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fig.1 - Gonsalvo Carelli - Marinai su uno scoglio - Napoli collezione della Ragione |
Procida ha una lunga storia, con vari popoli che l’hanno dominata: Calcidesi, Siracusani, Greci ed infine Romani. Dopo le devastazioni da parte di Visigoti e Vandali, l’isola cadde sotto la corona Sveva, che la diede in feudo ad una famiglia Salernitana alla quale apparteneva il famoso Giovanni da Procida, uno degli eroi dei Vespri siciliani nel 1282, che fece anche edificare un castello. Divenuta feudo dei d’Avalos, nel 1534 subì una grave incursione da parte del pirata Kahir Ed Din, detto il Barbarossa.
Ulteriori scorrerie piratesche indussero una parte della popolazione a trasferirsi sulla terraferma, dando luogo alla località Monte di Procida, e chi rimase realizzare torri di difesa e cinte murarie. Sotto Carlo III divenne sito reale per soddisfare la passione venatoria del sovrano.
Nel 1806 fu occupata da Giuseppe Buonaparte, per ritornare poi ai Borbone con Ferdinando I, il quale destinò il castello prima a scuola militare e infine a bagno penale, funzione che ha conservato per oltre 150 anni, ospitando detenuti politici ed infine ergastolani.
Il destino di Procida è stato sempre legato al mare (fig.1). Pescatori e marinai sono stati per secoli i Procidani, dotati di una flotta costituita da tartane e feluche (fig.2–3) in cospicuo numero. Nel Settecento il naviglio isolano contava circa 100 scafi, che aumentarono costantemente nel tempo, mentre molti erano gli armatori. Nel secolo scorso sorse un importante Istituto nautico e varie scuole professionali marittime.
Tra le tradizioni popolari vi sono numerose processioni, particolarmente in onore del patrono san Michele Arcangelo (fig.4), che si svolgono l’8 maggio in ricordo dell’apparizione sul Gargano ed il 29 settembre, nel borgo di Terra Murata, quando, fino a pochi anni fa era possibile assistere ad una tarantella (fig.5) animata dal suono di strumenti popolari, dal siscariello allo scetavajasse, dal putipù al triccabballacche (fig.6–7). Altri momenti d’intensa sensibilità religiosa si manifestano durante la settimana santa con una processione di confratelli incappucciati e coronati di spine e con il corteo del Venerdì Santo (fig.8) con rappresentazioni di episodi delle Sacre Scritture.
La cucina locale è particolarmente povera e si basa su verdure e ortaggi, alici e sarde, carne di coniglio e frattaglie di bovini e suini, perché tagli di carne di maggiore pregio e pesci più richiesti sul mercato erano destinati alla terraferma, il piatto più povero per eccellenza, era una zuppa di pane raffermo, condita con aglio prezzemolo e pomodoro.
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fig.2 - Tartana |
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fig.3 - Feluca |
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fig.4 - Processione in onore di San Michele Arcangelo |
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fig.5 - Vito Brunetti - Tarantella - Napoli collezione della Ragione |
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fig.6 - Antichi strumenti musicali |
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fig.7 - Tipico strumento musicale
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fig.8 - Processione del Venerdi santo |
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fig.9 - Graziella |
Nell’Ottocento molti Procidani emigrarono sulle coste dell’Algeria, dove la pesca era più generosa e dove era presente il corallo. Essi si fermarono soprattutto a Mers El Kebir, trasferendovi un patrimonio di tradizioni dai canti alle feste e vi rimasero fino al 1962, quando a seguito della rivolta locale si portarono nella zona di Marsiglia, dove ancora oggi vi è una nutrita colonia di Procidani.
Dal Seicento si diffonde un costume tradizionale, chiamato Graziella (fig.9), costituito da un corpetto, una gonnellina scarlatta, un grembiule violaceo, una zimarra ricamata in oro ed un crespo di seta sul capo. Esso era ispirato da quello indossato dalle donne di una piccola colonia Armena di stanza al molo piccolo di Napoli. Graziella è anche il nome dell’eroina del celebre romanzo di Alphonse de Lamartine, scritto nel 1852, figlia di pescatori e lavoratrice di corallo, della quale il romanziere racconta di essersene innamorato durante il suo soggiorno nell’isola e di averne avuto notizia della sua morte al ritorno in Francia. Oggi dà il nome ad un premio letterario e ad un concorso: “La sagra del Mare”, durante il quale le fanciulle sfilano con il tradizionale costume locale (fig.10).
Rimanendo nell’ambito della cultura popolare bisogna ricordare dei proverbi sorti spontaneamente in una popolazione di marinai e contadini e che si esprimono in un vernacolo particolare, difficile da intendere per gli stessi napoletani. Ne citiamo qualcuno tra i più divertenti:
Muòneche, priévete e pisce ’re funno, mangiano vivono e fottono ‘u munno
A Pròceta spara e a Nèpule ‘ntròna
Hè appiso ‘a carna a ‘nu malo chiuòvo
Acqua e negghia, comm’a ‘u lupo
Tu re ppuòzze struje pe’ ssott’a ‘u fuculare
Una figura parareligiosa molto diffusa sull’isola è quella delle “monache di casa”, donne che superata l’età del matrimonio si dedicavano, a mo’ di perpetue, all’assistenza di un sacerdote, spesso un parente e nell’arte della divinazione, una facoltà molto richiesta là dove gran parte della popolazione aveva familiari lontani impegnato come naviganti.
Una delle tradizioni meno conosciute dell’isola è quella dei quadrilli (fig.11), piccoli quadri, reliquiari, che le procidane (fig.12) interrogavano per scrutare l’ignoto o per trarne profezie.
I quadrilli (fig.13), una sorta di specchio magico, sono delle tavolette di varia grandezza con al centro un pezzetto di velo nero, la reliquia della Madonna dei sette veli, (fig.14) attorniato da decorazioni le più varie, preziose artistiche o meno. A leggerli erano le “bizzoche” o, meglio, le “monache di casa” cioè donne che, superata l’età di sposarsi, indossavano l’abito religioso senza professar voti né regole: vite difficili, alle quali forse la capacità di consultare i quadrilli consentiva di salvaguardare un minimo di considerazione sociale. Donne cui si rivolgevano altre donne (abituate per la lontananza dei mariti in navigazione a gestire spazi di libertà insoliti a quel tempo), cercando risposte , anche con la preghiera, alle proprie ansie e soprattutto per avere notizie dei congiunti lontani.
I quadrilli sono un esempio di quella religione delle cose che ha trasformato il Cristianesimo da una religione di parole, parabole, in una religione fatta anche di oggetti concreti (immagini, reliquie, opere d’arte) a supporto della fede.
Tra le altre pratiche divinatorie praticate sull’isola ricordiamo la “ Novena dello Spirito Santo”, che consiste nella lettura di formule magico religiose, da praticare per due ore di fronte al mare e nell’interpretazione di quello che accade nel contempo: il passaggio di un gatto, il rumore dell’acqua, l’eventuale passaggio di persone. Fino agli anni Cinquanta si praticava anche la lettura dell’albume dell’uovo e quella del piombo fuso nella notte di San Giovanni.
Altre credenze ancora molto diffuse sono costituite dal Munaciello (fig.15) e dal Lupo mannaro (fig.16). Il primo è uno spiritello benigno, a volte generoso, che preferisce il contatto con le donne di casa, alle quali a volte fa dei regali, che accendono la gelosia dei mariti, mentre il secondo è quasi sempre cattivo e per contrastarlo erano stati escogitati alcuni rimedi: da un secchio di acqua bollente ad un bastone con la punta di metallo.
Credo che abbiamo già raccontato molte idiozie, per cui risparmio al lettore di parlare delle Donne streghe e delle Janare, che danzavano nude intorno ad un albero ed erano dedite a pratiche orgiastiche.
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fig.10 - Sfilata finale di tante Grazielle |
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fig.11 - Quadrilli
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fig.12 - Donne di Procida |
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fig.13 - Quadrilli |
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fig.14 - Madonna dai sette veli |
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fig.15 - Munaciello |
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fig.16 - Lupo mannaro |
Grazie. È sempre un arricchimento ricevere queste mail.
RispondiEliminaLuisa Salerni
Veramente interessante, bravo Achille!
RispondiEliminaBruno Gatta