Pagine

sabato 17 marzo 2012

Quattro passi nella Napoli dimenticata

5/8/2006

Il “Maggio dei monumenti” ha rinfocolato nei napoletani il gusto di percorrere in lungo e in largo la propria città, riappropriandosi delle memorie storiche sepolte in un antico palazzo, spesso sgarrupato, in una chiesetta dimenticata o in una stradina di cui nemmeno sospettavamo l’esistenza. 
Si è trattato quest’anno di un’edizione in tono dimesso, in sintonia con una triste parabola discendente alla quale ci ha lentamente abituati la nostra amministrazione comunale, facendoci rimpiangere gli straordinari week-end di Monumenti porte aperte, ideati ed organizzati dalla benemerita baronessa Mirella Baracco, l’ultima vera regina di Napoli, ahimè da qualche tempo demotivata e distratta da orizzonti internazionali.
Finita la festa non è finita per fortuna la voglia di visitare la città e a tale scopo abbiamo predisposto una bussola che possa fare da guida e condurre per mano chi volesse conoscere angoli sconosciuti della nostra Napoli, spezzoni di storia e di arte, di folklore e di viva umanità.
Abbiamo scelto un itinerario “out”, completamente inedito e fuori dai normali circuiti ad uso dei turisti ed anche dai percorsi delle persone colte che credono di aver già visto tutto.
Cominciamo con un vicoletto che solo a Napoli può esistere, infatti esso ha non uno, non due, ma ben tre nomi e non si tratta di denominazioni ad uso del volgo, bensì di tre targhe apposte in bella mostra dal Comune, le quali coabitano con patetica indifferenza.
Tale via mette in collegamento via Giordano Bruno con via Piedigrotta, all’angolo della quale svetta la prima lastra marmorea intitolata a Jan Palach, il giovane eroe cecoslovacco che nel 1968 s’immolò dandosi fuoco per la libertà del suo popolo. All’opposta estremità altre due targhe con diversi toponimi, tra i quali gli abitanti del luogo preferiscono il più antico di “Traversa Mergellina”.
Ma non è per questa esemplare singolarità che abbiamo citato questa stradina, bensì perché essa presenta un’edicola sacra dedicata alla Madonna di Piedigrotta, il cui volto è ben più che originale.
Le edicole sacre affollano tutte le strade della vecchia Napoli e rappresentano una forma caratteristica di devozione da parte del popolo, il quale si sente rassicurato dal rapporto fisico di familiarità che può instaurare con le immagini contenute nei tabernacoli, alle quali si può rivolgere per impetrare le grazie più disparate. Fu padre Rocco, il leggendario frate domenicano benvoluto da Carlo III e Ferdinando IV, a favorirne la diffusione, ottemperando in tal modo non solo ad un fine devozionale, ma soprattutto a rendere meno oscure e pericolose le nostre strade, illuminate così da una vasta ragnatela di tenui quanto efficaci fiammelle.
E ritorniamo all’edicola incriminata…, la quale mette in mostra una effigie della Madonna quanto mai sospetta, che ad un esame più accurato rivela le sue malcelate sembianze maschili. Raffigurata su panno e non su tela, un antico stendardo settecentesco che sarà andato in processione chissà quante volte, è con grande probabilità il frutto di un traslato omaggio di un artista dal sesso non ben determinato verso il proprio amante. Un ingenuo ignoto pittore che candidamente ha coniugato sacro e profano, certo di non aver trasgredito alla sacralità nel rendere un imperituro omaggio al volto dell’amato bello. (Senza tante parafrasi un ricchione ante litteram ).
Ed in tema di edicole profane con un immaginario salto trasferiamoci nel centro geometrico di Napoli, rappresentato dalla gigantesca statua dedicata al Nilo, in voluttuosa posa da rammentare vagamente la Paolina del Canova, posta a metà del più frequentato decumano. Proprio di fronte ad un così celebre ed austero monumento è collocata un’edicoletta dedicata a Maradona, il mai dimenticato eroe del San Paolo, che riscattò due volte l’onore delle legioni di tifosi umiliate per decenni dagli squadroni del nord. Il tabernacolo conserva anche, ad imperitura memoria, una preziosa reliquia: un capello “originale” del grande funambolo argentino. E non sono pochi i napoletani che passeggiando, pur senza sostare in adorazione, volgono lo sguardo verso la curiosa edicola e tristemente sospirano, ricordando il glorioso passato e pensando al nefasto presente.
Trovandoci nei pressi, entriamo quindi nella chiesa della Pietà dei turchini, tempio della pittura napoletana seicentesca, ma non inviteremo ad ammirare gli straordinari esiti dei più celebri pennelli partenopei, bensì una succulenta rarità: un autoritratto criptato di Agostino Beltrano, un esponente del secolo d’oro ancora poco noto al grande pubblico, ma che per la sua abilità merita di essere conosciuto. Questo inedito fino ad oggi sfuggito agli studiosi, lo si può scorgere nell’affresco rappresentante “San Nicola che comunica i fedeli”, dimenticato dalla critica nella quarta cappella a sinistra della chiesa, dove evidentissima sulla destra della composizione si staglia la figura di un austero personaggio nella classica posa dell’autoritratto. Si tratta del volto del pittore ancora giovane somigliantissimo all’unica sua immagine che conosciamo, il quale ci guarda beffardo da secoli senza che noi ce ne fossimo accorti, paghi forse della fisionomia dell’artista che ci forniva il Giannone, senza rivelarci da dove l’avesse attinta, nella sua opera dedicata ai pittori napoletani.
E parlando del Beltrano prendiamo spunto per fornire in anteprima una nostra constatazione, che sarà oggetto quanto prima di pubblicazione, la quale sposta in avanti la data della morte del pittore, generalmente ritenuto deceduto durante la peste del 1656, in contrasto a quanto asserito dal celebre biografo De Dominici che lo riferisce finito nel 1665. 
Questa riflessione è scaturita dall’attento studio di una “Immacolata Concezione” allocata sulla destra della parete del coro di Santa Maria La Nova, un altro tempio della nostra pittura. Tale opera per evidenti motivi iconografici che andremo ad esporre è databile a non prima del 1662. Il quadro, nel quale sono rappresentati il papa Alessandro VII e l’imperatore Filippo IV è stato assegnato dalla Novelli Radice, studiosa dell’artista, al quasi sconosciuto Giuseppe Beltrano, fratello di Agostino, per via della qualità dell’opera molto modesta. E’ viceversa facile constatare che la tela in esame trasuda lo stile di Agostino da tanti dettagli: dal volto della Madonna, identico a quello delineato nell’affresco della “Incoronazione della Vergine”, al gruppo degli angioletti simile nei contorsionismi a tanti altri che possiamo rintracciare anche in dipinti da cavalletto ed infine la fisionomia del re Filippo IV, immortalata più volte dal Velazquez, col suo caratteristico prognatismo che richiama a viva voce il ritratto equestre di Carlo di Tocco, conservato al Pio Monte della Misericordia. L’iconografia della Immacolata Concezione, rappresentata nel dipinto fu promulgata come dogma da papa Alessandro VII l’8 dicembre 1661. E’ pacifico concludere di conseguenza che l’opera in esame non ha potuto vedere la luce prima del 1662, in accordo con la data riferita dal De Dominici, per cui bisognerà accettare l’ipotesi che il Beltrano superò indenne l’infuriare della peste e visse molti anni dopo il fatidico 1656, che i libri di storia dell’arte indicano come data della sua morte. 
Abbandonate sculture ed affreschi, quadri ed affini spostiamoci in tutt’altro ambito dedicandoci ad una struttura normalmente non aperta al pubblico, ma visitabile con un semplice permesso del direttore della cattedra di anatomia umana, persona gentilissima e pronta a soddisfare ogni esigenza. Si tratta del museo di anatomia, sito in via Armanni nella zona adiacente al vecchio policlinico e ricco di reperti umani interessantissimi, conservati in formalina, i quali, oltre a costituire materiale di consultazione per gli allievi della facoltà di Medicina e Chirurgia, risvegliano l’interesse e la curiosità anche di un pubblico profano, che è indotto ad una severa meditazione. 
Ricordo l’emozione con la quale entrai per la prima volta, giovane studente, tra quelle sale sorde e grigie, accompagnato dal professore Gastone Lambertini, una leggenda della nostra facoltà. Rimasi particolarmente colpito al cospetto dello scheletro di un gigante e davanti ad un antico boccione, nel quale, immobili da tempo immemorabile e teneramente avvinti per l’eternità, giacevano due gemelli siamesi, uno scherzo della natura meno raro di quanto si pensi. Ritornato dopo decenni per accompagnare un gruppo di colleghi stranieri, ho provato lo stesso sbalordimento davanti a quei gemelli immutati dopo trenta e più anni, insensibili all’inesorabile trascorrere del tempo.
Il filo dei ricordi mi spinge ora a Posillipo al dimenticato “Canalone”, una calata di gradoni quasi a picco che collegava, e collega, la via del Marzano (parallela di via Manzoni) a via Posillipo in pochi minuti. Un inveterato oblio è calato su questa antica discesa che poco meno di cento anni or sono percorreva una giovinetta col suo carico di libri e quaderni, timorosa di arrivare tardi a scuola: mia madre. 
Lo stesso volume “Napoli per le scale” della prof.ssa Ada Sibilio Murolo, esaustiva silloge di calate, discese, gradini, gradoni, rampe e salite napoletane, si è dimenticato di descrivere questo antico collegamento, denominato per l’anagrafe salita Villanova. Un percorso bucolico, costeggiato purtroppo da arboree erbacce, ma senza siringhe abbandonate, perché nemmeno i drogati lo conoscono, il quale sbuca all’improvviso su via Posillipo in un antro scavato nel tufo, che chissà quante volte avete osservato curiosi percorrendo quella strada e chiedendovi dove portasse. 
Rimaniamo in periferia per l’ultima tappa, purtroppo virtuale, trattandosi di un luogo negato alla fruizione del pubblico, anche se di grande interesse. Ritorniamo a Barra, a villa Bisognano, ex Roomer, della quale avevamo già discettato in un nostro precedente articolo, descrivendo uno spettacolare ciclo di affreschi di Aniello Falcone, sconosciuto agli stessi specialisti. Tale villa, oggi proprietà comunale, ospita una scuola, il cui preside ci ha cortesemente informato che un’ala dell’edificio, ove si trovano le preziose decorazioni, è stata occupata da quattro - cinque famiglie. In particolare una di queste, di nome Storti (mai nome fu più adatto) si è impossessata dei locali ove sono conservati gli affreschi e respinge sdegnosamente e vigorosamente qualsiasi visitatore, inclusi i professori della scuola, uno dei quali, mi ha informato che nell’abitazione coabitano numerosi piccioni e che sull’elegante porticato adiacente sono state erette abusivamente delle verande. 
Uno scandalo macroscopico che grida vendetta, possibile solo a Napoli, paradiso abitato da diavoli. Della triste vicenda avevo informato, sfruttando una personale amicizia, il sottosegretario Sgarbi, il quale aveva promesso il suo immediato intervento. 
Purtroppo dopo due giorni, per le note vicende politiche, l’onorevole è decaduto dall’incarico per cui non ci resta che indirizzare il nostro accorato grido di dolore al sovrintendente professor Nicola Spinosa, di cui è noto l’attaccamento ai beni consegnati alla sua tutela, ma soprattutto è proverbiale la focosa grinta con la quale sa difenderli, per cui possiamo attendere fiduciosi.

Nessun commento:

Posta un commento