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venerdì 30 marzo 2012

Le grandi pale d’altare del Beltrano

3/12/2009

La più antica opera che viene attribuita al Beltrano è la grande pala d’altare raffigurante il Martirio dei SS. Gennaro, Filippo e Procolo (fig. 1), eseguita per la Cattedrale di Pozzuoli intorno al 1635 su committenza di Martino Leon y Cardenas, vescovo della diocesi flegrea per circa venti anni dal 1631 al 1650.

Per datare i dipinti di vari autori che facevano della Cattedrale di Pozzuoli una vera e propria pinacoteca ci si attiene a quanto riferito nelle quattro Relationes, visite che venivano fatte al patrimonio artistico periodicamente, i cui risultati sono conservati presso l’Archivio Segreto Vaticano e sono state studiati su microfilm e parzialmente pubblicati dalla Novelli Radice. Esse si sono svolte nel 1635, nel 1640, nel 1646 e nel 1649. 
Già nella prima il dipinto in esame viene citato, per cui a quella data era già in sede, in seguito nel 1646 si avanza come autore il nome di Guido bolognese “SS. Titularium Proculi et Ianuariy episcopi tabulam a Guidone Bononiense dipinta”, un ipotetico allievo del Lanfranco, che sappiamo attivo nella committenza assieme a Paolo Finoglia, Massimo Stanzione ed Artemisia Gentileschi. In quella del 1649 infine la tela viene descritta senza citare più il nome dell’artista, da alcuni identificato come Guido Reni.
In seguito la critica ha proposto per la cona la paternità dello Schonfeld, ma un attento raffronto con altre due tele eseguite per la Cattedrale, firmate e datate dal Beltrano: il Miracolo di S. Alessandro(fig. 2 ) e l’Ultima cena(fig. 3) ci permettono di assegnare al Nostro Agostino con certezza il dipinto, il quale costituisce la sua prima opera certa, già sintomatica di una maturità di mezzi espressivi.

La tela presenta caratteri schiettamente naturalistici con forti contrasti di luce, che evidenziano le figure in primo piano immerse in un ambiente classico con sullo sfondo superbe colonne, per le quali si può pensare ad un contributo del Codazzi e con la folla: monelli, contadinelle, matrone e uomini togati che assiste al supplizio. Da notare sulla destra la figura del soldato a cavallo con la lancia, che oltre a presentarsi in altre opere del Beltrano, come nel Martirio di San Sebastiano di collezione della Ragione, sarà una costante in tutte le tele del Gargiulo aventi come soggetto scene di supplizio.
La Novelli ha sottolineato l’influenza sul lavoro del Beltrano delle tele che negli anni immediatamente precedenti eseguiva Poussin a Roma. In particolare il Trionfo di Davide, oggi conservato a Dulwich, datato dalla critica agli anni 1633 – 34.
La composizione sviluppata nel senso dell’altezza risulta drammaticamente concitata e divisa in tre piani successivi con una moltitudine vociante sullo sfondo, al centro i soldati, impegnati ad evitare tumulti ed in primo piano i protagonisti in ordinato disordine. I colori sono particolarmente vivaci ed il suo realismo contenuto è immune da influenze stanzionesche, denotando già un personale indirizzo stilistico, che lo avvicina alle esperienze coeve del Falcone, suo coetaneo e della sua bottega. Ci si comincia lentamente ad allontanare dai rigorosi dettami caravaggeschi e le nuove soluzioni, pur sempre naturaliste ed in chiave di misurata eleganza, tendono a sviluppare un’adesione al dato reale, interpretando il sacro come aspetto della vita quotidiana.
Il riferimento più cogente di questo aggiustamento stilistico che va sviluppandosi in questi anni, il quale caratterizzerà la fase prettamente falconiana dell’artista, è rappresentato dalle grandi tele eseguite dall’Oracolo: il Concerto e la Cacciata dei mercanti dal tempio, oggi conservate al Prado segnate da un originale uso della luce “ trattata con prevalenza dei chiari sugli scuri nel concreto spazio atmosferico in cui i particolari realistici, calati nella densità del colore, esaltano il sentimento di immaginose ma umanissime vicende”(Novelli).
Un’influenza percepita in egual misura anche dal Finoglia, attivo anche lui proprio nel 1635 nella Cattedrale, dove esegue un San Pietro che battezza S. Aspreno, nel quale evidente è la sintesi tra forme antiche espresse in maniera moderna con la figura del santo circondata da un fremito di vita descritto con lucida evidenza.
Nel Miracolo di S. Alessandro (fig. 2) il pittore si mostra invece con uno stile pervaso da un naturalismo temperato, che lentamente si aprirà alle suggestioni del pittoricismo ed alle soluzioni del classicismo romano bolognese. La tela è firmata ed anche se fosse apocrifa rispecchierebbe un’antica tradizione orale. La data presenta l’ultima cifra abrasa, per cui è diversamente collocata al 1646 o – 49. L’Ortolani la leggeva, quando forse era ancora visibile, 1646. Essa risulta presente solo nell’ultima Relationes, quella del 1649, per cui questa è la data più probabile.

Il Bologna vedeva nella pala una forte impronta del Falcone e forse del Grechetto napoletano, inoltre sono visibili i segni di un graduale avvicinamento allo stile stanzionesco, sebbene molte figure, in particolare quella del santo, evidenzino ancora palesi similitudini con l’opera più antica. Si confronti infatti la figura di San Procolo, in attesa dietro San Gennaro già inginocchiato, con quella si S. Alessandro che compie il miracolo di far sgorgare l’acqua dalla roccia, mentre lo stanno conducendo al supplizio, uguali gli atteggiamenti, sovrapponibili le fisionomie.
Un altro personaggio patognomonico(fig. 02 bis), che compare identico, sia nell’affresco del Pagamento del tributo a Sennacherib, documentato al 1644 – 45, in S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone, sia nel Martirio di S. Apollonia in collezione Mauro Calbi, è costituito dal fantolino a braccia protese in primo piano.
Il dipinto è realizzato con una pennellata decisa, che dirige una luce marcata a costruire i profili delle spalle ed i visi di alcune figure come quella posta a sinistra nell’Ultima cena(fig. 3), un’altra delle opere eseguite dall’artista per la Cattedrale, firmata e datata 1648 e nominata nella Relationes del 1649.

Il quadro, di forma irregolare, imita e gareggia con quello eseguito da Stanzione per la chiesa dell’Eremo dei Camaldoli; esso, sconosciuto agli stessi specialisti per il lunghissimo periodo di segregazione in deposito e mai pubblicato, è una vera e propria galleria di volti estremamente espressivi ed utili per avanzare raffronti verso altre opere del Beltrano o per tentare nuove attribuzioni, come di recente il Leone de Castris, il quale ha attribuito al Nostro un Pescatore con cesta di pesci di collezione privata per la stingente somiglianza tra la fisionomia del barbuto  e calvo pescatore e quella di alcuni apostoli raffigurati nella tela puteolana.
La sobria tavola imbandita è un’altra dell’esercitazioni come generista di Agostino, che vedremo all’opera altre volte nel realizzare bellissimi fiori alla base di tele mariane, come nella Madonna col Bambino e San Nicola da Tolentino e la Madonna con San Gaetano Thiene. 
Un’altra tela eseguita per il Duomo di Pozzuoli e purtroppo perduta nel rovinoso incendio del 1964 è il San Martino che taglia il mantello per il povero(fig. 4), di cui ci rimane tristemente solo una foto, nella quale possiamo apprezzare un significativo brano di paesaggio con un frondoso albero che domina la scena. 

Il quadro dovette probabilmente sostituire un’opera precedente,  poiché  è citata nella Relationes del 1649 la quale afferma: “altra più elegante e nell’aspetto bellissima del beato Martino qui stando a cavallo, aggiungemmo”. 
Il santo appare nelle vesti di un raffinatissimo giovane con largo cappello piumato, concreto ritratto della classe privilegiata del tempo. 
Il San Martino di Pozzuoli, inopinatamente sfuggito all’esame degli storici dell’arte, sembra essere ancora lontano da altri più illustri modelli e mostra una viva personalità, un impianto ancora libero ed arioso, a differenza del compassato Carlo di Tocco, già pienamente ingabbiato dal modello stanzionesco. 
Esso rappresenta un modello dal quale l’artista derivò il più celebre Ritratto equestre di Carlo di Tocco, eseguito dopo il 1642 e conservato nella quadreria del Pio Monte della Misericordia. Il cavallo che compare nel San Martino è lo stesso presente nel Martirio di San Sebastiano di collezione della Ragione con le narici dilatate e sbuffanti.
Un dipinto collegato al San Martino è il Ritratto equestre di Carlo di Tocco(fig. 5 ), assegnato al Beltrano dal Causa e conservato nella quadreria del Pio Monte della Misericordia, donato da Donna Maria Sofia Capece Galeota della Regina. Esso, per la precisione fisiognomica del personaggio raffigurato, va inquadrato nel panorama della ritrattistica napoletana del Seicento, che le fonti riferiscono molto ampio, ma che purtroppo è giunto a noi con pochi esemplari.

Per il grande formato e per la particolare iconografia non  si contano molti esempi nella pittura italiana dell’epoca ed i referenti più illustri vanno ricercati nella coeva produzione spagnola.
Per trovare un termine di paragone nel panorama artistico napoletano, il Causa cita un Ritratto equestre attribuito a Massimo Stanzione e conservato a Madrid nell’Istituto di Valencia de don Juan, raffigurante Don Inigo Lopez de Guevara, viceré di Napoli dal 1648 al 1653, già citato dal Perez Sanchez nel suo importante riepilogo sulla pittura italiana del XVII secolo, pubblicato nel 1965.
Un altra fonte ispirativa può essere stato il Ritratto equestre di don Juan Josè d’Austria, eseguito dal Ribera e conservato nel Palazzo Reale di Madrid.
Nella tela, oltre ad un imprintig stazionesco, per quanto legnoso, si apprezzano spiccati segni di naturalismo, che lo avvicinano ai modi pittorici del Falcone.
Carlo di Tocco possedeva una sfilza di titoli nobiliari da fare invidia al principe De Curtis(in arte Totò): duca di Sicignano, conte di Montaperto, principe di Montemiletto, decano del Consiglio collaterale e tanti altri ancora, ma soltanto nel 1642 gli venne attribuito dal Duca di Medina las Torres il Toson d’oro, del quale si fregia nella tela, per cui quella data rappresenta il termine post quem per l’esecuzione del ritratto.
La Madonna delle anime del Purgatorio(fig. 6), conservata nell’eponima chiesa di Nola, è una delle opere meno studiate del Beltrano, nonostante documentata con precisione agli anni 1646 – 47 da due polizze di pagamento pubblicate dal Rizzo.


Il tema iconografico è molto diffuso a Napoli, dove tra vivi e morti esiste un filo sottile e dove messe di suffragio in gran quantità vengono  fatte celebrare dai parenti dei defunti per accorciare la permanenza in un luogo di pene moderate…
Il referente per il lavoro di Agostino è senza dubbio la celebre pala(fig. 6 bis) eseguita da Massimo Stanzione per l’altar maggiore della chiesa napoletana del Purgatorio ad Arco, sulla cui data di esecuzione non vi è accordo tra gli studiosi, anche se viene generalmente collocata a metà degli anni Trenta.
La tela sembra un riepilogo della scuola del divino cavaliere, con i volti pacecchiani e la Madonna che sembra eseguita dal Marullo, con il suo caratteristico cono d’ombra sulla guancia sinistra ed il Bambinello che punta imperioso le tre dita della mano. Ma la scoperta più stupefacente è stata la scoperta che ho fatto dell’autoritratto del pittore(006 tris)nella parte bassa della tela; è bastato ingrandire l’immagine e confrontarla con le sembianze tramandataci dal Giannone  e con quelle presenti(fig. 006 quater) nell’affresco di San Nicola comunica i fedeli nella Pietà dei Turchini.



Nel 1649 il Beltrano realizza due grosse tele di diverse dimensioni per la chiesa di S. Maria del popolo agli Incurabili raffiguranti l’Incoronazione della Vergine, entrambe firmate e datate. Non piacquero alla Novelli, che nel suo fondamentale articolo sull’artista le definì brutte, in verità, dopo il  recente restauro di una(fig. 7) delle due, il giudizio appare inutilmente severo.
Esse ci permettono di riconoscere nell’affresco(fig. 7bis) in S. Maria la Nova la decorazione del Beltrano che si credeva perduta, anche tenendo conto del particolare della testa del Padre eterno(fig. 7 tris) che ci rammenta a viva voce analoghe teste dipinte dal pittore ed infine di riconoscere la piena autografia del Nostro, come collaboratore di Stanzione in uno(fig. 7 quater) dei 15 rametti che circondano la Madonna del Rosario nella cappella Cacace in San Lorenzo Maggiore.
La pala, rigorosamente stanzionesca, risponde a quelle esigenze di spettacolarizzazione della sacralità tanto sentite dal pubblico dell’epoca. Come su di un palcoscenico si agitano mimi e teatranti, folletti fuoriusciti da un drappo nero, così
da una nuvola minacciosa sgorgano un nugolo di candidi angioletti, mentre la bianca colomba assiste dall’alto alla cerimonia dell’incoronazione. 
Una fastosa macchina teatrale concepita per catturare lo sguardo del fedele e per captarne la benevolenza emotiva.




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