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lunedì 19 marzo 2012

Luca Giordano il principe dei pittori

2/8/2007


Luca Giordano nacque a Napoli il 18 ottobre 1634, da Antonio, anche egli pittore, pur se modesto, definito dal De Dominici «scolaro di niun grido del Ribera che altro mai non fece che copiare alcuni santi dipinti dal maestro»; il biografo ci riferisce inoltre che Luca dall’età di otto anni frequentò la bottega del Valenzano per lo spazio di nove anni a perfezionarsi nel disegno. Questa notizia, anche se il De Dominici non conosceva l’esatta data di nascita del Giordano, trova conferma negli scritti di altri biografi, tra cui il Sandrat che ne parla nel 1683.
Il suo talento fu precocissimo tanto da permettergli di terminare a soli otto anni due putti, affrescati dal padre, in Santa Maria la Nova.
Negli anni trascorsi nella bottega del Ribera, che si stava liberando della sua fase più cupa e tenebrosa per avviarsi verso un più limpido cromatismo, Luca ripercorse tutte le principali tappe toccate dalla pittura napoletana del tempo, riesaminando con spirito moderno le motivazioni che avevano giustificato il graduale trapasso dal naturalismo al pittoricismo.

Dal grande maestro il Giordano seppe trarre l’impronta pittorica, quella sua capacità di spingere l’espressione dell’immagine fino ai limiti più arditi e questa severa lezione costituirà un imprinting culturale che comparirà più volte nel corso della sua carriera, come la punta di un insopprimibile iceberg che perennemente incombe maestoso.
Dopo il discepolato con il Ribera, Luca trascorse tre anni a Roma, ove fecondante fu l’incontro con gli esiti di Pietro da Cortona, che in quegli anni lavorava a palazzo Pamphily. Nella città eterna si dedicò allo studio delle «opere di Raffaello, di Michelagnolo, di Polidoro de’ Carracci», e disegnò «più e più volte le logge e le stanze di Raffaello e ben dodici volte l’intera battaglia di Costantino dipinta dall’eccellente Giulio Romano ed altrettante la Galleria Farnese» (De Dominici). 

È questo il periodo in cui il Giordano acquisisce quei soprannomi che lo accompagneranno per tutta la vita: Proteo della pittura ed il ben più famoso Luca fa presto. Il padre infatti istigava il ragazzo a realizzare senza sosta dei disegni dei monumenti romani, da rivendere con buon profitto ai forestieri.

Il ragazzo, in preda ad una frenetica capacità creativa, «inventò la maniera di tingere la carta con la polvere che cadeva dalla matita rossa lasciando il colore della carta per mezzo tinta e lumeggiandola col lapis bianco, con pochi facili e maestrevoli scuri e in tal guisa in poche ore terminava i disegni» (Vitzhum).

È il momento in cui comincia anche la sua irrefrenata attività di copista e di realizzatore di quadri alla maniera di, che gli valsero la fama di portentoso falsificatore che in parte era la conseguenza della sua innata libertà di intendere la ricerca pittorica al genuino fuoco della sua prestigiosa e prodiga fantasia.
Con le sue esercitazioni… riuscì ad ingannare anche uno scaltro collezionista come Gaspare Roomer, che però, intuita la precoce genialità dell’artista, preferì perdonarlo. Famigerata una sua tela la Discesa dalla croce di S. Andrea dell’Alte Pinakothek di Monaco, che porta la firma falsificata «Josepe de Ribera Espanol F. 1644», uno dei casi più emblematici e nello stesso tempo di ragguardevole fattura, nella lunga serie di quadri in cui il Giordano replica la maniera altrui.

Eclettico e imprevedibile, Giordano spinse più di una volta il suo virtuosismo oltre i limiti del lecito, dando luogo a più di una querelle, di cui si fece portavoce un suo rivale, il Di Castro, che, mosso da invidia, nel 1664 scrisse a Messina a don Antonio Ruffo, uno dei collezionisti più importanti di pittura napoletana dell’epoca, per metterlo in guardia, anche se nella stessa lettera ribadiva che in quel periodo l’unica novità che fosse presente sul mercato era costituita da quei quadri «alla Tiziano ed alla Ribera», che venivano sfornati dal fertile pennello del Giordano, il quale a sua volta affrontava con grande spregiudicatezza l’argomento, se, nel redigere nel 1688 un’importante inventario, non aveva timore ad indicare alcuni quadri con la qualifica «mano di Luca Giordano alla maniera dello Spagnoletto».
Quindi, «non contento di ciò che vedeva» a Roma «del famoso Correggio, di Tiziano, di Paolo Veronese, del Tintoretto e di altri gran pittori della scuola lombarda», proseguì i suoi viaggi di istruzione recandosi a Parma, Venezia e Firenze.

Egli volle attingere personalmente alle fonti primigenie dell’arte consultando i testi là dove erano stati prodotti, percorrendo a ritroso quello che fu lo svolgimento artistico in Italia dal Cinquecento al Seicento. E così, dopo l’incontro con i classici del Rinascimento e della Maniera a Roma, il contatto con il Rubens nella sua dilagante fantasmagoria di colori e di gioia al quale renderà un esplicito omaggio con il celebre Pintando, oggi al Prado, l’ultima tappa fu l’abbeverarsi alla sorgente del cromatismo, radice di ogni novità della moderna pittura da Correggio a Tiziano, dai Bassano al Veronese.
Egli volle gareggiare in una sfida ideale con i grandi maestri del passato e suggere instancabile al potente calice del fermento cromatico: libero ed indifferente alla forma, il suo stile, al contatto con esempi così preclari, diviene aereo e luminescente, affrancandosi dal fardello della ingombrante materia e librandosi lieve e soave nei campi riverberanti della più pura vibrazione.

È la fine ed il superamento dell’arcaico concetto di bottega, o di scuola locale che fonde e ricongiunge in una patria sublime l’intero mondo ideale dell’arte, archetipo verso cui tendono i suoi sforzi, nell’emulazione e nel superamento della lezione di tutti i grandi maestri.
I suoi riferimenti culturali non sono soltanto gli italiani, ma, oltre al Rubens, il Dürer e Luca di Leida, il Greco ed il Velázquez.
Sono anni di studio e di lavoro «matto e disperatissimo» che lo liberano definitivamente dalle strettoie della scuola napoletana, per la quale un mondo di immagini tenebrose e violente, nel quale aveva vissuto per un secolo, si chiudeva per sempre, per aprirsi, eterea ed abbagliante, l’epoca del barocco, che Luca saprà trasfondere in un’atmosfera magica d’oro puro e di polvere iridata che durerà per circa dieci anni fino al 1663. «Un fiume immenso di colore e di luce sommerge gli spazi; è il sogno in cui sfocia il Barocco, invadere di vibrazione e di vita ogni piano, ogni riposo della forma» (Ortolani).
Tornato a Napoli, dal 1654 possiamo seguire adeguatamente il suo cammino artistico grazie alle firme ed alle date con le quali il pittore è uso corredare le sue opere ed attraverso una messe veramente notevole di documenti, che gli antichi banchi napoletani hanno generosamente sfornato su di lui.

In pochi anni un fiume impetuoso di tele e pale d’altare adornerà chiese e collezioni private. Non esiste luogo di culto a Napoli che non possegga una sua opera: da San Pietro ad Aram a Santa Maria del pianto, da San Giuseppe dei Ruffi a Santa Teresa a Chiaia, da San Domenico Maggiore al Gesù Nuovo, da Sant’Agostino degli Scalzi ai Gerolamini, dall’Ascensione a Chiaia a San Nicola a Nilo, da San Gregorio Armeno a Santa Brigida, dal Purgatorio ad Arco al Duomo, dai Santi Apostoli a Donna Regina, da S. Maria dei Miracoli a S. Maria della Sanità, dalla chiesetta di San Giuseppe a Pontecorvo alla Solitaria, a tante altre ancora e, naturalmente, al tempio della pittura napoletana, la Certosa di San Martino. La sua pennellata divenne frenetica, la fantasia senza limiti, l’operosità inesausta; una pittura dove colore e luce acquistavano una nuova dimensione eroica con un irrefrenabile moltiplicarsi delle immagini «è insomma il trionfo, in pittura, di una nuova cristianità controriformata, ricca e potente, che affrontava nella certezza del messaggio terreno, oltre che di quello celeste, il cammino dei secoli a venire, non immaginando, certo, quanto buia, tortuosa e contrastata, si sarebbe presentata, di lì a poco, la realtà che si profilava all’orizzonte» (Causa).
Il suo primo lavoro documentato nel 1654 è costituito dai quadri del coro in San Pietro ad Aram. Nel 1655 la pala di San Nicola di Bari nella chiesa di Santa Brigida dall’invenzione tutta barocca. Nel 1656 all’infuriare della peste sappiamo da una lettera che il pittore si rifugia a Roma dove copia i disegni di Luca Cambiaso, quindi del 1657 è il San Michele dell’Ascensione a Chiaia e la Madonna del Rosario della chiesa della Solitaria, oggi a Capodimonte. Nel 1658 seguono l’Elemosina di San Tommaso di Villanova e l’Estasi di Sant’Agostino a Sant’Agostino degli Scalzi, nel 1660 la Madonna col Padreterno a San Giuseppe a Pontecorvo e quindi nel 1661, un prelievo da Pietro da Cortona, l’Estasi di Sant’Alessandro al Purgatorio ad Arco.
Naturalmente le opere citate sono una piccola miscellanea della produzione del Giordano, che chiude il periodo «dorato» nel 1663, al quale farà seguito un nuovo processo di sedimentazione e d’assimilazione, soprattutto dei modi pittorici cortoneschi, dai quali mutuerà valori cromatici e schemi compositivi ed in alcuni casi veri e propri prelievi fisionomici dai grandi cicli di palazzo Pamphily e palazzo Pitti.
Durante gli anni in cui il Preti è presente a Napoli, dal 1653 al 1660, vi è un fecondo scambio reciproco tra i due artisti, catalizzante per entrambi, che sostanzialmente si chiude in pareggio.
In particolare il Preti dal Giordano recepì, filtrati, gli straordinari esempi di grandiosità compositiva derivati dal Veronese, mentre Luca, dal più anziano maestro, oltre ad una rimeditazione sulla lezione del Lanfranco, colse la convinzione che il gran libro ideale della storia dell’arte fosse un territorio libero, dal quale trarre materiali per sempre nuove esperienze.
Partito per Malta il Preti, il giovane artista si sentì investito da solo di una grande missione: lo svecchiamento della cultura figurativa locale e l’apertura di sempre nuovi orizzonti.
Il barocco oramai trionfava ed il Giordano poteva «dar libero corso alle ragioni del cuore più che della mente, a dar ascolto alle voci varie e mutevoli dell’infinito Universo e a tradurre in fantasie colorate le intense emozioni procurate dall’inarrestabile spettacolo di luci, forme e colori in cui realtà naturale e soprannaturale si manifestava al suo animo irrequieto e sognante» (Spinosa).
La sua pittura con successivi colpi d’ala giunge rapidamente ai più alti livelli qualitativi. Egli è cosciente della varietà dei suoi registri espressivi e della vastità dei suoi mezzi pittorici, animati da un esaltato empito fantastico, che gli permette di esprimersi con le note di una variegata tastiera cromatica in uno spazio illimitato, come ben mise in risalto Roberto Longhi che parlava di «una visione dove la trama inventiva e l’ordine dell’immaginazione si accordano in un continuum di mondo in abbozzo, in effetti quasi senza fine».
Scomparso il Preti, il lungo intervallo tra il 1660 ed il 1675 vede a Napoli l’attività del Giordano come unica espressione artistica di rilievo, con l’artista che dilaga nel suo impegno frenetico a soddisfare le numerose committenze pubbliche e private e mentre il modesto Giacomo Di Castro scriveva, come abbiamo visto, lettere velenose a don Antonio Ruffo, l’avversario più quotato del Giordano, Francesco Di Maria, lanciava la sua famosa invettiva, definendo il rivale come «la scuola ereticale, che faceva traviare dal dritto sentiero con la dannata libertà di coscienza: e ciò diceva in riguardo alla vaghezza del colorito».
Era la ricomparsa dell’antica querelle tra disegno e colore, tra cultura e fantasia, nella quale Luca aveva ben chiaramente espresso la sua opinione.
Nel 1665, dopo una tappa a Firenze ove lavorò per i Medici e per altri mecenati toscani, il pittore si reca a Venezia e licenzia una serie di importanti pale d’altare, che a lungo gli storici avevano collocato cronologicamente in un periodo precedente, intorno al 1654, nonostante la precisione delle fonti letterarie venete. Tra queste realizzazioni ricordiamo la Deposizione della croce, oggi nelle Gallerie dell’Accademia, e la Madonna con Bambino e Santi pervenuta poi a Brera.
A Venezia si trova anche la famosa cona Assunzione della Vergine, nella chiesa della Salute, datata 1667, ma inviata da Napoli.
Il rapporto economico che lo legò per alcuni anni a Venezia, oltre a procurargli nuovi facoltosi committenti come il marchese Fonseca, fu fecondo e stimolante per il contatto con opere di artisti attivi nella città lagunare, come Bernardo Strozzi e Johann Liss; nello stesso tempo la sua arte influenzò in maniera determinante l’attività di artisti veneti ed anche toscani, quali Giovan Battista Langetti e Antonio Zanchi, fino allo stesso Sebastiano Ricci. È la prima volta che un nostro pittore influenza consistentemente lo sviluppo della cultura artistica in alcune delle grandi capitali dell’arte seicentesca, cosa non riuscita in precedenza nè a Battistello Caracciolo, nè a Massimo Stanzione, che, pur soggiornando a lungo in varie città italiane, non ebbero seguaci.
I committenti del Giordano diventano sempre più importanti e la sua maniera si sviluppa in confini sempre più ampi. A Napoli il cardinale Innico Caracciolo gli fa eseguire una lunga serie di figure di santi per la navata ed il transetto del Duomo.
Il marchese Del Carpio gli commissiona un gruppo di grandi tele e lo nominerà in anni successivi coordinatore dei festeggiamenti per il Corpus Domini, che vedranno il Giordano collaborare con i massimi specialisti di natura morta napoletani in alcuni spettacolari teloni, oggi sparpagliati per i quattro angoli della terra, dall’Australia agli Stati Uniti.
Richiestissimo dall’aristocrazia genovese, Costantino Balbi gli acquistò le tre drammatiche tele, soffuse di epos e pathos, raffiguranti Perseo che combatte Fineo e i suoi compagni, oggi alla National Gallery di Londra, La regina Jezabel divorata dai cani in collezione Ambrosio a Napoli ed il Ratto delle sabine, ancora a Genova nella raccolta Cattaneo Adorno.
Anche a Bergamo, per la chiesa di Santa Maria maggiore, vollero una sua testimonianza e Luca li accontentò, inviando l’immensa tela Passaggio del mar Rosso; non potè accogliere l’invito di eseguire in loco decorazioni, ma mandò a tal uopo il suo fedele seguace Nicola Malinconico.
Dopo oltre venti anni di instancabile attività dopo aver realizzato migliaia di tele, Giordano, come colto da folgorazione ispirativa, ritenne che l’affresco costituisse il suo naturale campo di espressione, con le sue vaste superfici, ove il brillante fuoco d’artificio della sua fantasia potesse estrinsecarsi in maniera più libera ed esaustiva ed è in questo campo che in maniera più marcata possiamo cogliere i segni dei suoi principali referenti culturali dal Lanfranco a Pietro da Cortona fino ai principali protagonisti del neovenetismo romano.
Egli giunge a questa forma espressiva nella sua piena maturità e, senza tralasciare la pittura da cavalletto, instancabilmente produrrà chilometri e chilometri quadrati di volte e pareti, come partecipe di un sacro furore creativo, esaltato da una sovraumana vena ispirativa ed avendo come unica preoccupazione quella di «liberare in un processo rapidissimo la rappresentazione dal peso della materia, dalla sua grave essenza realistica ed innazzarla nei campi della più libera epifania e della pura vibrazione luminosa» (Causa).
I principali complessi decorativi ai quali pose mano sono: gli affreschi di Montecassino del 1677, ove ritornò a lavorare nel 1691, purtroppo oggi non più visibili, perché distrutti dal criminale bombardamento che subì l’Abbazia durante la seconda guerra mondiale; nel 1678 esegue la cupola di Santa Brigida; il grandioso ciclo di storie di San Gregorio Armeno per la chiesa omonima si conclude nel 1684; quindi nel 1682 esegue la cupola della Cappella Corsini a Firenze e dal 1682 al 1685 la spettacolare decorazione della biblioteca e della galleria di palazzo Medici Riccardi, sempre a Firenze, capolavoro della sua maturità che «segna un ulteriore sviluppo del suo stile e della sua invenzione narrativa» (Ferrari); del 1684 è la grandiosa controfacciata nella chiesa dei Gerolamini rappresentante Gesù che caccia i mercanti dal tempio. Una tale oceanica superficie decorativa fu possibile, non solo grazie alla sua leggendaria velocità di esecuzione ed alla sua assoluta padronanza del mestiere, ma anche grazie alla compartecipazione di una quantità di allievi che non ebbe uguali.
Il problema delle ampie collaborazioni nelle opere giordanesche è delicato argomento che la critica ha esaminato più volte sotto varie angolazioni. È impresa ardua infatti riconoscere una o più mani nelle tele autografe, ancor più nei vasti cicli decorativi. Oggi, e torneremo sul tema più avanti a proposito dei giordaneschi, riusciamo a discernere alcuni allievi più famosi, a lungo sommersi nella sterminata produzione di Luca e presto, agli occhi più smaliziati, sarà possibile distinguere il pennello di un collaboratore nel rifinire dettagli, più o meno secondari, in un’opera sicuramente attribuibile al Giordano.
Un’altra questione, poco più che un pettegolezzo, è relativa alla favola che il pittore fosse molto legato al denaro ed a seconda della cifra pattuita si impegnasse in proporzione. Quest’ultima diceria è in parte veritiera e la conferma la si può avere con una attenta lettura dei numerosi documenti di pagamento, confrontandoli con la qualità dei relativi lavori. Si può così notare che spesso, a piccoli pagamenti corrispondono opere modeste ed a cospicue elargizioni, dei capolavori!
Nel 1692 il Giordano è al culmine della fama ed il suo nome ha risonanza internazionale: è tempo che per il magistero della sua arte vi sia una cattedra più adeguata, dalla quale possa far sentire con più forza la sua voce per l’Europa e quale sede migliore che Madrid, all’epoca capitale di un impero dove non tramontava mai il sole.Il re Carlo II chiama il pittore a corte e gli assegna le prime committenze, rimanendo impressionato dai risultati della sua sovraumana attività. Per un decennio fino al 1692 «egli è pronto a sbramare con la sua pittura feconda la meraviglia che gli si volge, ansiosa di miracoli, come a un mostro prodigioso» (Ortolani).
Il pittore sessantenne non conosce pause ed esegue superfici sterminate di affreschi e migliaia di tele; solo il Prado infatti ne possiede, in gran parte esposte, più di cento.
La prima impresa è l’Escalera grande dell’Escorial, seguono gli affreschi della chiesa di San Lorenzo, l’immensa volta del Casón al Buen Retiro, la Sagrestia della Cattedrale di Toledo, lavori per la Cappella dell’Alcázar di Madrid, poi andata distrutta, la decorazione della chiesa della Madonna di Atòca, pure distrutta, gli affreschi di Sant’Antonio de Los Portugueses, il Camerin di Guadalupe ed un infinità di altre committenze pubbliche e private.
Il Giordano è ora a suo agio, liberatosi dall’angusta arena napoletana, può irradiare il suo messaggio di un nuovo corso della pittura moderna, imprimendo il cammino di un incalzante processo di aggiornamento formale che giungerà fino a Goya ed agli impressionisti.
La sua miracolosa attività potè contare su di uno stuolo di collaboratori nelle grandi imprese decorative, che superò il numero di cento nei lavori dell’Escorial ed alla Cattedrale di Toledo e ciò gli rese possibile materialmente l’estrinsecarsi della sua fantasia senza freni che lo collocò in una «area culturale ed ideale di sicura ampiezza europea» (Spinosa).
In Spagna spesso i collezionisti richiedevano al Giordano di replicare le sue composizioni che avevano incontrato fama e successo come la Morte di Seneca e la Sacra Famiglia con i simboli della Passione.Il pittore operò in queste numerose repliche autografe una decantazione in senso puristico della sua maniera ed a volte utilizzò un colorismo più contenuto e denso di effetti luministici. Egli era al corrente delle novità che il Solimena stava introducendo nell’ambiente figurativo napoletano, ma non appena ritornò in patria, riconquistò immediatamente l’attenzione generale.
Luca decise di lasciare la Spagna nel febbraio del 1702, dopo la morte di Carlo II, fece tappa a Livorno e quindi appena giunto dilagò come un’immensa iridescente marea, soddisfacendo committenti ecclesiastici e laici e tra questi il nuovo viceré.
Realizzò le grandiose tele, soffuse di empito drammatico, come Storie di Santa Maria Egiziaca per la chiesa omonima a Forcella, quindi il Martirio di San Gennaro per la chiesa dello Spirito Santo dei napoletani a Roma, i grossi teloni per Santa Maria Donna Regina Nuova, che si contrapposero agli affreschi che Solimena vi aveva dipinto circa venti anni prima, l’Incontro di San Carlo Borromeo con San Filippo Neri, nella chiesa dei Gerolamini, mentre le decorazioni della sacrestia di Santa Brigida furono soltanto iniziate e proseguite, sulla guida dei suoi bozzetti, dagli allievi dopo la sua morte.
La ciliegina finale della sua interminabile carriera è costituita dall’affresco nella cappella del Tesoro della Certosa di San Martino, nel quale, rappresentando il Trionfo di Giuditta, evocò il variopinto mondo immaginativo delle decorazioni di palazzo Medici Riccardi a Firenze.
In questa festa della luce e della vita, in questo inno gioioso alla creatività ed alla libertà, il Giordano ci elargisce «la più luminosa e dorata delle sue aeree fantasie, in cui il sogno di levità, di delizia, di rapita eleganza del secolo nuovo s’esprime come in una delicata spuma di veli. Ora il colore è tutto luce, vibrante, aperta, e le forme sono quasi per sciogliervisi, rette appena dal suo palpito.Ora le strutture compositive, le masse d’ogni parte sfogano e si spalancano. In questo rapimento oblioso e felice ogni forma si scorpora, si spersonalizza e come un tenero miele del sole invisibile tutto scorre e bagna» (Ortolani).
«La sua radiosa visione di un mondo infinito e continuo, rilevato dal fluire inarrestabile di una luminosità chiara e dorata e dalla brillante successione di materie cromatiche dai toni delicati e lievi come quelli di teneri pastelli, fu il più appassionato invito del maestro ultra settantenne alle generazioni degli artisti a venire perché salvaguardassero sempre le ragioni dell’arte e della libera fantasia creatrice dai limiti e dalle necessità contingenti del reale e del quotidiano» (Spinosa).
I contemporanei rimasero soggiogati da questa esplosione finale del maestro che costituisce il suggello conclusivo del secolo d’oro della pittura napoletana, ma pur sopraffatti da tanto ardimento, non seppero coglierne appieno le indicazioni ed i significati più pregnanti, che solo nei decenni successivi, variata la sensibilità artistica, furono capiti nel pieno della loro magistrale precognizione, inaugurando, già in pieno Settecento, la stagione del Ricci e del Tiepolo, del Giaquinto e del Fragonard.

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