Pagine

martedì 8 aprile 2025

Una eccezionale visita guidata



Amici esultate, nonostante le mie precarie condizioni di salute, ho organizzato una spettacolare visita guidata alla collezione De Vito, ricca di 35 dipinti del Seicento napoletano, che si terrà sabato 12 aprile, alle ore 15:00 nel museo di Donnaregina nuova. Vi consiglio di consultare un mio scritto sull'argomento, ricco di foto e filmati, che troverete sul mio blog www.dellaragione.eu

All'ingresso chi si qualifica per mio amico avrà uno sconto del 50 per cento.

Gradirei che chi conta di venire, me lo comunica alla mia mail     achilledellaragione@gmail.com

Diffondete la notizia ad amici, parenti, collaterali ed affini

Achille della Ragione

lunedì 7 aprile 2025

Roberto De Simone ci ha lasciato



Roberto De Simone, a soli 91 anni, è volato in cielo. Vogliamo ricordarlo con un capitolo che gli dedicai nel mio libro: "Quei napoletani da ricordare".

 


Un grande genio «compreso»

Musicista, musicologo, regista, etnologo, uomo di teatro, riscopritore dell’enorme patrimonio dell’opera buffa e della musica folcloristica; un vulcano inarrestabile dotato di una vastissima cultura e di una fervida fantasia, che gli consente di portare avanti un discorso teatrale legato alle matrici più profonde e complesse della cultura napoletana senza mai cadere nell’erudizione o nella rievocazione archeologica. Questo è Roberto De Simone napoletano insigne nato nel 1933 in una vecchia casa della Pignasecca.

Il maestro non è soltanto figlio d’arte, bensì anche nipote, pronipote, lontano discendente di artisti sia dal lato paterno che materno, che hanno abituato sin da piccolo Roberto a masticare una grande varietà di linguaggi teatrali, facendogli respirare sin da bambino un’atmosfera artistica.

Il nonno lavorava nel teatro con la compagnia di De Muto e nel cinema ne «L’oro di Napoli» e nell’«Arcidiavolo», la nonna cantava le operette più in voga negli anni Venti, zia Marietta ammaliava il pubblico del Bellini con le arie di «Carmen» e del «Trovatore» mentre il papà di Roberto, Attilio, oltre che attore è stato suggeritore di professione.

Dal lato materno l’inclinazione è tutta per la musica classica. Uno zio suonava nell’orchestra del San Carlo il violoncello, mentre la cugina Laura studiava pianoforte e cantava e sarà proprio lei a dare le prime lezioni al maestro, all’età di otto anni. In seguito studierà con la maestra Tita Parisi che lo accoglie in Conservatorio e lo ricorda come «un allievo magnifico, un musicista nato, studioso ed intelligente».

Lo studio del pianoforte è per un po’ interrotto durante la guerra, perché la famiglia De Simone padre, madre e sei figli, tre maschi e tre femmine, deve sfollare per alcuni mesi prima ad Ariano Irpino e poi a Somma Vesuviana.

Tornato a Napoli ricomincia a frequentare il Conservatorio al quale negli anni affiancherà gli studi al liceo classico preparandosi da privatista e sostenendo gli esami al Vittorio Emanuele ed al Genovesi.

Le giornate scorrono tutte eguali: studio ed esercitazioni, esercitazioni e studio. Unica distrazione qualche passeggiata a piedi per il centro antico della città prospiciente il Conservatorio di San Pietro a Majella. Molte ore a frequentare la famosa biblioteca della scuola con un amore per la ricerca che non verrà meno negli anni a seguire.

A 14 anni debutta in pubblico eseguendo il concerto in re minore di Mozart alla Sala Scarlatti, ottenendo un lusinghiero successo e la prima recensione da parte del critico Achille Longo.

Nel 1956 esce diplomato dal Conservatorio con il voto più alto in pianoforte: un brillantissimo dieci e lode, rarissimo a quei tempi. Sembrava più che spianata una grande carriera di concertista, ma l’inattesa scomparsa del padre a soli 46 anni, costrinse il giovane De Simone a cercarsi un lavoro. Ed i lavori nei primi mesi saranno molti: compone la colonna sonora di lavori radiofonici, impartisce lezioni private, suona più di uno strumento nella Scarlatti ed addirittura lo vediamo in via Acton in un club per americani interpretare brani di Gershwin e Cole Porter o partecipare come organista alla trasmissione televisiva «Senza Rete». Durante questi anni appena il lavoro gli lascia un po’ di tempo libero intraprende un’affascinante serie di viaggi nella cultura popolare meridionale. Da ognuno di questi viaggi torna sempre, oltre che arricchito nello spirito, con la borsa zeppa di materiale di studio. Cominciano a svilupparsi le sue numerose collezioni che affollano oltre misura la sua casa: strumenti musicali, pastori del presepe, statuine delle anime del purgatorio, libri esoterici. E su tutto questo materiale studia, legge e scrive per ore e ore interrompendo soltanto per passare alla tastiera del pianoforte; una vita da certosino, da sgobbone, facilitata dalla scarsa necessità di dormire.

Gira in lungo e in largo per la campagne del meridione, affascinato dalle favole dei contadini, dalle antiche parlate dei cafoni.

Approfondisce le opere di De Martino e gli studi antropologici di Carpitella; raggiunge i paesini più sperduti e prende appunti su tutto: canti, favole, preghiere, duetti, cantilene, proverbi, dicerie popolari. Compie un viaggio straordinario nel linguaggio sotterraneo della gestualità e della ritualità pagana, che, scopre, come Levi, essere la religione che pregna la vita delle campagne meridionali. Il risultato di queste continue esplorazioni è un’immensa documentazione e raccolta di dati e materiale, che negli anni seguenti si concretizza in incisioni, opuscoli e cofanetti. Tali incessanti peregrinazioni sono anche la spina di uno stile di vita che non cambierà più nel futuro del maestro e gli farà sempre prediligere il contatto con le tradizioni popolari attraverso le persone. Egli scopre che il luogo dove si agisce è sempre il centro dell’azione, ove si assiste alla ritualizzazione della vita. Si appassiona al problema della follia e prende in esame come essa venga considerata nelle antiche culture e tradizioni e quale enorme potere catartico essa possegga. Scopre che il folle spesso è anche saggio, possiede virtù ordinatrici e nello stesso tempo dirompenti, operando con la sua pazzia, a volte lucida, ampi varchi nelle certezze del prossimo da cui spesso è perseguitato con grande collera.

Esamina alcune grandi feste popolari quali le antiche celebrazioni del Carnevale, in cui la follia viene rappresentata come un rovesciamento della condizione normale, in cui la comunità assurge ad un rituale liberatorio collettivo, o la tradizionale festa di Piedigrotta di Napoli che fino a pochi anni fa veniva vissuta con grande partecipazione da quasi tutta la popolazione e che si manifestava con mascheramenti, con danze violente e con una serie di atteggiamenti e di manifestazioni trasgressive in cui la violenza però non si esprimeva in aggressioni verso la comunità o all’esterno della stessa, ma veniva scaricata all’interno di un gioco con profondi affetti catartici come nei riti cibelici di ispirazione pagana da cui derivava.

E giungiamo alla metà degli anni Sessanta quando attraverso l’incontro che De Simone ha con Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò e Giovanni Mariniello si viene a creare il nucleo storico della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Il gruppo comincia ad approfondire il repertorio campano di musiche antiche ed ai tre si aggiungono ben presto Beppe Barra e Fausta Vetere.

Tutte le sere si prova nella casa del maestro, si fanno i primi spettacoli all’Instabile dove un giorno va a vederli Eduardo De Filippo, il quale entusiasta della loro carica vitale li segnala a Romolo Valli che li invita al Festival di Spoleto nel 1972 dove la NCCP ottenne un lusinghiero successo ripetuto nel 1974 sullo stesso palcoscenico con la «Canzone di Zeza» e con la «Cantata dei Pastori» al teatro San Ferdinando di Napoli.

La Nuova Compagnia di Canto Popolare si proponeva, in una società che tutto consuma vorticosamente e non ha memoria del passato, neanche di quello recente, di riprodurre filologicamente, confrontandosi con linguaggi diversi, delle espressioni musicali di tempi lontani, rendendole comprensibili a chi vive oggi e le ha dimenticate.

Dopo queste esperienze De Simone approda al teatro musicale, forma espressiva che usa tutto, che mescola linguaggi, tecniche, che confonde le carte, che gioca, si diverte, canta, balla, ride, scherza, infrange convenzioni, suggerisce lacrime, suppone angosce. Un’espressione brutale, un’esperienza interiore che si proietta in gioco, in rito, in festa, oppure un gioco, una festa che proietta sulla scena l’esperienza interiore di ciascuno.

Ed è in questo periodo di attività frenetica che nasce il capolavoro del maestro «La Gatta Cenerentola», un’opera nella quale l’autore si collega in parte al teatro antico e in parte a quello settecentesco. De Simone sceglie una favola perché è così più facile fornire elementi ritualizzanti alla gestualità dell’attore il quale può assegnare un significato alla rappresentazione, spingendo in alcuni casi la stessa rappresentazione fino alla più delirante fantasia. Nel 2° e nel 3° atto vi è la ricerca e l’incontro tra mondo maschile e mondo femminile vista con l’occhio della cultura mediterranea. Alcune scene come «Il canto delle lavandaie» hanno una forza e sprizzano un’energia travolgente che entusiasmano il pubblico in maniera totale.

L’opera presentata per la prima volta a Spoleto nel 1976 è stata replicata all’infinito raccogliendo sempre un successo travolgente di critica e di pubblico.

La Gatta cenerentola è un’opera lontana dal gusto napoletano ancorato ai lavori di Viviani e di Scarpetta nei quali la comicità è dovuta ad una visione distorta del mondo partenopeo prodotta dalla borghesia, dove però manca del tutto l’elaborazione del simbolo e della metafora teatrale.

Gli attori interpreti di questa opera spesso, pur essendo delle splendide «macchine teatrali» sono fini a se stessi e ripetono pedissequamente un modello culturale superato senza alcun addentellato con la realtà attuale.

De Simone più volte si lamenta che nell’allestimento di uno spettacolo teatrale mancano buoni attori per le parti minori oltre che buoni elettricisti e costumisti. Come pure mancano buoni macchinisti e direttori di scena, oppure attori che fanno una carriera di seconde parti. Oggi tutti vogliono fare i protagonisti, tutti vorrebbero essere il regista o il divo.

Dopo il 1979 De Simone mette in scena, con la collaborazione di Mico Galdieri una serie di opere tutte di grande successo dalla «Festa di Piedigrotta» di Viviani alle «Zite ’n galera» di Leonardo Vinci, dall’«Opera buffa del giovedì santo» al «Eden Teatro», da «Lucilla Costante» alla «Donna del bell’umore» una «Messa in memoria di Pasolini» uno straordinario omaggio al grande scrittore da poco scomparso, ed infine «Mistero Napoletano» che presentato anche all’estero ottiene anche nei teatri tedeschi con un pubblico «prussiano» un grande successo, segno che anche degli spettatori con una mentalità così diversa dalla nostra, possono essere presi e permeati da una storia così profondamente e arditamente napoletana.

Nel frattempo scrive, instancabile, numerosi saggi e collabora con Sergio Bruni nell’allestimento di una antologia della canzone napoletana.

Pur producendo divisioni e polemiche, De Simone nel suo campo non ha rivali e come giusto riconoscimento ha anche la nomina a direttore artistico del San Carlo. Seguirono numerose regie liriche con incursioni sempre più frequenti nel melodramma. Egli esplora in maniera esaustiva tutti gli autori del Settecento, tra i quali predilige Pergolesi. Confessa che sarebbe attirato dalla regia di grandi autori come Pirandello, Shakespeare o Brecht ma non sarebbe soddisfatto della sola prosa, essendo in lui troppo viva la dimensione ritmico sonora della lingua per poter prescindere dalla musica. In ogni caso studia a fondo la drammaturgia in quel periodo dibattuta tra tradizione e nuove tendenze.

Prepara nel centenario della sua nascita un omaggio a Viviani, ricavando dai suoi brani più corali un pannello sonoro poetico musicale intitolato «Carmina vivianea».

Cerca a lungo le radici del linguaggio di Pulcinella, studiando tutto ciò che si conosce sulla maschera di Acerra.

Dal pozzo senza fondo costituito dai cassetti e gli scaffali della sua biblioteca, piena di carteggi, pentagrammi cassette registrate e quaderni zeppi di appunti ricava una raccolta di commedie tutte inedite, scritte dal 1629 al 1724 giocate sul personaggio di Pulcinella.

Il lavorio intellettuale è incessante, la sua curiosità filologica lo fa muovere a meraviglia tra le commedie di Goldoni e gli scritti di Galilei, la storia del teatro comico napoletano di Altavilla, la topografia di Napoli di Capasso, l’intera raccolta di Cerlone, le opere di Tommaso e di Jung, ma egli non dimentica mai di essere un artista che vive nel suo tempo e che le indagini più importanti sono quelle sul linguaggio dei giovani di oggi, per capire come nasce un nuovo gergo come quello dei «paninari» e soprattutto quali sono i percorsi linguistici dei ragazzi che lo usano.

Nel 1990 una delusione gli viene dalla mancata nomina di direttore artistico del Mercadante, carica in cui per un gioco politico gli viene preferito Maurizio Scaparro. Il maestro da tempo stava lavorando alacremente ad un piano di rilancio del teatro, una struttura carica di gloria, ma ridotta allo sfascio per una cattiva gestione amministrativa.

Era perciò sicuro che quella carica spettasse a lui, ma pare che la guida del palcoscenico più prestigioso della Campania debba essere vietata agli esperti carismatici del settore. Per curiosità neanche Eduardo De Filippo riuscì mai, anche al colmo della gloria, a raggiungere la direzione dello «Stabile».

Nello stesso anno giungono però due grandi riconoscimenti: l’assegnazione del Premio Napoli come più illustre napoletano ed il trionfo alla Scala con Muti nella direzione del «Nabucco».

Nella regia del Nabucco, De Simone esegue una rilettura dell’opera in tono romantico medioevale facendo divenire vero protagonista dell’opera il rapporto tra gli uomini ed il Sovrumano, così che quando gli Dei si allontanano crollano gli imperi.

Per un impegno così importante, che per ogni uomo di spettacolo equivale ad una sorte di consacrazione, De Simone pensò di creare un quartetto di napoletani, volendo al suo fianco, oltre a Muti, gli amici di sempre Carosi autore delle scene e Odette Nicoletti ideatrice dei costumi.

Un grande impegno profuso nelle prove, con De Simone, presente sempre in ogni luogo, col pianoforte come punto di riferimento, suonando di continuo prima tutta l’opera e poi le parti dei protagonisti, dei comprimari, dei coristi e delle comparse, una per una a scaglioni, a ondate.

Dopo ogni successo teatrale Roberto tornava a studiare, studiare ancora studiare, in questo l’antico allievo del Conservatorio di San Pietro a Majella non si è mai smentito. Egli legge e scrive durante le ore del giorno, ma per comporre la musica predilige le ore notturne, perché vi è più tranquillità e col silenzio l’ispirazione e la concentrazione sono più intense e si possono percepire con più chiarezza voci che giungono da lontano e soprattutto voci che provengono dal passato o dalla propria coscienza.

E così, giorno dopo giorno, notte dopo notte, il maestro col suo ostinato lavoro e la sua ferrea determinazione produce sempre nuovi capolavori per la sua gioia e per la gloria di tutti i napoletani. 

  


 

venerdì 4 aprile 2025

Un capolavoro di Francesco Fracanzano

  

fig.1 - Francesco Fracanzano
 - San Pietro penitente - 70x95 -
 Caserta collezione privata

Il San Pietro penitente (fig.1-2)  di cui ci occuperemo in questo nostro breve saggio, appartenente ad una collezione casertana, fa parte della maggiore produzione di Francesco Fracanzano: la rappresentazione di mezze figure di santi e filosofi, investigati con crudo realismo, una moda nata nella bottega del Ribera a Napoli ed affermatasi poi anche in provincia grazie ai suoi discepoli, tra i quali, si annovera anche il grande Luca Giordano, che più volte ritornerà sul tema nel corso della sua lunga carriera, dilatando oltre misura la sua fase  riberesca, identificata erroneamente dalla critica con un periodo unicamente giovanile. Tra i più convinti seguaci del valenzano si distingue Francesco Fracanzano, il quale nel 1622, dalla natia Monopoli, si trasferisce con la famiglia nella capitale, entrando giovanissimo nell’ambiente artistico partenopeo, grazie anche al matrimonio, celebrato nel 1632, con la sorella di Salvator Rosa. Lavorando con il Ribera ne recepì la stessa predilezione per la corposità della materia pittorica e ripropose spesso i soggetti più richiesti dalla committenza.   

Nel volto del santo trasuda  una massa pittorica levigata, più morbidamente plasmata e vibrante di vita. Qualche indulgenza ad un gusto manieristico più abboccato, un certo compiacimento formalistico, un senso morale più allentato ed una cura del dettaglio che si evince da alcuni particolari.

Il San Pietro penitente è impregnato anche da un potente naturalismo nella descrizione dei tratti somatici, indagati con severità nei solchi delle rughe, in linea con la lezione del Ribera, anche se il volto, intenso e vigoroso, comincia a rivelare i nuovi valori cromatici, sconosciuti nella produzione giovanile del pittore, per cui la collocazione cronologica dell’opera va posta nel corso del V decennio del secolo, quando il rigore naturalistico comincia a cedere alle lusinghe di una tavolozza tenera e raffinata.

Il De Dominici accenna all’attività del Fracanzano nella bottega del Ribera: ”il maestro molto lo adoperava nelle molte richieste di sue pitture... mezze figure di santi e di filosofi”. Nessuno di questi quadri, attribuibili con un buon margine di certezza alla sua mano, è firmato o datato, probabilmente perché spesso dovevano passare per autografi del maestro e ad avvalorare questa ipotesi ci soccorrono di nuovo le parole del biografo ”il Maestro molto lo adoperava nelle molte richieste di sue pitture e massimamente per quelle che dovevano essere mandate altrove, ed in paesi stranieri... egli è così simile all’opera del Ribera che bisogna sia molto pratico di lor maniera chi vuol conoscerlo... nell’esprimere la languidezza delle membra, nella decrepità dei suoi vecchi”.

Forniamo ora dei cenni della biografia del pittore, invitando chi volesse approfondire l’argomento e visionare circa 150 foto a colori dell’artista a consultare la mia monografia “Francesco Fracanzano opera completa”, digitando il link  

http://www.guidecampania.com/dellaragione/articolo82/articolo.htm

Figlio del pittore Alessandro e fratello di Cesare, Francesco, nel 1622, si trasferisce a Napoli per entrare nella bottega del Ribera. Fu successivamente maestro di Salvator Rosa, quest'ultimo fratello di Giovanna, nonché sua moglie. Per un certo periodo le sue attività sono state condivise con il cognato Salvator Rosa e con Aniello Falcone, specializzato in scene di battaglia.    

Di stampo caravaggista, la sua pittura fu inizialmente accostata alla scuola dello Spagnoletto e più in particolare a quella del Maestro dell'Annuncio ai pastori. Col tempo poi, la sua arte si è allontanata dall'influenza tenebrista per assumere stili più luminosi e chiari. I capolavori del Fracanzano sono riconosciuti su tutti nelle due tele con Storie della vita di San Gregorio Armeno del 1635 nella chiesa di San Gregorio Armeno a Napoli. Il figlio, Michelangelo, fu anch'egli pittore; tuttavia non riuscì mai ad eguagliare il successo del padre.

Se dovessimo avanzare una ipotesi sulla valutazione di questo quadro di Francesco Fracanzano con San Pietro penitente, potremmo dire intorno a 40mila euro 

Achille della Ragione   

 

fig.2 - Francesco Fracanzano
- San Pietro penitente - particolare -
 Caserta collezione privata 


 


mercoledì 2 aprile 2025

Un capolavoro di Luca Giordano


 

fig.1 - Luca Giordano -
Distribuzione del pane e dei pesci - 160x120 -
Caserta collezione privata

Luca Giordano ha dipinto circa 2000 quadri, cominciando la sua attività a 8 anni ed il soggetto del quale parleremo in questo articolo fig.1 è un vero capolavoro, sul quale tornerà dalla Spagna sull'altare della chiesa di Donnaregina nuova.

Di ritorno dalla Spagna, nei suoi ultimi anni di vita, Luca Giordano realizza due gigantesche tele per il presbiterio di Donnaregina, al fine di celebrare il mistero dell’Eucaristia attraverso i segni più sacri per i cristiani: pane e vino, cibi normali scelti simbolicamente dal Cristo per restare accanto ai credenti sino alla fine del mondo. In questo dipinto, Gesù spezza il pane per distribuirlo alle folle che lo seguono, cercando nella sua parola il pane di vita. La Moltiplicazione dei pani diventa così un’anticipazione della passione, morte e risurrezione, in cui il Cristo verrà egli stesso spezzato per diventare cibo dell’anima, divisibile nel sacramento eucaristico, secondo l’esempio fornito dal Messia durante l’Ultima Cena.

Il primo miracolo è conosciuto anche come il "miracolo dei cinque pani e due pesci", perché il Vangelo di Giovanni riporta che cinque pani d'orzo e due piccoli pesci forniti da un ragazzo furono usati da Gesù per nutrire una moltitudine. Secondo il Vangelo di Matteo, quando Gesù udì che Giovanni Battista era stato ucciso, partì di là su una barca e si ritirò in disparte in un luogo solitario. Luca specifica che il posto era vicino a Betsaida. Le folle seguirono Gesù a piedi dalle città. Quando Gesù sbarcò e vide una grande folla, ebbe compassione di loro e guarì i loro malati. Quando si avvicinò la sera, i discepoli andarono da lui e dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Matteo 14,15). Gesù disse che non c'era bisogno che se ne andassero, e ordinò ai discepoli di dare loro qualcosa da mangiare. I discepoli gli dissero che avevano solo cinque pani e due pesci, e Gesù gli chiese di portarglieli. Gesù ordinò alla gente di sedersi in gruppo sull'erba. Nel Vangelo di Marco le folle sedevano in gruppi di 50 e 100, e nel Vangelo di Luca, Gesù ordina di dividere la folla in gruppi di 50,  sottintendendo che c'erano 100 gruppi.

Prendendo i cinque pani e i due pesci e alzando lo sguardo al cielo, Gesù rese grazie e spezzò i pani. Poi li diede ai discepoli e i discepoli li diedero al popolo. Mangiarono tutti e si saziarono, e i discepoli raccolsero dodici ceste piene di pezzi avanzati. Mangiarono circa cinquemila uomini, oltre a donne e bambini. Nel Vangelo di Giovanni, la moltitudine si radunò intorno a Gesù attratta delle guarigioni che aveva compiuto, e la moltiplicazione dei pani è considerata un ulteriore segno (greco: σημεῖον) che Gesù è il Messia, il profeta che (secondo la promessa in Deuteronomio 18,15 deve venire nel mondo)

Questo miracolo, che appare solo in Marco e Matteo, è anche conosciuto come il miracolo dei sette pani e pesci, poiché il Vangelo di Matteo fa riferimento a sette pani e alcuni piccoli pesci usati da Gesù per sfamare una moltitudine. Secondo il Vangelo di Matteo, una grande folla si era radunata e stava seguendo Gesù.

«Allora Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e disse: «Sento compassione per la folla. Ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non vengano meno lungo il cammino». E i discepoli gli dissero: «Come possiamo trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?». Gesù domandò loro: «Quanti pani avete?». Dissero: «Sette, e pochi pesciolini». Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra, prese i sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò e li dava ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà. Portarono via i pezzi avanzati: sette sporte piene. Quelli che avevano mangiato erano quattromila uomini, senza contare le donne e i bambini. Congedata la folla, Gesù salì sulla barca e andò nella regione di Magadan sul lago di Tiberiade»

Se dovessimo ipotizzare il valore del quadro in oggetto dovremmo partire da 70.000 euro

Achille della Ragione.  

  

fig.2- Luca Giordano -
Distribuzione del pane e dei pesci -particolare-
 Caserta collezione privata