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lunedì 19 marzo 2012

Andrea Vaccaro un grande talento sprecato

24/10/2007


Alterne fortune ha incontrato l’opera di Andrea Vaccaro presso la critica: artista di successo in vita, principalmente negli anni tra la morte di Stanzione e l’avvio del giovane Giordano, ricercato da una committenza religiosa, a cui dispensa pale d’altare dal rigoroso e severo impianto pietistico e da una clientela laica che sapeva ben apprezzare le sue mezze figure di sante avvolte da una intrigante e palpabile sensualità, lodato dal De Dominici, nell’Ottocento la sua stella si eclissa per risorgere prepotentemente alla ribalta degli studi ai principi di questo secolo, raggiungendo una quotazione sempre molto alta come si evince anche dai confortanti risultati ottenuti dai suoi dipinti migliori nelle aste internazionali.
Secondo la tradizione fu avviato dal padre agli studi letterari, ma fu ben presto folgorato dal demone della pittura. Il suo apprendistato non avvenne, come a lungo ha creduto la critica, presso Girolamo Imparato, pittore manierista deceduto nel 1607, quando il Nostro aveva appena 3 anni, bensì, come ci segnala un documento identificato di recente da Delfino nell’Archivio storico del Banco di Napoli, presso la bottega di Tommaso Passaro, oscuro pittore, di orbita santafediana, ma abile copista delle opere di Caravaggio e Ribera, dal quale con tutta probabilità il Vaccaro derivò la sua grande abilità di falsario che ci viene tramandata dal De Dominici.
Il biografo settecentesco nutriva grande stima del Vaccaro e ci racconta che Raimondo De Dominici, suo padre, acquistate dieci tele del Vaccaro, le vendette a Malta ad un cavaliere francese spacciandole per opere del Caravaggio, senza alcuno scrupolo di coscienza poiché dichiarava che "il valore del Vaccaro non è punto inferiore a quello dell’Amerigi".
Tra i suoi primi lavori vi è la copia, famosissima, della Flagellazione di Caravaggio, attualmente a San Domenico Maggiore, sede primaria della tela del Merisi oggi a Capodimonte, nella quale, pur con decorosa modestia, sfida il confronto diretto con l’originale, uscendone sconfitto principalmente nella cura del chiaro scuro applicato con rigidezza quasi scolastica. Tutta la sua prima fase è nell’orbita della pittura naturalistica, alla quale egli si accosta già nel corso degli anni Venti in un’accezione battistelliana, applicando sistematicamente un chiaroscuro monocromo, senza trascurare uno sguardo ai maestri più antichi dal Sellitto al Vitale.
La sua prima opera documentata è del 1621, una Madonna di Costantinopoli eseguita per la chiesa della Trinità delle Monache; del 1636 è viceversa la famosa Maddalena del coro dei Conversi della Certosa di San Martino. Altre opere giovanili da prendere in esame sono lo splendido San Sebastiano del museo di Capodimonte, dai toni cupi e dal solido impianto compositivo ed il Calvario della Trinità dei Pellegrini.
Dal 1636, scomparso Battistello dalla scena, si accentua a Napoli quel movimento culturale in cui si avrà la prevalenza del cromatismo sul luminismo, indicato dalla critica come movimento vandyckiano e che avrà tra i suoi esponenti il Vaccaro, il quale in «un compromesso di aulici moduli bolognesi» si farà «volgarizzatore del Reni nel carnoso e patetico dialetto partenopeo» e si farà fautore di una «sintesi del luminismo battistelliano e della classica formula stanzionesca» (Ortolani).
Nascerà così uno stile inconfondibile ed una formula di grande successo che gli permise più di una volta di toccare le note alte della buona pittura.
I suoi personaggi dal volto sereno non sono agitati dalle passioni e sono rappresentati da colori chiari, fermi e delineati, che pacatamente sfumano nel buio dello sfondo.
La qualità della sua produzione è discontinua come in Luca Giordano che notoriamente adoperava "pennelli diversi" a seconda della retribuzione percepita.
Egli, per la pacatezza del suo linguaggio che ne faceva uno degli interpreti più attivi della perdurante fase controriformistica, è richiestissimo dalla committenza ecclesiastica, che esige in gran copia cone d’altare non solo a Napoli, ma anche in provincia e su tutto il territorio del viceregno.
Per la clientela laica sia napoletana che spagnola egli, in una tavolozza monotona con facili accordi di bruni e di rossicci, crea scene bibliche e mitologiche e le sue celebri mezze figure di donne nelle quali persegue un’ideale femminile di sensualità latente e dove raggiunge i suoi toni più elevati nel ritratto di Annella De Rosa, giudicato anche dall’Ortolani, che non aveva di lui una grande opinione, come il suo capolavoro.
Il Vaccaro diviene il pittore della "quotidianità appagante, tranquilla, a volte accattivante, in grado di soddisfare le esigenze di una classe paga della propria condizione, attenta al decoro, poco incline a lasciarsi coinvolgere in stilemi, filosofici letterari, o mode repentine, misurato nel disegno, intonato nei colori, consolante nell’illustrazione; Andrea ottenne il suo maggior indice di gradimento in quella fascia della società spagnola più austera e di consolidate opinioni e per converso in quelle napoletane di pari stato ed inclinazione" (De Vito).
Il periodo più felice nella produzione del Vaccaro fu il decennio dal 1635 al 1645 in cui fu in stretta simbiosi col più giovane Bernardo Cavallino che gli trasmise in parte la sua raffinata cultura.
Tra gli esempi più importanti di "prelievi" dai modi cavalliniani vanno ricordati il Transito di San Giuseppe della chiesa del Purgatorio ad Arco, Erminia fra i pastori e Abramo e i tre angeli di collezione privata napoletana.
I due pittori scoprirono assieme il Reni sotto l’egida dello Stanzione ed ampliarono il loro bagaglio di esperienze con un nuovo modo di operare attraverso una delicata scelta dei toni e dei colori. Il Vaccaro in particolare "raggentilisce e pittoricizza le sue forme accogliendole con nuovo garbo in scene per lo più profane e narrative" (Ortolani).
Sintomatico della collaborazione tra i due pittori alla fine degli anni Quaranta è il ciclo biblico di raffinati rametti, ab antiquo nella stessa collezione in Spagna, oggi disperso tra i musei di Mosca, Fort Worth e Malibù, nel quale il quarto rame della serie, il Giona che predica a Ninive, opera di Andrea Vaccaro a dimostrazione di una comune commissione ed a conferma delle parole del De Dominici, che descriveva i due artisti spesso impegnati nell’espletamento di importanti commissioni.
Negli anni successivi il Vaccaro alterna importanti pale d’altare a dipinti profani i quali ottengono un grande successo commerciale in Spagna, trasformando il Nostro nel pittore più "esportato", circostanza che meravigliava grandemente il Causa, il quale, pur riconoscendogli un "talentaccio", non lo riteneva un grande artista.
Tra i suoi dipinti "laici", alcuni, di elevata qualità, sembrano animati da un’agitazione barocca che raggiunge talune volte un coro da melodramma.
Nell’ambito della produzione ecclesiastica da ricordare: Madonna e Santi della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, le Storie di Sant’Ugo del museo di San Martino e le tele di Santa Maria del Pianto, ove riuscì ad ottenere una collocazione migliore del Giordano.
Le sue sante, martiri o non, in sofferenza o in estasi che siano, sono donne vive, senza odore di sacrestia, a volte perfino provocanti nel turgore delle forme e nell’espressione di attesa non solo di sposalizio mistico, «col bel girare degli occhi al cielo» (De Dominici) e con le splendide mani dalle dita affusolate a ricoprire i ridondanti seni.
Il Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante che fossero, pervase da una vena di sottile erotismo, d’epidermide dorata, dai capelli bruni o biondi, di una carnalità desiderabile sulle cui forme egli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a stuzzicare e lusingare il gusto dei committenti, più sensibili a piacevolezze di soggetto, che a recepire il messaggio devozionale che ne era alla base.
Dopo aver girato e rigirato attorno a tematiche chiaroscurali di derivazione caravaggesca, senza sentirle profondamente e dopo aver assimilato dal plasticismo riberiano quanto gli era necessario per modificare il suo stile pittorico, nel pieno della sua attività si ispirò ai modi pittorici di Guido Reni, da cui derivò, oltre al piacere delle immagini dolciastre, anche la padronanza di schemi compositivi di sicuro successo.
Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, di lusinghiere nudità, che gli servirono a fornire mezze figure di sante martiri a dovizia tutte piacevoli da guardare, percepite con un’affettuosa partecipazione terrena, velata da una punta di erotismo, con i loro capelli d’oro luccicanti, con le morbide mani carnose e affusolate nelle dita, con le loro vesti blu scollate, tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma desiderabile. I volti velati da una sottile malinconia e con un caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungono qualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate con amore e compiacimento.
Nel 1666 il Vaccaro partecipò alla fondazione della Accademia dei pittori, una corporazione dislocata nella chiesa di San Giovanni Maggiore delle Monache, di cui fu il primo prefetto per 2 anni, avendo a latere Luca Giordano e Francesco De Maria. A tale neonata consorteria egli donò un San Luca che ritrae la Madonna in cui è palpabile una sorta di sottile autocelebrazione "che nella figura dell’evangelista pittore mostra una scioltezza di tocco, una vivacità di espressione e di colori in linea coi tempi" (De Vito).
La sua folta produzione richiestissima anche in Puglia e in Sicilia diviene col tempo sempre più scontata, rendendosi via via inattuale e meramente descrittiva; nell’ultimo decennio egli si rifugia spesso in angusti spazi tematici e figurativi, ripetitive le immagini, limitati i contrasti di colore con una tavolozza che vira monotonamente sui bruni e sui marroni.
Egli dà l’impressione di utilizzare schemi acquisiti, di grande successo commerciale, amministrando con parsimonia un grande capitale di esperienza acquisita negli anni.
In definitiva il Vaccaro, per un certo numero di opere, anche se non per tutta la produzione, deve essere considerato un pittore di rilievo (il Causa gli riconosceva almeno un quarto di nobiltà artistica), il più noto in vita per ricchezza di produzione, moltiplicarsi di firme e semplicità nel variare il proprio stile al mutare della moda.
Un artista facilmente riconoscibile, anche se molto versato nelle "copie alla maniera di", fino a spingersi alle falsificazioni, più abile di un Giordano in vena di "esercitazioni".
La sua produzione molto disuguale copre un arco di tempo molto ampio, perché fu uno dei pochi scampati alla peste e poté lavorare a lungo anche al fianco dei pittori della nuova generazione.
Le sue opere ed alcune sue tele non finite furono proseguite da suo figlio Nicola, anche egli valido pittore, abile nei quadri a figure piccole narranti fiabe e baccanali.

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