15/6/2009
La crisi economica, le elezioni europee e la luce dei riflettori sulla vita privata del Presidente del Consiglio hanno fatto dimenticare all’opinione pubblica le discussioni sul testamento biologico, del quale i politici sembra non siano più interessati. Un momento favorevole per poter trattare l’argomento quando gli animi non sono accesi e l’eterna diatriba tra laici e cattolici sembra sopita.
Il testamento biologico rappresenta l’espressione della volontà di un soggetto, fornita in condizioni di lucidità mentale, in riferimento alle terapie che intende accettare o rifiutare nel caso dovesse trovarsi nell’impossibilità di manifestarla a seguito di una malattia irreversibile ed invalidante da richiedere un trattamento con l’ausilio di macchinari che mantengano artificialmente la vita allo stato vegetativo.
La dizione testamento viene presa dal linguaggio giuridico in riferimento ai tradizionali pronunciamenti dove si lasciano per iscritto le decisioni in merito alla destinazione di beni materiali da lasciare ai propri eredi. Tale forma di documento esiste in quasi tutti i Paesi occidentali, il più famoso è quello in uso in Inghilterra, che prende il nome di “living will”. Alcune volte viene indicato un parente o un fiduciario incaricato di far rispettare la volontà della persona che redige il testamento biologico.
In Italia non esiste ancora una legge specifica sull’argomento, un disegno legislativo, approvato da uno dei rami del Parlamento in forma restrittiva, a giorni sarà all’esame della Camera, ma il privato cittadino può, servendosi di un notaio, predisporre una sorta di testamento biologico. A tale scopo si possono seguire le indicazioni del professor Umberto Veronesi contenute sul suo sito. All’occorrenza si potrà trovare un magistrato che lo farà valere o un medico che, seguendo i dettami della deontologia professionale, tenga conto delle decisioni del paziente. E su questo punto in questi giorni la quasi totalità dei presidenti degli ordini si sono espressi affinché vengano definite in sede legislativa le condizioni per cui le volontà del paziente abbiano valore giuridico e gli atti sanitari commessi o omessi in ottemperanza ai desideri del testatore, escluse quelle di eutanasia o assistenza al suicidio, li esonerino da ogni responsabilità civile e penale.
L'articolo 32 della Costituzione della Repubblica italiana stabilisce che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» e l'Italia ha ratificato nel 2001 la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (L. 28 marzo 2001, n.145) di Oviedo del 1997 che stabilisce che «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione». Il Codice di Deontologia Medica, in aderenza alla Convenzione di Oviedo, afferma che il medico dovrà tenere conto delle precedenti manifestazioni di volontà dallo stesso.
Per la prima volta in Italia, il 5 novembre 2008, il Tribunale di Modena emette un decreto di nomina di amministratore di sostegno in favore di un soggetto qualora questo, in un futuro, sia incapace di intendere e di volere. L'amministratore di sostegno avrà il compito di esprimere i consensi necessari ai trattamenti medici. Così facendo si è data la possibilità di avere gli stessi effetti giuridici di un testamento biologico seppur in assenza di una normativa specifica.
La Chiesa cattolica, attraverso il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della CEI, ha sollecitato a varare, con la speranza di un ampio concorso, una legge sul fine vita che, riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili e rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza, fuori dalle gabbie burocratiche. Riguardo il rifiuto dell’alimentazione e dell’idratazione, l'argomento principale su cui sono divisi i due disegni di legge discussi attualmente in parlamento, ha precisato che non c'è la necessità di specificare alcunché a riguardo, in quanto queste somministrazioni sono ormai universalmente riconosciute come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie. Questa sarebbe una salvaguardia indispensabile, se non si vuole aprire il varco a esiti agghiaccianti anche per altri gruppi di malati non in grado di esprimere deliberatamente ciò che vogliono per se stessi. Quello che la Chiesa auspica, mentre si evitano inutili forme di accanimento terapeutico è che non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano.
A conclusione di questa breve dissertazione vorrei aggiungere alcune mie considerazioni sul delicato confine tra l’inizio e la fine della vita. Sempre arduo è stato il quesito sull’inizio della vita, ma quanti si interrogano su quando la vita finisca? Fortunatamente, della problematica la Chiesa non se ne è mai interessata e questo disinteresse ha favorito il progresso della scienza dei trapianti, a differenza delle tecniche di fecondazione assistita o dell’aborto, che cozzano contro il dogma dell’animazione coincidente con la fecondazione, sancito nel 1869 da Pio IX nell’“Apostolicae sedis”. A questa conclusione si è giunti dopo che sulla spinosa questione si erano espressi tutti i maggiori studiosi cristiani, da Tertulliano a Sant’Agostino, fino a giungere a Sant’Alberto Magno, che candidamente asseriva che il maschio possedeva un’anima dopo 40 giorni dal concepimento, mentre la donna dopo 90, e San Tommaso d’Aquino, sul cui pensiero si fonda la teologia e l’etica cristiana, che sosteneva la tesi dell’animazione ritardata, prima della nascita, ma molto tempo dopo la fecondazione.
Non mi dilungo perché vorrei invitare a meditare sul preciso momento della morte. Pochi sanno che il cuore adoperato per un trapianto è perfettamente pulsante, anche se il vecchio proprietario ha il cervello che non funziona più (elettroencefalogramma piatto). Una situazione identica a tanti ricoverati da anni, senza speranza, nei nostri centri di rianimazione, anche loro con il cervello distrutto, ma con un cuore o i polmoni malandati che non interessano per un trapianto. Se a questi soggetti asportassimo il cuore senza utilizzarlo sarebbe eutanasia? E come mai non lo è se l’organo serve per un trapianto? Alcune cellule resistono alla mancanza di ossigeno più delle altre, ad esempio le cellule pilifere vivono fino a 6 giorni dopo la morte ufficiale, anche dopo il seppellimento del corpo. In caso di morte traumatica in un giovane è impressionante, vegliando il cadavere, scoprire che al mattino ci vorrebbe il barbiere. La delicata linea di confine tra l’inizio e la fine della vita mal si presta ad essere delineata con precisione, se si vuole trovare una risposta unicamente biologica, che non può soddisfare pienamente. Una verità difficile da accettare per il laico, che non voglia travalicare nella scienza come dogma.
Un argomento che diverrà sempre più scottante, che ha costituito per oltre trent’anni per il sottoscritto, come medico e come libero pensatore, oggetto di studio e riflessione, senza speranza oramai di una risposta soddisfacente e definitiva.
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