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lunedì 25 novembre 2013

Amore sacro ed amore profano



Dal titolo si potrebbe credere che intendiamo parlare del celebre dipinto di Tiziano conservato a Roma nella Galleria Borghese, invece intendiamo parlare del folle amore che legò Abelardo ed Eloisa, una passione contraddistinta da sacro e profano. Lo slancio dello spirito e la violenza dei sentimenti sono abituati coabitare, senza queste apparenti contraddizioni, non ci sarebbe umanità, ma solo una collezione di manichini. Siamo collocati temporalmente ad un migliaio di anni fa, in un’epoca piena di fermenti intellettuali e di scontri violenti.
Eloisa era la nipote sedicenne di Fulberto, canonico di Notre Dame, Abelardo quarantenne era un celebre teologo e pensatore, tra i più importanti filosofi del medioevo, precursore della Scolastica, fondatore di scuole che contribuirono a diffondere il pensiero filosofico e scientifico, nonché abile dialettico. Egli ebbe l’incarico da Fulberto di fare da maestro ad Eloisa. Fu come mettere la polvere da sparo accanto al fuoco. Abelardo ci perse il sonno ed il senno, diventò un pessimo predicatore ed uno squisito poeta. Vi fu tra i due un matrimonio segreto, un figlio, che nacque in Bretagna, e assunse l’astruso nome di Astrolabio. Il filosofo chiese di poterla sposare morganaticamente per non compromettere la propria carriera ecclesiastica a cui tanto teneva, ma la notizia si divulgò e scoppiò lo scandalo. Lo zio inferocito si vendicò in maniera orrenda, mandandogli di notte due sicari che nel sonno lo evirarono. Parigi fu più deliziata dal lato piccante di questa vicenda che commossa dalla furia della passione.
Abelardo si disponeva anche lui a chiudersi in convento, ma gli studenti implorarono di non interrompere le sue lezioni. Stette per un periodo in convento, ma l’amore per Eloisa lo tormentava e nonostante la vita monastica e la riflessione filosofica, ripresa in esame, che lo portò a confrontarsi su aspetti dottrinali con Bernardo da Chiaravalle, egli continuò a mantenere un fitta corrispondenza epistolare con Eloisa scrivendo tra le più belle lettere d’amore di ogni tempo, un amore intriso di carnalità, al punto che alcuni storici hanno messo in dubbio l’autenticità. Ma a torto. Anche Eloisa, chiusa in convento gli scriveva e sono lettere stupefacenti che parlano un linguaggio che supera agevolmente il tempo che ci divide da loro: “Se l’appellativo di moglie sembra più santo e di maggior valore, a me è sempre apparso più dolce quello di amica o, se non lo giudichi sconveniente, di concubina o sgualdrina”.
Dante avrebbe avuto mille motivi per metterli all’inferno, come Paolo e Francesca, ma non lo fece. “Chi. dimmi, non correva a guardarti quando avanzavi in pubblico? Non c’era una donna, sposata o fanciulla, che non ti desiderasse in tua assenza e non ardesse in tua presenza. Qualunque regina, qualunque femmina potente non avrebbe voluto per se le mie gioie e il mio talamo”.
Eloisa che nel frattempo era divenuta badessa grazie alla sua condotta esemplare, venne a riprendersi il cadavere di Abelardo, quando questi morì nel 1142 e lo sotterrò nel cimitero del suo convento. Forse lei sola col suo intuito femminile, aveva compreso il dramma di quell’uomo singolare e tormentato che aveva predicato in nome della ragione, ma era vissuto sotto il segno della passione ed era perciò la prima vittima del conflitto ch’egli stesso aveva aperto.
Ed ecco qualche altra lettera di Abelardo:
“Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente all'amore, lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano di più intorno ad argomenti d'amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi; la mano correva più spesso al seno che ai libri. E ciò che si rifletteva nei nostri occhi era più spesso l’amore che la pagina scritta oggetto della lezione. Per non suscitare sospetti la percuotevo spinto però dall’amore, non dal furore, dall’affetto non dall’ira, e queste percosse erano più soavi di qualsiasi balsamo”.
Vorrei approfittare per citare alcuni passi di confessioni di monache scostumate che ho rintracciato in alcune ricerche di archivio.
“Sono pazza di Don Vladimiro, nel convento di clausura che mi ha esclusa dal mondo e accolta nell’eden della voluttà, pur fra canti gregoriani, inni liturgici, messe diurne, notturne, rosari, estenuanti esercizi spirituali, al bisogno autoflagellazioni, pasti frugali, silenzi sepolcrali, voti stretti di castità e carità. Don Vladimiro, come sai, è il nostro confessore. Bello come un Dio greco uscito dal bulino di Fidia o di Prassitele, me ne sono follemente invaghita. E lui di me. Non ho dimenticato, incunaboli e codici miniati e sfoglio spesso anche le Sacre Scritture, sia pure con occhio e mano profana, ma con diligenza e intelligenza. La Bibbia per me non ha segreti, e il Cantico dei cantici lo so a memoria. Ho con i padri della chiesa – da San Paolo a Sant’ Ambrogio, a Sant’ Agostino, a Sant’ Girolamo – la stessa dimestichezza che mutatismutandis, ho con Ovidi, Catullo Giovenale e Saffo.
Il solo pensiero di dover dire addio all’abbazia e di non vedere più Vlad, non mi lascierà altra scelta che il suicidio. Forse mi butterò dalla finestra, forse mi farò murare viva per espiare i miei peccati. Che peccati non sono, ma solo focosi abbandoni al mio spasimantissimo-spasimante, che non reggerà al dolore, invocando non più Afrodite, ma Proserpina.
“Après l’amour” come cantava Charles Aznavour recitiamo il rosario, per poi riprendere in mano il Kamasutra e sceneggiamo, oramai con professionale maestria, le più spericolate posizioni”.


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