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mercoledì 21 marzo 2012

Francesco Solimena e la sua produzione seicentesca

24/12/2007
Un grande artista a cavallo di due secoli

Francesco Solimena (Canale di Serino 1657 - Napoli 1747) è l’ultima grande figura di artista della seconda metà del Seicento. La sua attività si lascia alle spalle il secolo d’oro, creando un nuovo linguaggio su cui si moduleranno i pittori del Settecento, nel quale egli protruderà vigorosamente fino al 1747, esercitando, senza quasi mai lasciare Napoli, una notevole influenza su tutta la pittura europea.
Nella sua ricercatissima bottega si alternarono varie generazioni di allievi, di prima, seconda e terza battuta ed inoltre si creò una amplissima cerchia di imitatori che ricopiarono e divulgarono dappertutto le sue complesse creazioni enfatiche accese di colori e di luci, dove si affollano vivacissimi episodi e figure.

Egli ci lascia una vastissima produzione, che non ha eguali per quantità ed estensione se non in quella del Giordano, pur volendo espungere da essa le opere non autografe e le numerose copie, spesso eseguite con la sua supervisione e parziale collaborazione. Di conseguenza ancora oggi, nonostante il progredire degli studi, è molto labile il confine tra una buona copia e l’originale, per cui spesso opere degli allievi più bravi vengono confuse, soprattutto nel mercato antiquariale, con tele del maestro.


Il primo apprendistato Francesco lo svolge in provincia, nella bottega del padre Angelo, modesto pittore di recente rivalutato dalla critica ed a sua volta allievo del Guarino.
Il suo imprinting risente delle suggestioni guariniane del naturalismo meridionale, che gli faranno da bussola quando giovanissimo verrà a Napoli nel 1674 dove, imperando Giordano e la sua maniera, studierà inizialmente nell’accademia privata di Francesco Di Maria, che ben presto abbandonerà.
Nei lavori giovanili i suoi punti di riferimento culturali saranno costituiti dalle proposte barocche avanzate dal Cortona, dal Lanfranco, dal Preti e dal Giordano.
Le sue prime tele sono spesso a quattro mani con il padre Angelo, come la Visione di San Cirillo di Alessandria o gli affreschi della cupola del duomo di Nocera Inferiore, dove alacremente attinge alle fonti illusionistiche lanfranchiane.


La sua formazione lievita lentamente, nutrendosi ai germoglianti succhi della tradizione figurativa napoletana, che costituiranno il pabulum ideale per il suo ingegno precocissimo, il quale, una volta sbocciato, gli permetterà di gareggiare con Luca Giordano, l’incontrastato dominatore di quegli anni. La sua genialità darà luogo ad uno stile originale in possesso di grande vitalità e potente forza di espansione.
Francesco raggiunge la sua piena maturità e la completa autonomia nel 1680, quando realizza gli affreschi nella chiesa di San Giorgio a Salerno con Storie delle Sante Tecla, Archelaa e Susanna, dando prova di una precisa ed originale individualità nell’ambito del più luminoso e fecondo barocco.


Con gli affreschi salernitani il Solimena conclude la sua prima fase, fatta di sperimentazioni, per assurgere ad uno stile personale, in cui composizioni monumentali, scandite con enfasi severa, con un più potente senso chiaroscurale e rinvigorita plasticità, attestano la ricerca di un delicato equilibrio tra la forza della tradizione e le sollecitazioni innovatrici di una cultura figurativa più moderna.
Tale fase creativa durerà alcuni anni e sarà caratterizzata da altri esiti esemplari, come le due pale di San Nicola alla Carità e gli affreschi di Santa Maria Donna Regina Nuova, datati al 1684. Egli delineò «un proprio sistema linguistico, indirizzato ad un costante recupero delle immagini in una salda metrica costruttiva, che si collocava in alternativa alle animate composizioni e alla dissolvenza formale e luministica del Giordano» (Maietta).
Sono gli anni in cui si chiariscono gli elementi sintattici della sua espressività, nella quale il retaggio naturalistico si prospetta su nuove visuali, scaturite da una proficua rimeditazione del lumeggiato e della violenza plastica pretiana felicemente coniugata alle arditezze prospettiche ed illusionistiche del Lanfranco.
Ed ecco configurarsi la novità del linguaggio solimenesco sviluppato attraverso una tracimazione che diventa aperta polemica. Rinnovare la tradizione «evitando l’apparente dispersione della forma quale poteva essere suggerita dalla più libera interpretazione della luce, approfondendo invece i principi di una costruzione tutta controllata al vaglio di una corretta metrica dei volumi» (Causa).


Lo stile del Solimena sboccia lentamente dal confluire di queste diverse matrici risolte con una felice sintesi «antichizzante», che preleva la luce vaporosa e brulicante di colori dal Giordano, gli scorci dei sotto in su dal Preti, mentre le vigorose figure che animano le sue composizioni sono debitrici alla tradizione cinquecentesca, quanto ai naturalisti di inizio Seicento.
I soggetti del Solimena di questo periodo sono unicamente religiosi e questa particolare iconografia risentiva degli indirizzi scaturiti dalla riforma teresiana ed alcantarina, che in ambito napoletano sfoceranno nell’accoglimento delle istanze moralistiche del quietismo.
Nel delineare immagini di santi il Solimena adotta un procedimento sostanzialmente diverso da quello in auge nel periodo barocco, evitando le apparizioni miracolistiche ad effetto scaturite da un impeto visionario «bensì disponendo le immagini stesse entro una ferma e calibrata struttura compositiva, immerse in una luminosità che singolarmente le definisce e le individua, onde esse vengono quietamente offerte alla pratica devota della meditazione e dell’esercizio spirituale» (Ferrari).
E questa intenzione radicalmente diversa di una pittura parca di accenti esornativi differenzierà i suoi modi pittorici non solo nei riguardi del Barocco, ma anche verso il Classicismo e le altre maniere del secolo.
La sua concezione dell’eredità del passato come memoria storica da preservare è quanto mai moderna e dinamica con un felice contemperamento tra antico e nuovo, tra presente e passato.
Tra gli affreschi che maggiormente colpirono la fantasia dei contemporanei, meritano di essere ricordati quelli della cupola e dei pennacchi della chiesa di Donnalbina. Essi furono considerati autentici capolavori e divennero per i pittori del Settecento esemplari. Essi sono il portato di una straordinaria sintesi costruttiva di luci e d’ombra, che nelle ampie stesure dell’affresco crea forme di straordinaria nobiltà, conducendo ad esiti precorritori della grande arte di Giovan Battista Tiepolo.


Viceversa nella serie delle sei grandi tele del presbiterio della stessa chiesa, raffiguranti scene della vita di Gesù e che sono state eseguite successivamente, il suo temperamento eclettico gli fece toccare soluzioni di alto linguaggio e di solenne monumentalità, già pervase da un soffio di elegante marattismo.
Il culmine del processo di impreziosimento stilistico fu raggiunto dal Solimena nei grandiosi affreschi siti nella sacrestia della chiesa di San Paolo Maggiore, dove il cromatismo giordanesco viene esaltato in iridescenti gorghi di luce.
Il De Dominici salutò le sue decorazioni come l’avvenimento di maggior rilievo nell’ambito delle arti figurative che avesse interessato Napoli sul finire del secolo, e vide in quelle stupende cascate di luce un superamento della stessa lezione giordanesca.
Nella grandiosa basilica teatina il sommo artista lavorò su due opposte pareti firmando e datando, 1689 e 1690, le due grandi imprese, raffiguranti la Caduta di Simon mago e la Conversione di San Paolo, le quali ci forniscono una portentosa esibizione in chiaro dei suoi modi pittorici.


Il Solimena, in palese rivalità con l’anziano Giordano, volle, superando la sua pittura visionaria e fantastica, inquadrare l’incalzante resa dinamica dell’evento fissandola al culmine della tensione drammatica.
Negli ultimi dieci anni del secolo il Solimena accentua la sua attenzione nei riguardi della pittura tenebrosa di Mattia Preti, restituendo alle immagini maggiore saldezza e plasticità; nello stesso tempo subisce l’influsso del classicismo del Maratta. I suoi modi pittorici vengono marcati da un più sereno equilibrio, senza perdere di vista quelle aperture di aereo luminismo ereditate dal Giordano.
La formulazione di un suo linguaggio originale con relative declinazioni sotto l’influsso della tavolozza scura del Preti diede luogo a quella definizione, di carattere elogiativo, di «Cavalier calabrese nobilitato».
Tra le tele di questo decennio va ricordata la piccola pala raffigurante il Miracolo di San Giovanni di Dio per l’ospedale della Pace, oggi al museo civico, nella quale con «largo empito drammatico la tensione viene fatta defluire lungo le diagonali delineando un calcolatissimo percorso visivo» (Ferrari), seguita nel 1693 dal San Francesco rinunzia al sacerdozio per la chiesa di Santa Maria Donna Regina, marcato dal defluire dei medesimi nessi sintattici.
Ed infine, a chiudere il secolo, il Solimena esegue sei tele per il presbiterio della chiesa di Donnalbina, dove tra il 1692 ed il ’95, in coincidenza con la partenza del Giordano per la Spagna, aveva affrescato la cupola con decorazioni oggi quasi completamente perdute che furono definite dal De Dominici un grande poema eroico.
Nelle tele prima menzionate, raffiguranti episodi della vita di Gesù, il Solimena dà prova di eleganza formale ed ampiezza monumentale di vasto respiro, che già precorre il linguaggio del nuovo secolo, pur senza trascurare l’aspetto cromatico molto ricercato nella scelta tonale dai giallo bruni ai marroni cupi. Il mutamento di gusto ed il recupero della lezione tenebrista del Preti trovarono in parte giustificazione anche nelle tumultuose vicende storiche di quegli anni, nei quali il regno di Napoli fu impegnato a prestare aiuto alle truppe spagnole nella guerra contro Luigi XIV. Sulle decisioni stilistiche del pittore importanza non trascurabile ebbe pure il parere del cardinale Orsini, il futuro Benedetto XIII. L’alto prelato, amico da sempre e protettore non solo di Francesco, ma anche del padre Angelo, contrastava le scelte pittoriche del suo pupillo, spesso sollecito al richiamo del suo latente naturalismo o alla potente sirena del giordanismo e della famigerata «libertà di coscienza». 


Viceversa il cardinale esortava l’artista ad aderire ai più tranquilli equilibri propugnati dal movimento letterario dell’Arcadia, che rifletteva gli orientamenti sempre più decisamente cartesiani di alcuni qualificati settori dell’ambiente culturale napoletano di fine secolo, traducendosi in pittura in suggestioni classicistiche sugli esempi di Carlo Maratta.
Il Solimena continuerà ancora a dipingere senza sosta nel Settecento per quasi cinquant’anni, qualificandosi, assieme al Giordano, come il più grande pittore napoletano di tutti i tempi, ma seguire le sue gesta sarà l'argomento di un nostro prossimo contributo.



Foto di Dante Caporali

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