equilibri europei. 
In parte siamo di fronte alle prime avvisaglie di quello stereotipo della “palla al piede”. 
In parte forse prevalente, però, si produce il risultato di un ingresso del Mezzogiorno d’Italia nella modernità politica europea, nel senso che viene perdendosi rapidamente l’alternativa, tutta estetizzante, tra «paradiso» e «diavoli» e si comincia a pensare al problema di una arretratezza che non può essere esotismo o nostalgia, ma necessità di riscatto. Il Mezzogiorno in idea, si trasforma, insomma, in un terreno di battaglie politiche, dove ci sono – come è giusto che sia – i «buoni» e i «cattivi», non distinti da dolcezza o malvagità dell’animo, ma dalla scelta che ciascuno – a cominciare dalla dinastia regnante – fa rispetto ai nuovi lessici, alle lezioni di una nuova storia di cui i «romantici» inglesi si rivelano allora non scolari, ma maestri, anzi padroni.
Dopo gli inglesi osserviamo il comportamento dei viaggiatori francesi.
Il padre domenicano Jean Baptiste Labat,nel secondo e lungo soggiorno in Italia dal 1709 al ’16, visita anche Napoli, e si reca alla Certosa di San Martino presentandosi come americano e chiede al frate che lo accoglie di visitare la collezione di piante e vedute. La guida a questa richiesta lo riconosce come francese , visto che – aggiunge – molti francesi hanno visitato la collezione ed evidentemente glielo hanno riferito. E’ importante questa testimonianza perché da essa si deducono due informazioni di rilevante interesse: nella Certosa c’era una collezione di piante e vedute, nota anche agli stranieri. La collezione, dal tempo di Gino Doria, è ancora oggi a San Martino. Labat purtroppo verifica il pessimo stato di conservazione di piante e vedute che le rendono quasi inutilizzabili, ma il suo dialoghetto è ben significativo di come si muovessero alla conoscenza della città i viaggiatori del suo tempo i quali si informavano su guide e testi storico-artistici, ma non mancavano di servirsi di quelle testimonianze iconografiche disponibili sul mercato librario e antiquario. Lo stesso Labat è inequivocabile al riguardo e segnala un errore che ha riscontrato nella vedutina di Nicolas de Fer (1701) allegata all’Atlas Curieux edito a Parigi tra il 1700 e il 1705 in sei fascicoli, di cui si serve. Il belvedere che offre la collina di San Martino è, dunque, il panorama per eccellenza e a tal riguardo le pagine che il Journal vi dedica non si contano: da Nicolas Bé
nard che giunge a Napoli nel 1617, a Gragler de Liverdis, al giovane Colbert futuro marchese di Seignalay, per non dire ovviamente di Maximilien Misson.
Pertanto si può dire che la topologia impone la veduta della città: l’altezza di Sant’Elmo e la sua baricentrica posizione rispetto all’intero contesto paesistico del golfo ne fa un topos obbligato.
Si crea divaricazione evidente tra i modelli visivi e modelli letterari: tra linguaggio verbale e immagine visiva. Il sincretismo dell’immagine esige che le vedute che s’affermano, quantunque differenziate, impongano comunque una veduta frontale, sempre opposta al Castello di Sant’Elmo, il quale è cuspide di una ideale piramide e diviene mezzeria del corpo della città. Come in un gioco degli specchi i due testi si confrontano, si rimirano da due osservatori disposti lungo uno stesso asse d’equilibrio. Il disegnatore ed il topografo calano sulla città come il volo radente di un uccello, il viaggiatore la descrive per erba, si muove come una talpa e attraversa i cunicoli del corpo urbano alla ricerca delle tane che gli sono più congeniali per poi attestarsi sulla collina di Sant’Elmo.
L’immagine visiva cerca una sua sincretica compiutezza, il linguaggio verbale dirama le sue sonde lungo itinerari che si sfioccano nelle diverse direzioni del tessuto metropolitano. Ma entrambi questi sistemi di classificazione vanno alla ricerca di un loro discorso. Anche lo scrittore è alla ricerca di una sintesi per introdurre il lettore alla città, così come il disegnatore ha bisogno di un profilo, di un contorno, per definire i caratteri morfologici ed urbani: ma il primo guarda dentro, l’altro fuori. La città è dunque contesa da una convergente attenzione: da un lato la veduta tende a restituire i contorni geografici dello spazio urbano, dall’altro il testo letterario penetra nello spessore del tempo vale a dire indaga la storia e i miti che si sono sedimentati nelle viscere di chiese, strade e palazzi.
Ovviamente non tutte queste testimonianze sono omogenee e uniformi: ad esempio lo Jouvin de Rochefort preferisce una passeggiata lungo la marina che gli consente di vedere tutta la città dal basso.  La veduta dal molo o, meglio ancora dal mare è quella privilegiata dalla «Tavola Strozzi» di Francesco Rosselli al Baratta e poi ancora per tutto il Settecento.
Una conferma del fatto che il paesaggio visto dai viaggiatori sia un luogo mentale, cioè una formalizzazione concettuale della città indagata attraverso un testo letterario, ci è data indirettamente dal resoconto di viaggio di Jean-Jacques Bouchard (1606-1641): spirito inquieto e scrittore brillante, frequenterà a Parigi l’ambiente dei libertini, fu amico del filosofo Gassendi e di Guy de la Brosse, a Roma – dove morì – frequentò i più esclusivi circoli eruditi. Bouchard dice che egli non scrive niente «que ce qui n’a point encore estè escrit du tout, ou qui ne l’a pas estè bien» o che non abbia visto «de mes propres yeus» e quel che vede è molto importante.
Afferma di servirsi di libri, ma non di copiarli: pratica evidentemente corrente che, peraltro, potremmo documentare ad abundantiam. E cita le sue fonti: pur usando come guide i testi di Cluverius, Capaccio, Summonte ed il celebre Mercurius Italicus la sua descrizione è così personale ed attenta ai particolari più vivi ed originali che ci sorprende per la sua modernità. Ci son dei momenti in cui l’incisione di Baratta ed il suo testo sembrano l’uno il riflesso dell’altro, e non è un caso che il resoconto di viaggio di Bouchard nel 1631 segue di soli tre anni la stampa della veduta ed aggiunge una interessantissima descrizione delle carte.
Parlando di Spaccanapoli, Bouchard sottolinea che essa incrociandosi con via Toledo quadripartisce la città. Ricorda poi le strade lungo il mare, e quelle che si inoltrano nel cuore più antico. Elenca le piazze tra le quali individua quelle che emergevano soprattutto per le loro funzioni più che per le dimensioni, che Napoli non è mai stata città dalle grandi piazze.

gouache

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