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giovedì 31 marzo 2016

Geronimo Bosch, un visionario tra Medio Evo e Rinascimento

fig.  01 - Autoritratto

Il genio del Grottesco in pittura


E’ festa a Bois-Le-Duc, una cittadina olandese ricca di canali e della immancabile Grand Place dove svetta la cattedrale di San Giovanni, esempio tipico di gotico-brabante. Un centro oggi decaduto rispetto all’importanza di una volta, che tuttavia dopo lunghi preparativi, accoglie dal 13 febbraio all’8 maggio, tutti i giorni una folla di turisti venuti da ogni dove per onorare la celebrazione della scomparsa di un grande pittore fiammingo della fine del Quattrocento (Fig.01). Geronimo Bosch nasce nel 1450 a Bois-Le-Duc, ne prenderà il nome, Bois (bosco), Bosch e vi muore nel 1516.
Da diversi anni c’era la volontà di organizzare, in occasione  del fatidico anniversario dei 500 anni, una manifestazione importante, ma la città non possiede opere del maestro e nessun museo avrebbe prestato opere senza scambi. Così essa ha investito in un progetto scientifico di ricerca, studio e restauro, mirato alle opere di Bosch situate in tutti i musei, coinvolgendo naturalmente gli stessi e l’idea ha funzionato. Oggi, per esempio, si possono ammirare, degnamente restaurate, le opere provenienti dalle gallerie dell’Accademia di Venezia dove tra l’altro sono state precedentemente esposte fino ai primi di febbraio. Dal Prado di Madrid è arrivato “Il carro del fieno”, un trittico meraviglioso, ricco di allegorie e di valori moralizzanti.

fig. 02 - Il giardino delle delizie

Naturalmente il suo capolavoro, “Il Giardino delle Delizie” (Fig.02) non si è spostato, ma questo rientra nella politica di ogni grande museo che ritiene inamovibili le sue opere migliori. L’anno scorso al Grand Palais c’era Velazquez e il quadro “Las Meninas” non c’era. Qui si sono giustificati adducendo la motivazione di una loro celebrazione dello stesso anniversario. Eppure si sa che tale commemorazione avverrà a fine maggio proprio quando finisce quella attuale olandese. Anche i musei sono gelosi e temono gli spostamenti dei loro “figli”.
Quindi Bois-Le-Duc , fino a ieri sconosciuta ai più, oggi è fiera di far rinascere la memoria di un suo importante cittadino attraverso la sistemazione nel suo museo di ben 20 dipinti su un corpus pittorico di poco più del doppio di quelli ora in esposizione. Ma soprattutto, oserei dire, quasi un’operazione alchemica si è compiuta, tanto per restare sul terreno dell’autore, un volo magico hanno compiuto quadri e, disegni altrettanto importanti, dai principali musei del mondo intero per ritornare a ricordare uno degli artisti più liberi, perché in questo si esprime il suo genio, nel non conoscere barriere al suo estro creativo.
Geronimo nasce in una famiglia di pittori, incominciando dal  padre agli zii, dal fratello maggiore al nipote; quindi la padronanza di una tecnica nel disegno e nell’uso della tavolozza non gli era sconosciuta rispetto invece  all’innovazione dei temi trattati, fino al punto da dare origine ad un genere particolare, che nasce con lui. Un genere in cui ci sono moltitudini di esseri umani e animali di ogni specie, ibridi e mostri dalle dimensioni piccole, immersi in paesaggi infernali e di beatitudine. Un genere imitato, seguito e di forte ispirazione per altri pittori a lui successivi. Tra i più vicini a lui Bruegel, fino ai Surrealisti, il grande Dalì o la donna pesce di Magritte non è forse un’invenzione di Bosch (vedi il particolare del Carro del Fieno)?. Non solo, l’impatto delle sue opere è anche all’origine di nuovi modi di vedere la realtà, perfino in letteratura. Pensiamo a Gulliver e i Lillipuziani di Swift o ad Alice nel Paese delle Meraviglie, esempi in cui le immagini surreali di Bosch, come lo zoccolo olandese gigante, trasformato in nave con tanti piccoli uomini o il coltello gigante sulla cui lama giace ventralmente disposto un uomo, nudo come lo sono tutti gli esseri umani da lui dipinti (Il Giudizio Universale di Bruges) (Fig.03). Oggetti del nostro quotidiano assumono dimensioni giganti rispetto agli uomini. Tutto è possibile nel mondo degli impossibili. Nei suoi disegni pullulano forme incestuose, imprevedibili tra i regni umani, animali e vegetali. Dal museo di Berlino famoso è quello in cui il campo di un bosco ha gli occhi, mentre gli alberi le orecchie. Come non pensare alle opere di Odilon Redon. Come non stupirsi di fronte all’originalità di altri disegni in cui la vena umoristica, derisoria è altrettanto sconcertante. Uno dei primi caricaturisti del genere umano. Chi non penserebbe a Ensor, per restare con un altro pittore fiammingo, guardando  “La salita al Calvario” l’orrido e il grottesco delle maschere di carnevale (Fig.04)?. Forse diceva bene chi sosteneva che Bosch vedeva gli uomini come erano di dentro e non come erano fuori.
Come uomo del Medio Evo il Nostro si accanisce nell’evidenziare il male, perché il suo intento è ridicolizzare l’uomo che pecca, abbassandolo al rango animale bestiale di animale o pianta. E’ da incubo lo specchio nel quale ci si riflette ormai spogli di ogni dignità umana.

 
fig. 03 - Giudizio universale
fig. 04 - Salita al Calvario

Ma gli studiosi oggi, ed è l’orientamento attuale, il nuovo  senso della mostra in corso, vogliono evidenziare un aspetto più moderno, quello di un Bosch Umanista. Sensibile al nuovo vento, la sua denuncia è moralizzatrice: l’uomo può scegliere tra il male e il bene. Ci troviamo di fronte ad un artista che pone all’osservatore quell’annosa questione che vede in conflitto il De servo arbitrio con il De libero arbitrio.
Bosch faceva parte di una di quelle confraternite seguaci di un rinnovamento spirituale: La Devotio Moderna. Quest’ultima si basava su una meditazione più interiorizzata e responsabile del messaggio cristiano. Tale visione personalizzata del Verbo allora diffusa solo su piccole isole di credenti insoddisfatti del credo medievale è all’origine dell’opera di Erasmo di Rotterdam e delle teorie protestanti di Lutero e Calvino, teorie condivise presto dai Paesi Bassi.
Aggiungiamo inoltre l’esistenza all’epoca di nascenti tipografie che stampavano opere come per esempio “La nave dei folli” di Sebastien Brant. Un modello poi dell’Elogio della follia di Erasmo, pubblicato dopo la morte del pittore e fonte d’ispirazione, invece, per Geronimo, dello straordinario olio su legno, proveniente dal Louvre, che si chiama ugualmente “La nave dei folli” (Fig.05).

 
fig. 05 - La nave dei folli
fig. 06 - Il vagabondo

Figura di artista quindi a cavallo tra la visione medievale che colpevolizzava l’uomo che sbaglia e quella rinascimentale che riconosce la libertà di scelta. Ecco perché nel celeberrimo “Il giardino delle delizie” si ha l’impressione di vedere i peccatori felici, tutta una nudità gaudente.
E’ possibile immaginare che con Bosch finisca il Medio Evo?
Tra gli artisti più enigmatici della storia dell’arte, si aggiunge anche la difficoltà di avere certezze, in quanto mancano documenti. Se ci riferiamo alla firma, essa in stile gotico compare solo in pochi quadri e inoltre i suoi seguaci la imitavano bene. I suoi trittici nel lungo lasso di tempo sono stati smantellati ed è stata difficile la ricostituzione degli originali. Si è visto in seguito agli studi di ricerca scientifica eccezionale, effettuati prima della mostra, che molte opere situate in vari musei del mondo non sono che pannelli di composizioni più grandi.
“Il Vagabondo” (Fig.06), acquistato nel 1930 dal museo di Rotterdam, è considerato oramai il rovescio di un trittico, le cui ante interne sono costituite dalla “Nave dei folli” del Louvre, “Il vizio e il piacere” della Yale University degli Stati Uniti e “La morte e l’avaro” con una condanna violenta della cupidigia. Il personaggio solitario di tale polittico, che compare molto simile nel trittico del fieno del museo del Prado, rappresenta il pellegrinaggio della vita umana con tutte le tentazioni. Egli avanza faticosamente lungo la stretta via della salvezza e …attenzione a non cadere nel fiume come presto faranno “I ciechi” di Pieter Brueghel. Nella Nave, che è piuttosto una barca come giustamente la chiama Umberto Eco nell’Elogio della bruttezza, i folli tra cui una monaca ed un francescano sono i golosi, intenti con le bocche aperte a rimpinzarsi, qualcuno vomita. Dopo la crapula qui, nell’altro pannello c’è l’ubriachezza cui segue la lussuria di una coppia appartata nella tenda. Nel Carro del fieno (Fig.07), si muove una moltitudine di figurine piene di una grazia poetica che si legge nell’alta qualità pittorica e nel meraviglioso disegno di base. E’ una satira nordica con un fondo proverbiale: “ Il mondo è un monte di fieno, ciascuno ne prende quello che può afferrare”.
“L’adorazione dei Magi” (Fig.08) in prestito dal Metropolitan di New York, è un dipinto di suprema delicatezza, una perla rara nella produzione del pittore olandese abituato invece altrove a stupirci con i suoi deliri visuali. In uno stile tardo-gotico con preziosi ori dai doni dei re agli indumenti degli stessi, allo sfavillante tappeto, piedistallo della vergine dai lunghissimi capelli biondi, tutta la costruzione formale è nuova, estremamente rilassante. Il paesaggio sullo sfondo che amplia la prospettiva si gioca sulle varie tonalità del blu e del verde. E ci offre un ulteriore esempio dell’importanza che rivestiva tale elemento nelle sue opere. Quando, dopo una ventina d’anni più o meno dall’esecuzione di tale quadro, Geronimo Bosch arriva a Venezia, dove pare che abbia soggiornato un tre anni, il paesaggio di Giovanni Bellini così come la luce della pittura rinascimentale veneta influenzerà la sua tavolozza.

fig. 07 - Il carro da fieno
fig. 08 - Adorazione dei magi

Nella mostra di Bois-Le-Duc ci sono le opere provenienti dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, già restaurate nella città lagunare. Si tratta del “Trittico di Santa Liberata”(Fig.09), che rappresenta il martirio di una principessa portoghese alla quale il padre impone uno sposo pagano, per sfuggire al quale la fanciulla implora il Signore di imbruttirla, così le cresce la barba. L’altra opera è costituita da quattro pannelli (Fig.10) che dovevano far parte forse di un polittico più grande, di cui si sono smarrite le altre parti. Essi rappresentano: Il Paradiso terrestre, La salita verso l’Empireo, La caduta dei dannati e Il fiume verso l’inferno.
Grazie agli studi effettuati in vista dell’esposizione di quest’anno, si sono potute espungere dal corpus di opere autentiche del maestro olandese due quadri: “La salita al calvario” (Fig.04) di Gand e “I sette peccati capitali” (Fig.11), che Filippo II volle nel suo Escorial nel 1574, oggi al Prado.
Continueranno nella città di Bois-Le-Duc per l’intero anno gli eventi in commemorazione di un tale anniversario. Spettacoli di danza, performances con coreografie allucinanti: moltitudini di personaggi insoliti, intervallati da teste impalate, decapitazioni, crocifissioni da incubo. Artisti contemporanei si esprimeranno in una vera e propria “boschomania”(fig.12). Primo fra tutti Jan Fabre, che rivendica l’influenza del suo avo sulle sue opere. Nel suo omaggio a Bosch egli ha adottato le elitre degli scarabei che generano infiniti riflessi iridescenti, l’ibrido mostruoso che ne deriva vuole rappresentare i grandi misfatti perpetrati dal Belgio contro il Congo. Anche qui il valore moralizzante dell’opera.

ELVIRA  BRUNETTI
  
fig. 09 - S. Liberata

fig. 10 - Visioni dell'al di lá

fig. 11 - I sette vizi capitali

fig. 12 - Bosch parade

martedì 29 marzo 2016

Prezzi fissi?, ma sicuramente non bassi!!



La televisione ci martella a tutte le ore con una pubblicità asfissiante, nella quale la Conad viene dipinta come il paradiso dei consumatori; ma provate ad andare al supermercato sito in via Manzoni e potreste avere sorprese sgradevoli come quella toccata a me alcuni giorni fa. Dopo numerose compere arrivo al banco del pesce, dove invitanti cartellini invogliano all’acquisto di orate, alici, sogliole etc, offerte a prezzi convenienti; le vongole viceversa giacevano nell’acqua  senza alcuna indicazione del prezzo. Incautamente ne ho comperato 2 chili e solo a casa, controllando i prezzi, mi sono accorto che erano vendute a peso d’oro: 32 euro al chilo, il doppio di quanto richiesto dalle più famose pescherie. Se non è una truffa, sicuramente è un raggiro.

Achille della Ragione

venerdì 25 marzo 2016

Incontri imbarazzanti



L’altra sera ho partecipato ad un’interessante conferenza su tesoro di san Gennaro, tenutasi presso la casina pompeiana, sita nella villa comunale.
Alle 20, per non perdere la puntata di Un posto al sole, mi sono avviato verso l’auto, parcheggiata a circa 500 metri di distanza, ma durante il percorso, rigorosamente al buio, ho tremato più volte.
Premetto che mi trovavo nel cuore della città e non a Scampia, erano le 20 e non le 3 di notte, per quanto attempato, ho un fisico vigoroso e sono ex campione di lotta libera.
Primo incontro, con 2 brutti ceffi, che mi hanno convincentemente chiesto un contributo al loro sostentamento. Me la sono cavata con 50 euro.
Secondo incontro, ancora più emozionante, con un rottweiler randagio di dimensioni colossali: all’inizio mi ha guardato in cagnesco ed ho temuto il peggio, poi, forse, ha capito che amo i cani ed ha continuato il suo percorso.
Finalmente ho raggiunto l’auto e tirato un sospiro di sollievo; mi è andata bene

Achille della Ragione


martedì 22 marzo 2016

La strage di Bruxelles ci impone di decidere





Il vile attacco terroristico, che ha insanguinato Bruxelles, provocando decine di vittime ed una giusta ondata di indignazione in tutto il mondo, deve farci riflettere, perché non si può solo piangere, bensì bisogna prendere cognizione della complessa situazione internazionale, che richiede fermezza da parte della politica, chiamata a difficili quanto coraggiose decisioni, illuminazione da parte dei pochi intellettuali ancora in circolazione, ma soprattutto coraggio da parte di tutti noi, pronti ad appoggiare provvedimenti drastici quanto oramai ineludibili.
Cosa può fare l’Italia, cosa l’Europa, cosa l’Occidente? Sono tre percorsi diversi anche se tendono alla fine verso lo stesso obiettivo, fermare o quanto meno arginare il terrorismo.
Per prevenire il terrorismo compito dell’Italia è potenziare i servizi segreti, unica arma in grado di contrastare una guerra senza fronti e senza eserciti schierati. Se non riusciremo a reclutare James Bond, almeno cerchiamo di assoldare agenti esperti provenienti da intelligence dell’est europeo, una via già percorsa con ottimi risultati dalla delinquenza organizzata.
Una strategia che dovrà essere perseguita anche dall’Europa, in grado di affiancare anche efficaci azioni militari, in particolare bombardamenti a tappeto là dove vengono localizzati campi di addestramento, soprattutto nei territori del Califfato islamico.
L’Occidente, Stati Uniti in testa, deve poi prendere atto che ciò che sta succedendo è solo il capitolo iniziale di uno scontro di civiltà epocale, sul cui risultato finale non mi pronuncio (sono pessimista), ma che va combattuto senza esclusione di colpi.
Quando il gioco diverrà duro e le azioni militari si intensificheranno è pura illusione lavorare senza l’aiuto degli Americani e l’assenso, più o meno prezzolato di Putin.

Achille della Ragione

Pietro Pesce, chi era costui?

fig. 1 - Pietro Pesce - Pescatori - 23 - 28 - Roma collezione Pietro Di Loreto

Se consultiamo i testi sacri sul Seicento napoletano, dal monumentale repertorio fotografico di Spinosa edito nel 1984, agli esaustivi cataloghi delle grandi mostre, che si sono tenute sul secolo d’oro, non troveremo nessuna traccia di Pietro Pesce, del quale, molto brevemente, parla il De Dominici quando tratta della bottega di Domenico Gargiulo, più noto come Micco Spadaro.
Il De Dominici nell’affermare che”lo Spadaro ebbe molti discepoli” si sofferma su quelli ritenuti da lui più significativi: Ignazio Oliva che “imitò il maestro nel fare paesi e marine”, il “superbo” Francesco Salernitano, che “attese alle figure grandi”, Giuseppe Piscopo che dalla bottega di Aniello Falcone era passato a quella di Domenico dedicandosi”alle figure piccole, insino alla misura di circa un palmo” essendo negato per quelle più grandi(di lui il De Dominici non citò alcun dipinto in particolare, affermando invece che piccole “Istoriette e belle tavolette” di Piscopo si potevano trovare in collezioni private); nel cappellone sinistro della chiesa dei Girolamini c’è un dipinto a lui attribuito, datato al 1647, che raffigura i Santi martiri Felice, Cosma, Alepanto e compagni. Sembra comunque che l’artista fosse soprattutto pittore di piccole battaglie come le due dipinte nel 1649 per la collezione di Antonio Ruffo a Messina e di soggetti vetero testamentari come il Tobia e l’angelo e la Rebecca al pozzo ricordati nel 1725 nell’inventario della collezione di Francesco Gambacorta duca di Limatola. Ed infine Pietro Pesce, “che ne conseguì tutti i generi e modi” e del quale la critica ha identificato alcune sue opere firmate (fig. 2 – 3), passate nel 1997 ad un’asta Semenzato a Napoli, di ambientazione notturna, come ne erano presenti altre nella raccolta del principe Ettore Capecelatro identificate in un inventario da Labrot, tra le quali forse quella (fig. 4), molto bella, presente negli anni Novanta sul mercato antiquariale a Vienna.
Quando l’altro giorno, recandomi in visita a Roma dal professor Di Loreto, illustre studioso e raffinato collezionista, ho potuto osservare il suo ultimo acquisto (fig. 1), ho subito esclamato: “Finalmente ecco un altro dipinto da aggiungere all’esiguo catalogo di Pietro Pesce”, tante sono le similitudini, sia nelle fisionomie dei personaggi, che nel lugubre cromatismo, a dimostrazione lampante della predilezione dell’artista ad ambientare nelle ore notturne le sue scenette di vita quotidiana.
Bibliografia
della Ragione A. - Il secolo d’oro della pittura napoletana, II tomo, pag. 99 - 100 – Napoli 1998della Ragione A. - Repertorio fotografico a colori del Seicento napoletano II tomo, pag. 85 – Napoli 2011 

fig. 2 - Pietro Pesce - Scena contadina - 25 - 45 - Napoli asta Semenzato 1997



fig. 3 - Pietro Pesce - Brindisi augurale - 25 - 45 -  firmato e datato 1650 - Napoli asta Semenzato 1997



fig. 4 - Pietro Pesce - Scena d'interno a lume di candela - Vienna mercato antiquariale





giovedì 17 marzo 2016

Il trionfo dell’erotismo nella scultura napoletana tra ‘800 e ‘900

fig. 1 - Francesco Jerace - Victa - firmata sul retro - busto in marmo con colonna - 88 - 140 - Napoli collezione della Ragione
  

Cominciamo questa entusiasmante carrellata tra poppe al vento ed invitanti sederi ben esposti illustrando la Victa (fig.1) di Francesco Jerace, il suo capolavoro, che secondo le intenzioni dell’artista rappresentava, con il suo sguardo fiero ed orgoglioso, la Polonia, “vinta”, ma non domata.
Si tratta di un’opera a me particolarmente cara, perché cara mi costò quando nel 1994 me la aggiudicai nella memorabile asta dei beni del mitico Achille Lauro, nella cui villa di via Crispi troneggiava  sul grande scalone che portava ai piani superiori, mentre da oltre venti anni attira i maliziosi sguardi degli ospiti nel salone della mia villa di Posillipo.
Ad essa dedicai un breve articolo: Il caldo tepore di un seno di marmo, pubblicato su numerose riviste, che ha costituito la prefazione del mio libro: Il seno nell’arte dall’antichità ai nostri giorni (consultabile in rete digitandone il titolo) e che oggi vi ripropongo.
“Godere della bellezza di un seno, anche se raffigurato dal pennello di un pittore o dallo scalpello di uno scultore è l’esercizio più nobile che distingue l’uomo dalla bestia, la civiltà dalla barbarie, è la sintesi di una condizione umana immutabile, sospesa tra l’esaltazione dell’amore ed il terrore della solitudine, tra la gioia di vivere e la paura di morire e ci aiuta ad affrontare più serenamente l’angoscia dell’esistenza, a coglierne la bellezza e la fragilità.
Che cos’è veramente l’arte se non una guerra, una lotta contro la materia, un corpo a corpo con la forma e con l’idea. Perdersi nell’armonia delle forme e dei colori permette di addentrarsi in un mondo senza frontiere e ci dà la possibilità di essere felici nell’eternità della bellezza e dell’arte.
Quale viaggio più avventuroso della serena contemplazione dei severi seni della Victa, un busto marmoreo, capolavoro dello scultore Francesco Jerace, già nella collezione del comandante Achille Lauro.
La statua proviene da un blocco di marmo di Carrara bianchissimo e luccicante ed irradia una luce abbagliante, che sembra stregare ed avvincere l’osservatore, il quale, rapito dalla bellezza del volto corrucciato e dalla vista degli splendidi seni non può guardarla troppo a lungo senza desiderarla. I seni della Victa sono fatti di un marmo carnoso, ricco, trasparente; essi sono eterni, sostenuti dalla rigidità della materia impassibile. Non si deformano, né avvizziscono, archetipo immobile della femminile bellezza. Rappresentano il porto sicuro verso cui ogni uomo anela di fermarsi e riposare per sempre, preziosi come una boccetta di rare essenze, prorompenti, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da sottile cristallo, che a rompersi si disperdono come polvere di talco.
Alla vista di questi seni immortali è inevitabile per l’osservatore cadere vittima della sindrome di Sthendal: una vertigine intensa ed interminabile che illuminerà questo nostro lungo percorso attraverso l’arte ed attraverso il seno, un pianeta che merita di essere esplorato e sviscerato in lungo e largo per un sottile piacere dello spirito”. Prima di passare oltre vi confesso che ho utilizzato più volte queste frasi laudative per elogiare seni di signore e signorine, illuse che fossero stati composti alla vista dei loro e la ricompensa è stata sempre palpabile e commisurata ai complimenti.
Passiamo ora ad un seno plebeo, ma non meno prorompente, quello di una schiava (fig.2) immortalata da Giacomo Ginotti nel 1877 e conservata nelle austere sale del museo di Capodimonte. La schiava è colta nel momento in cui rompe le catene che le stringono i polsi, un gesto supremo che le scuote il corpo e ne segna il viso da cui traspare la traccia dell’antica servitù e l’aureola della agognata libertà. L’artista si serve della sensualità della giovane africana per farsi latore di una severa denuncia sociale. I seni della fanciulla (fig.3) sono fatti di un marmo, carnoso, ricco, trasparente che li fa tersi e puri. Come è difficile non contravvenire al severo divieto nei musei di non poter toccare le statue e provare con mano la rigidità della materia impassibile, archetipo di forme immortali, che non si deformano, non avvizziscono e sfidano lo scorrere del tempo, permettendo di godere con la vista e correre con la fantasia. A pochi è concesso il privilegio di vivere in eterno nella memoria degli altri, per i seni di questa anonima giovinetta  è invece normale sfidare i secoli, dando gioia e diletto a più generazioni, fino a quando tra gli uomini sarà vivo il gusto per il bello.


fig. 2 - Giacomo Ginotti - Emancipazione dalla schiavitù - marmo  - 155 - 54 - 70 - firmata e datata 1877 - Napoli museo di Capodimonte

fig. 3 - Giacomo Ginotti - Emancipazione dalla schiavitù - marmo  - 155 - 54 - 70 - firmata e datata 1877 -(particolare del seno) Napoli museo di Capodimonte

Una faunetta che allatta un agnellino (fig.4), tra le più riuscite opere di Vincenzo Jerace, fratello del più famoso Francesco, rappresenta una originale iconografia, basata su visioni simbiotiche fra uomo e natura e sulla solidarietà che lega tutti i viventi. Il piccolo bronzo, pare improntato ad una certa solennità rinascimentale, che rimembra i preziosi lavori di oreficeria del Cellini, grazie alla preziosa patina dorata che l’artista imprime a questa delicata composizione.  L’abitudine di allattare per anni trova la sua prima ragione nella povertà più assoluta, anche se tale pratica ha un benefico effetto nel ritardare la nascita di altri figli. Il latte al seno non costa niente ed anche se diventa sempre più scarso ed inadeguato può lenire i morsi della fame ad un bambino di 2-3 anni e nella stessa misura può salvare un piccolo agnellino che ha smarrito la mamma, come quello magistralmente descritto nell’opera in esame. Unico serio inconveniente di questa sofferta costumanza sono profonde e dolentissime fissurazioni nei capezzoli, le temibili ragadi, porta di ingresso delle più varie infezioni, ma il seno della nostra mamma ha resistito spavalda all’attacco dei denti del figliolo ed a testa alta regge la sfida solitaria in favore della solidarietà. Il volto è gioioso, il seno è impettito ed esuberante ed il capezzolo, spavaldo, sembra voler combattere la sua disperata battaglia contro la fame.
Achille d’Orsi intitola la sua opera Pathos (fig.5), ma sarebbe stato più esaustivo affiancare la parola Estasi, perché questa sensazione promana prepotente dalle leggiadre forme della fanciulla impressa nel bronzo in una posa tra eccitante e sensuale. L’opera fa parte di quella serie di splendide figure di donne, spesso colte in atteggiamenti drammatici e convulsi, ma che lo scultore ritrae nel pieno rinvigorimento tutto liberty delle forme e delle espressioni e nel compiacimento edonistico delle nudità muliebri. La carica erotica che emana dalla scultura è palpabile, ma l’artista non cede mai ad una sensualità volgare o eccessiva e vi riesce perché fa leva sulla grazia di due seni non aggressivi, due boccioli in fiore, fragranti di un profumo seducente in grado di attirare senza eccitare e di conquistare anche i più indecisi. Seni che mal sopportano di essere imbrigliati in leziosi corsetti, dei quali rifiutano il morso come puledri selvaggi, ansiosi di trottare senza sosta e senza meta, capaci di procurare morbosi desideri di futili piaceri.


fig. 4 - Vincenzo Jerace - Faunetta che allatta un agnellino  -bronzo - firmata e datata 1938 -  Napoli collezione privata

fig. 5 - Achille d'Orsi - Pathos - bronzo - 66- 34 - 32 - firmato - Roma collezione Chines


A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento l’arte di Costantino Barbella muta in direzione del Simbolismo ed il corpo femminile diviene il centro di una nuova osservazione secondo l’idea di una donna sensuale, orbitante nel decadentismo dannunziano. La ricerca del bello formale doveva avvenire sempre e soltanto attraverso la ripresa dal vero, che senza incertezza alcuna riusciva a ritrarre in scala, come nel caso di questa sensuale terracotta, giustamente denominata Ebbrezza (fig.6), nella quale uno splendido nudo femminile è languidamente disteso su un letto di rose ed invita a pensieri non proprio casti l’osservatore.
La stessa modella, ridente ancor d’infanzia e già schiusa nel fiore della prima adolescenza, dopo poco si alza e dà vita ad un’altra delle opere più famose del Barbella: Risveglio (fig.7), una statuina di piccole dimensioni, nella quale è sottolineata la sinuosità del corpo della donna, colta mentre si aggiusta i capelli, un gesto semplice di vita quotidiana. I capelli ondulati cingono la testa e si annodano sulla nuca; il collo è di una purezza perfetta, l’orecchio è piccolo, le mani e le braccia sono eleganti e forti, le reni sono falcate, il ventre sporge lievemente ed è quasi palpitante in una dolce elasticità di carne, mentre il seno è fiorente e diventa il centro dinamico della composizione.


fig. 6 - Costantino Barbella - Ebbrezza - terracotta - 30 - 63 - firmata - 1912 - Italia collezione Cauli

fig. 7 - Costantino Barbella - Risveglio - terracotta - firmata - 25 - 14 - 14 - Chieti museo Barbella


Grande successo ebbe la Venere che avvolge la chioma (fig.8) di Giovan Battista Amendola quando fu esposta nel 1903 alla V Internazionale di Venezia. Una Venere antica per purezza di linee, eleganza di forme, verità di nudo; donna più che dea, che abbaglia con lo splendore della superba anatomia, ma anche con quell’aurea di vitalità che le toglie l’aspetto glaciale dell’immagine, raggiungendo un vertice della rappresentazione artistica.  La scultura raffigura la dea mentre una leggera brezza scompiglia i suoi capelli ed accarezza il suo corpo vellutato, gloriosamente nudo. Il suo prezioso seno, eretto e valoroso, sembra pervaso da una generosità spontanea che invita alla serena contemplazione e fuga i cattivi pensieri. La misura geometrica di questi seni è in armonia con l’altezza e la forma del resto del corpo. Sono magicamente a posto nella loro perfezione. Rivelano inoppugnabilmente la materializzazione della grazia e della finezza. Lo scorrere dei secoli e l’evoluzione non potranno superare la semplice impostazione e la felice collocazione nello spazio e nel tempo di questi seni, leggiadri ed agili, scattanti e pronti al combattimento.
Sono l’indefettibile testimonianza dell’infinita misericordia e lungimiranza del Creatore.


fig. 8 - Giovan Battista Amendola - Venere che si avvolge la chioma  - 1886 circa - bronzo - 85 - 26 - 26 - Roma collezione Chines

Tito Angelini, noto scultore neo classico ed a lungo docente nell’Accademia di Belle Arti di Napoli, ci raffigura la nostra progenitrice Eva (fig.9) come figura isolata, prima di sedurre Adamo, in compagnia del serpente e della mela. Si tratta del primo nudo in assoluto a cui ne seguiranno infiniti altri. Eva è effigiata come una giovane e bella donna nuda, una Venere ante litteram, dai lunghi capelli, di una allusiva sensualità, a simboleggiare il pericoloso fascino femminile, con una resa morbida del modellato ed un’attenta definizione dei particolari anatomici. Da quel nudo sono cominciati per l’umanità gioie e dolori in egual misura.

fig. 9 - Tito Angelini - Eva - marmo bianco - ante 1902 - 50 - 28 - 24 - Napoli Galleria dell'Accademia di Belle Arti

Esaminiamo ora due sculture in cui le modelle assumono posizioni acrobatiche per mettere in mostra con sprezzo del pericolo e consumata perizia le proprie grazie all’osservatore. La prima (fig.10), un bronzo di Vincenzo Jerace ci mostra una vera sfida alle leggi della gravitazione con la fanciulla in preda a spasmodiche torsioni, nella seconda (fig.11) di Antonio De Val, la fanciulla si esibisce in una sorta di danza del ventre a cui partecipa attivamente anche il seno, mentre il pomo assume un significato simbolico come invito al peccato ed alla trasgressione. Sono due lavori che non sfigurerebbero tra le pagine del Kamasutra, capolavoro della letteratura erotica di tutti i tempi, famoso codice indiano delle posizioni dell’amore scritto in sanscrito tra il IV ed il VII secolo, arricchito di immagini esplicative da artisti di ogni latitudine. Nel Kamasutra si dedica, come nei due bronzi in esame, particolare attenzione ai seni che portano i segni dei graffi di un amante in estasi. Un grosso graffio vicino al capezzolo veniva definito il salto della lepre e le donne erano orgogliose di mostrare alle altre donne questi trofei d’amore come prova inoppugnabile del successo con i propri amanti.
Vogliamo concludere questa nostra carrellata tra arte ed erotismo dedicando la nostra attenzione, dopo la glorificazione di tanti seni, al non meno invitante lato B. 


fig. 10 - Vincenzo Jerace - Acrobazia -bronzo - firmata e datata 1938 -  Napoli collezione privata

fig. 11 - Antonio De Val - La danza del pomo - bronzo ante 1929 - Napoli collezione Tullia Gargiulo

Gli psicanalisti, nelle loro dotte elucubrazioni hanno diviso gli uomini in due distinte categorie: ciuccioni, che inseguono per tutta la vita il seno delle donne, per rammentarsi di quello della mamma e feticisti, adoratori più o meno espliciti del sedere quale fonte di sfrenata fantasia alla ricerca di piaceri raffinati.
La scultura in primis, ma anche la pittura,  il cinema, i rotocalchi, i concorsi di bellezza hanno nei secoli glorificato questo prezioso attributo femminile e, mentre Tinto Brass, con ambizioni filosofiche, ha scritto un piccolo trattato sull’argomento, noi vogliamo proporre alcune immagini per la gioia degli occhi e per gli spericolati ed innocui giochi della fantasia.
L’arte ha sempre dedicato grande attenzione alla bellezza femminile soprattutto la statuaria che, con la rigida fissità della materia, ben rende la ricercata consistenza coriacea dell’attributo, come nella Danaide (fig.12) eseguita da Luigi de Luca e conservata in quella preziosa quanto misconosciuta raccolta del Circolo artistico Politecnico, sito in Napoli in piazza Triste e Trento. L’artista è in grado con rara maestria di fermare l’attimo e lo spirito fluttuante nella materia, fissando nella cruda anatomia l’anima assetata di vita che freme nel marmo. In uno spazio ristretto sa collocare un’infinità di sottigliezze ed emozioni, donando un magico dinamismo alla fissità della materia.

fig. 12 - Luigi de Luca - Danaide - marmo - 47 - 77 - 38 - firmata e datata 1927 - Napoli circolo artistico politecnico

Di Tommaso Solari è una splendida statua (figg.13-14), che mostriamo fronte retro, già appartenente alla raccolta di Casa Reale ed oggi conservata nella prestigiosa sede del museo di Capodimonte. Denominata Baccante, la giovane donna ha il capo cinto da una corona di pampini e solleva una coppa di vino. L’atteggiamento rilassato della figura, appoggiata ad un tronco d’albero, ricoperto quasi interamente dalla pelle di un felino, indurrebbe più verosimilmente ad identificare l’immagine con quella di Onfale. Ella si predispone all’occhio esterrefatto dell’osservatore, creando intorno a sé una nicchia dove un compagno di avventura è invitato come amante, ad accarezzare le sue forme generose di divinità dell’opulenza e nello stesso tempo di brava ragazza. Niente di più moderno di questo epicureismo alleggerito da ogni totem e tabù vittoriano.

fig. 13 - Tommaso Solari - Baccante - marmo - 172 - 55 - 62 - intorno 1850 - 60 - Napoli museo di Capodimonte

fig. 14 - Tommaso Solari - Baccante - marmo - 172 - 55 - 62 - Napoli museo di Capodimonte

Il nostro discorso potrebbe dirsi concluso, ma trovandoci a Napoli, non possiamo non ricordare un capolavoro assoluto, anche se eseguito fuori dei termini temporali prefissati e da un artista non indigeno. Nel luogo più esoterico di Napoli, la Cappella San Severo, regno dei mirabolanti esperimenti del principe Raimondo di Sangro, affianco al famosissimo Cristo velato, trova posto una statua allegorica: la Pudicizia (fig.15), realizzata nel 1752 dallo scultore veneto Antonio Corradini. Il monumento funebre è dedicato a Cecilia Gaetani d’Aragona, madre del principe, morta quando il figlio era in tenerissima età. Il Corradini, già famoso per aver realizzato figure velate, pare che a Napoli abbia raggiunto la perfezione grazie all’aiuto del principe, esperto di alchimia e di pratiche di trasmutazione della materia. La figura della giovane donna, completamente nuda e di rara bellezza, è ricoperta da un velo di marmo straordinariamente aderente alla pelle, leggerissimo, naturale, impalpabile che lascia vedere chiaramente il delicato contorno dei seni, sodi, sormontati da un altero capezzolo appuntito. L’artista raggiunge una perfezione assoluta nel modellare il tenue velo marmoreo sul delizioso corpo della donna con estrema eleganza e sobrietà, come se un vapore esalato da un bruciaprofumo contribuisse a rendere umido e tenacemente aderente alla cute lo strato impalpabile, interrotto orizzontalmente da un serto di rose. Lo sguardo smarrito nel tempo e la lapide spezzata sono i simboli di un’esistenza troppo presto troncata e palesano il tangibile ed ancora cocente desiderio del figlio Raimondo, che volle così tramandare le virtù, ma anche le splendide fattezze della giovane madre, il cui seno superbo aveva trasmesso gioia di vivere ed a lungo avrebbe potuto tenere accesa la fiamma del desiderio.
Il bassorilievo posto sul basamento descrive l’episodio evangelico del Noli tangere a conferma di una dolorosa quanto definitiva impossibilità di ogni contatto umano ed a ricordarci la caducità del corpo e la vanità delle forme, anche le più sublimi quali i seni della giovane donna, esaltati da un velo magico di sovrumana bravura.

Achille della Ragione

fig. 15 - Antonio Corradini - Pudicizia - 1752 - Napoli Cappella San Severo





mercoledì 9 marzo 2016

Due importanti aggiunte al catalogo di Giuseppe Marullo

01 - Giuseppe Marullo - Loth e le figlie - Napoli collezione privata

Su Giuseppe Marullo pesa ancora il giudizio negativo di Raffaello Causa, che lo definì ” un ritardatario ispido e legnoso”, per cui sul pittore è sceso l’oblio e pochi studiosi sono in grado di riconoscerlo agevolmente nel limbo degli ignoti, anche se oramai i suoi caratteri distintivi sono stati focalizzati dalla critica più avvertita e sono: quando sono presenti figure femminili, l'utilizzo prevalente delle stesse modelle e, patognomonica, la presenza sul volto di un'ombra parziale sulla guancia sinistra; mentre una caratteristica che contraddistingue tutti i Bambin Gesù realizzati dall’artista presentano la fila dei capelli, costantemente biondi, che sale in profondità nel cuoio capelluto, spesso accompagnata dalla mano che indica con uno o due dita una direzione.
Il risultato è una serie di attribuzioni fantasiose, che vengono continuamente proposte per dipinti da assegnare con certezza a Marullo, mentre autografi ineccepibili non vengono riconosciuti.
Tra gli errori più clamorosi questo Angelo custode (fig.10) di piacevole fattura, in collezione Onofri a Roma, già  impropriamente assegnato ad Agostino Beltrano, mentre Stefano Causa, lo aveva collocato giustamente nell’ambiente artistico ruotante attorno ad Artemisia Gentileschi negli anni durante i quali era impegnata alle tele della Cattedrale del Duomo di Pozzuoli. Di recente l’ex sovrano di Capodimonte lo ha attribuito a Marullo, mentre noi riteniamo senza ombra di dubbio che il dipinto debba essere assegnato ad Onofrio Palumbo, collaboratore della pittrice, per  raffronti con il collega… che compare nella Natività di collezione privata napoletana, con il personaggio in basso a sinistra nella Madonna della Purità di S. Maria Egiziaca a Pizzofalcone e, per un particolare del volto, con uno degli astanti ai piedi della Crocefissione della chiesa di Santa Maria Apparente (pur tenendo conto che questo ultimo dipinto secondo Porzio è opera di Francesco Glielmo). La tela romana è definita con una materia pittorica densa, che tende a coagularsi nell’incarnato, distendendosi poi al taglio della luce.
La biografia del Marullo è incerta, come il suo cammino artistico, soprattutto negli ultimi anni della sua attività, ai quali, fino all'uscita della mia monografia: Giuseppe Marullo opera completa (consultabile in rete digitandone il titolo) la critica aveva dedicato poca attenzione.
Parte della  sua produzione è caratterizzata «dal gesto teatrale e dall’espressione talvolta carica in maniera artificiosa» (Ascione), mentre in molte sue tele, come la Pesca miracolosa, il suo capolavoro, o il San Pietro, firmato, di collezione privata, le teste dei personaggi posseggono un imprinting caratteristico, allungato e spigoloso, che richiama prepotentemente il tipico stile del Greco pre spagnolo, probabilmente studiato dall’artista durante qualche visita di aggiornamento a Roma. Questa lampante similitudine è rimasta sorprendentemente a lungo misconosciuta dalla critica fino a quando non è stata evidenziata dal De Vito in una breve nota del 1984.



02 - Giuseppe Marullo - Loth e le figlie(particolare dei volti) - Napoli collezione privata

03 - Giuseppe Marullo - Loth e le figlie (particolare della brocca)- Napoli collezione privata

04 - Giuseppe Marullo - Loth e le figlie(particolare dei volti di Loth ed una figlia) - Napoli collezione privata

05 - Giuseppe Marullo - Loth e le figlie(particolare dela figlia a sinistra) - Napoli collezione privata

06 - Giuseppe Marullo - Loth e le figlie(particolare del cono d'ombra sulla guancia) - Napoli collezione privata

07 - Giuseppe Marullo - Loth e le figlie (particolare del volto di Loth) - Napoli collezione privata

08 - Giuseppe Marullo - Loth e le figlie (particolare dei piedi di Loth) - Napoli collezione privata


La rivalutazione dell'attività dell'artista è imperniata sulla comparsa sul mercato delle aste internazionali di alcune sue tele di altissima qualità, che hanno raggiunto cospicue quotazioni, come è il caso della Fuga in Egitto (fig. 11), battuta il 9 luglio del 2003 da Sotheby's a Londra, la quale, dopo un'accanita gara al rialzo, ha stracciato ogni precedente record di aggiudicazione per un dipinto di un minore... napoletano: 280.000 euro, come dire oltre mezzo miliardo delle vecchie lire; un ingresso trionfale tra i top ten della prestigiosa casa d'aste londinese. E dopo poco a New York è stato battuto un altro quadro di spettacolare bellezza, una replica con varianti  dell'Incontro di Rachele e Giacobbe di collezione Luongo a Roma, vendita che ha suscitato l'interesse di una raffinata platea di collezionisti internazionali.
Inoltre, anche sul mercato antiquariale, negli ultimi anni sono riemerse altre tele del nostro pittore, fino ad oggi un dimenticato stanzionesco, noto soltanto ai napoletanisti più esperti. Ma, dopo la scoperta delle sue ultime opere, individuate anche in collezioni private, la figura di Giuseppe Marullo esige una rivalutazione in senso critico, almeno della sua fase giovanile, la più esaltante. Non più un tardo e pedissequo imitatore dei modi stanzioneschi, come la critica a partire dal De Dominici lo ha sempre inquadrato, bensì una feconda personalità autonoma capace di fondere e rivisitare le maggiori parlate della pittura napoletana intorno alla metà del Seicento. Si tratta semplicemente di recuperare la posizione occupata dal Marullo negli anni, oltre cinquanta, della sua attività, quando godette certamente di buona fama, come dimostrato dalla presenza di numerosi suoi quadri negli inventari delle più importanti famiglie napoletane dell'epoca.
Presentiamo ora due inediti dell'artista, precisando che si tratta di passaggi dall'anonimato all'attribuzione certa sulla base dell'identificazione di alcuni segni distintivi che vanno ad integrare l'elenco delle molte tele datate e firmate.
Il rimo è un vero e proprio capolavoro: un Loth e le figlie (fig. 1) del quale nessuno era riuscito ad identificare la paternità, che richiama a viva voce la paternità del Marullo per vari dettagli, in primis il patognomonico cono d’ombra sulla guancia sinistra di una delle due figliole (fig. 6) del vegliardo (fig. 7), il quale ricorda altri personaggi con folta barba che ritroviamo in tele firmate o documentate del Nostro artista.(vedi nella mia monografie le tavole 2 – 4 – 9 – 17 – 18 – 37 – 38 – 48) e tra le immagini che proponiamo la fig. 11.
Molto accurati ed eleganti sono anche molti particolari,  dall’inserto di natura morta  posto in basso a destra della composizione alla sfarzosa brocca utilizzata dalla maliziosa figliola per inebriare il genitore ed indurlo all’incesto.
Di matrice riberiana i piedi di Loth (fig. 8), indagati nella loro bruttezza con spietato realismo, a differenza dei volti dolcissimi delle fanciulle (fig. 2 – 5 – 6), che si rifanno alle tenere rappresentazioni del miglior Stanzione.
Il secondo inedito che presentiamo è un Riposo durante la fuga in Egitto (fig. 9) di una privata raccolta romana, in attesa di pulitura, che possiamo collocare cronologicamente agli anni d’oro della produzione dell’artista, intorno alla metà del secolo.
Si tratta di un’iconografia raramente trattata dal Marullo ed oltre al già citato dipinto (fig. 11) dalla quotazione record possiamo citare nei depositi dell'Accademia delle Belle Arti a Napoli, in pessimo stato di conservazione,  è un Riposo durante la fuga in Egitto (fig. 12), di autografia border line, non citato da alcuna fonte, che cronologicamente può collocarsi in contiguità con la Sacra Famiglia, già nella chiesa di Santa Patrizia.

Achille della Ragione



09 - Giuseppe Marullo -  Riposo durante la  fuga in Egitto - Roma collezione privata

010  - Onofrio Palumbo - Angelo custode - Roma collezione Paolo Onofri

011 - Giuseppe Marullo - Fuga in Egitto - Londra Sotheb's  2003

012 - Giuseppe Marullo - Riposo durante la fuga in Egitto - Napoli Accademia di Belle Arti (depositi)

lunedì 7 marzo 2016

Antiche tradizioni in un mare di storia e di bellezza



01 - Festa di S. Anna

La bellezza del golfo di Napoli è accresciuta dalle stupende isole che gli fanno da corona: Capri, Ischia e Procida, in rigoroso ordine alfabetico. Una romana, l’altra greca, le prime due gareggiano per bellezza, monumenti e cucina. Due gemelle diverse, amate in egual misura da vip e turisti mordi e fuggi, con le loro attrazioni celebri in tutto il mondo, in grado di calamitare fiumane di visitatori, dalla Grotta Azzurra a Villa Jovis, dalle terme Poseidon ai giardini della Mortella, senza dimenticare l’incanto di Procida con l’Oasi di Vivara, dove il tempo sembra essersi fermato.
Napoli, senza le sue isole che la contornano e lo stretto legame che ogni giorno si rinnova, non sarebbe la stessa, privata di quella preziosa corona di gemme che la circonda; distinte per la loro diversa conformazione in “virgiliane” quelle flegree, tufacee ed “omeriche” quelle della costiera sorrentina, “dolomitica” Capri.
Gli abitanti delle isole presentano caratteristiche comuni, influenzate dal mare che li delimita, il quale determina anche un particolare sviluppo dell’economia, della vita sociale, delle tradizioni civili e religiose.
Nel microcosmo isolano assume un ruolo trainante la formazione scolastica di matrice marinaresca con prevalenza di istituti nautici e professionali marittimi, i culti religiosi indirizzati alla venerazione di santi in qualunque modo legati alle acque, come San Francesco di Paola o Santa Restituta, le tradizioni popolari, con processioni caratterizzate da parziali percorsi tra le onde, come per la festa di San Vito, mentre le chiese sono piene di ex voto e quadretti d’argomento marinaro, ma, soprattutto, le attività commerciali ed artigianali, prima di essere soppiantate dalle attività turistiche, ruotano quasi tutte intorno al mare, dall’armamento navale alla pesca.
Ogni isolano subisce un’attrazione fatale con il proprio scoglio e, se deve recarsi sulla terraferma per acquisti od altre incombenze, non vede l’ora di tornare a casa ed è attaccato alla sua isola più che un cittadino alla sua città o un paesano alla sua cittadina.
Ischia, prima dei Romani, era colonia greca e più tardi è stata interessata dai flussi turistici, specialmente tedeschi. Tra i turisti affezionati un posto di rilievo è occupato dalla cancelliera Angela Merkel, da decenni habituè dell’isola, da quando, in quel di Sant’Angelo, prendeva il sole “nature”: oggi, dopo aver pagato regolarmente il biglietto dell’aliscafo, va a cenare a casa dell’amico Jacono, il maitre licenziato dall’albergo in cui trascorre da anni le sue vacanze, ancora in grado di preparare per lei ed il marito gustosi manicaretti.
Rimanendo in ambito gastronomico, si può andare ad Ischia o a Capri anche soltanto per gustare le prelibatezze della tradizione culinaria partenopea, dalla spigola al calamaro, dai timballi di maccheroni al ragù fino alle deliziose pastiere, mentre Ischia è famosa per il coniglio, cotto lentamente nel coccio secondo svariati modi al punto che ogni casa crede di essere l’unica titolare della vera ed unica ricetta, tramandata da generazioni.
Anche Ischia, isola verde per eccellenza, ha i suoi trionfi di bouganville e gelsomini. Che dire dei giardini Poseidon dove le vasche si susseguono a picco sul mare e si passa dal tiepido amniotico al caldo vulcanico ed al fresco dolce, mollemente adagiati nell’acqua termale su cui galleggiano petali di rose? E se proprio volete un tocco di chic, abbiamo ancora il giardino della Mortella, il giardino del raffinato sir William Walton, musicista e gaudente, davvero splendido. In alto sul mare di Forio, è un delicato e metamorfico delirio di piante tropicali che nella terra calda prosperano felici, mescolando orchidee rarissime a palme arcane: pochi passi in mezzo a questi tropici mediterranei e ci si trova in un altro mondo, in un’epoca in cui la bellezza si trasformava in musica della realtà.
Ischia durante l’estate raggiunge i 500.000 abitanti e lungo le sue coste si muovono migliaia di natanti, dal gozzo dell’impiegato o del piccolo commerciante alle lussuose imbarcazioni da nababbo, lunghe decine di metri e cariche di donne tenebrose ed affascinanti. E, nonostante la grande confusione e l’inevitabile aumento dell’inquinamento, ci sarebbe da rallegrarsi, segno che l’economia, principalmente quella sommersa, non va così male come vogliono convincerci i nostri amati governanti ideatori della prossima severa finanziaria.
Le feste religiose sulle isole offrono spesso uno spettacolo toccante: la processione per le acque della statua del santo che si celebra. Questo accade anche a Lacco Ameno in occasione di una delle feste più grandiose dell’isola: la festa di Santa Restituta.


03 - Festa di S. Restituta

Oltre che per il significato religioso, la Festa di Santa Restituta, a Lacco Ameno, è importante perché sancisce l’inizio della bella stagione sull’isola d’Ischia. Non l’inizio della stagione turistica, che per convenzione coincide con l’avvento della Pasqua, ma proprio l’inizio dell’estate. Insomma, mare, sole, spiagge e tutto l’immaginario tradizionalmente associato a una località balneare. Del resto, maggio è il mese ideale per visitare Ischia. Le giornate si allungano, le temperature aumentano gradualmente e ancora non c’è la calca di luglio e agosto.
Ma torniamo alla festa di Santa Restituta. Uno dei momenti più importanti delle celebrazioni – il clou dei festeggiamenti è il 16, 17 e 18 maggio – è la rappresentazione dello sbarco della martire tunisina sulla spiaggia di San Montano. Leggenda vuole che il corpo esanime della santa sia approdato sulle coste di Lacco Ameno dopo esser miracolosamente scampata al fuoco che i romani le avevano “riservato” per punizione. Santa Restituta, infatti, è una dei 49 martiri di Abitina, i cristiani processati e giustiziati nel 304 in Tunisia per non aver rinunciato alla loro fede; e assai venerati, per questo, dalla Chiesa cattolica.
Sempre secondo la leggenda, subito dopo lo sbarco, sulla spiaggia di San Montano fiorirono migliaia di gigli bianchi, da quel momento associati alla venerazione della santa divenuta in seguito patrona di Lacco Ameno. Figura centrale del racconto è anche una donna del posto – Lucina, il nome – che, avvertita in sogno della presenza, sulla spiaggia, della martire africana, si assicurò di darne degna sepoltura ai piedi della collina di Monte Vico, proprio dove oggi sorge la Chiesa di Santa Restituta.
Leggenda o no, è un fatto che sotto la cripta della basilica, negli anni ’50 del secolo scorso furono rinvenuti diversi reperti attestanti la presenza in loco di un antico cimitero paleocristiano, a conferma della profondità della fede sull’isola d’Ischia.
Merita una visita anche la chiesa, secondo alcuni la più bella dell’isola. Si trova al termine del corso Angelo Rizzoli, di fianco all’attuale municipio costruito dai frati Carmelitani. Pianta rettangolare, navata unica e soffitto cassettonato, la chiesa è piena di ex voto dedicati alla Santa, cui del resto era assai devoto anche il poeta francese Alphonse De Lamartine, uno degli ospiti illustri di Casamicciola, che nell’agosto del 1844 le dedicò addirittura una poesia, dal titolo emblematico, “Il Giglio di Santa Restituta”.
L’appuntamento, perciò, è per la sera del 16 maggio, quando sulla spiaggia di San Montano viene rievocata l’epopea di Santa Restituta. Da non perdere anche la processione via mare e i spettacolari fuochi pirotecnici dell’ultimo giorno, a chiusura della manifestazione.
San Vito è il santo patrono del comune di Forio d'Ischia e sono dedicati alle feste ed alle celebrazioni religiose ben 4 giorni.
Per l'occasione tutto il paese e' in festa perché questa ricorrenza è molto sentita dagli abitanti del comune e non solo. Sono tantissimi i turisti che si riversano nelle strade in questi giorni. La festa è caratterizzata da due momenti che ne formano un unico cuore. Il tradizionale omaggio culturale dei fedeli al santo patrono in tutta una serie di momenti religiosi e la tradizionale fiera nel centro e lungo la marina, arricchita da tutta una serie di concerti e momenti bandistici. I festeggiamenti si hanno dal 10 al 17 di Giugno.
Il 14 di giugno si celebrano le messe, in serata, nel piazzale di San Vito vi si ha la rappresentazione storica tradizionale della vita del patrono e del suo legame col comune. Il 15 di giugno, giorno di San Vito, si celebrano messe in continuazione, ed in mattinata una banda musicale gira per le strade cittadine. Nel pomeriggio la statua è portata in processione per le strade di Forio e sul porto verso le ore 18.00 un primo spettacolo di fuochi pirotecnici. Il 16 nel pomeriggio, il Santo e' portato in processione via mare con la commemorazione dei caduti con la partecipazione dell'A.N.M.I. e dell'associazione pescatori  San Vito di Forio.
Al rientro benedizione eucaristica e successivamente in piazza Municipio un nuovo concerto. La conclusione dei festeggiamenti è caratterizzata da una famosa ed attesa esibizione di spettacolari fuochi pirotecnici, che ha inizio alle ore 00.30 circa.
La festa di San Vito, che cade alla metà del mese di giugno, è molto sentita dagli abitanti di Forio d’Ischia, che ogni anno portano in processione per le strade del Comune la bella statua.
La scultura di San Vito è in rame e argento e venne disegnata dallo scultore Giuseppe Sanmartino (autore anche del Cristo Velato presente a Napoli nella cappella San Severo) e colata da due orafi napoletani nel 1787 (ma il culto del Santo è molto più antico). L’opera di rivestimento di oro della statua fu finanziata addirittura attraverso una tassa su tutte le caraffe di vino vendute nelle osterie.
Vito era un giovane cristiano forse di origine siciliana, che durante le persecuzioni dell’imperatore Diocleziano fu martirizzato per non aver voluto rinnegare la propria fede. La statua di San Vito lo raffigura, quindi, come un ragazzo che porta la palma del martirio; accanto a lui sono seduti un cane ed un leone, tradizionalmente associati a questo Santo, mentre il grappolo d’uva fra le mani, lo collega specificamente all’isola.
Il cane è il simbolo che indica la protezione del Santo contro malattie neurologiche, come per esempio quella che popolarmente viene chiamata “Ballo di San Vito”. Si racconta che San Vito guarì dalla malattia (l’epilessia) il figlio dell’imperatore Diocleziano.
Il leone sta a ricordare presumibilmente uno dei martiri che San Vito subì: fu dato in pasto ai leoni, ma essi lo risparmiarono rimanendo mansueti.
Veniamo al grappolo d’uva: nell’Ottocento i vigneti ischitani furono colpiti da gravissimi attacchi di crittogama, un fungo che distruggeva le piante. L’economia di tutta l’isola, e di Forio in particolar modo (poiché in questa zona la superficie coltivata a vite era assai estesa), fu messa in grave crisi.
Naturale che i contadini e le loro famiglie chiedessero aiuto al Santo patrono: la leggenda dice che una barca carica di zolfo, il rimedio che salvò i vigneti ischitani, fu fermata al largo di Forio proprio da S. Vito, che pagò la salvifica sostanza con un anello che apparteneva alla sua statua. In realtà, lo zolfo arrivò sì via mare, ma portato dai tre fratelli Sanfilippo, provenienti dalle Eolie (dove si trova zolfo in grande quantità) e furono essi a farlo conoscere ai disperati vignaioli ischitani.
Tuttavia, il suggestivo racconto dell’aiuto recato da San Vito ai suoi fedeli è più che mai vivo nelle famiglie foriane, al punto che durante la festa si usa adornarne la statua con grappoli d’uva appena raccolti, ancora acerbi essendo il mese di giugno, ma irrorati di zolfo, come tuttora si usa nelle vigne isolane.
La Festa a mare agli scogli di Sant’Anna è la più importante sagra estiva dell’isola d’Ischia. Si svolge la sera del 26 luglio a partire dalle 21 ad Ischia Ponte, che un tempo si chiamava il Borgo di Celsa, nello scenario della  baia di Cartaromana con una sfilata di barche allegoriche, l’incendio simulato del Castello Aragonese ed ancora con uno straordinario spettacolo di fuochi d’artificio che si possono vedere anche dalla vicina isola di Procida e da quella più lontana di Capri.
Vi assistono migliaia di turisti e di isolani seduti sugli scogli del pontile aragonese o nelle barche che a centinaia si posteggiano in questo meraviglioso specchio d’acqua dove la natura si confonde con la storia e non sai chi prevale. 
La festa nacque nel 1932 per iniziativa di un gruppetto di amici. Racconta nelle sue memorie, Michelangelo Patalano, uno dei promotori che “avevamo notato negli anni precedenti che la sera del 26 luglio parecchie barche di pescatori con a bordo le famiglie si recavano a recitare il Rosario davanti alla chiesetta di S. Anna dopo di che si consumava a mare una cena a base di coniglio e di melanzane alla parmigiana e pensammo di formare un comitato per una sfilata di barche addobbate e lampade sulle colline di Campagnano e di Soronzano”. Patalano ed i suoi amici non immaginavano che stavano portando alla luce antiche tradizioni e consuetudini, memorie legate ai luoghi e alla loro storia. Nel corso degli anni sono cambiati i temi delle barche addobbate – dalla canzoni napoletane alle antiche tradizioni isolane – ma è rimasto sempre lo stesso spirito.
“La baia di Cartaromana è uno specchio d’acqua, dove nel tempo gli Ischitani hanno trasposto in segni di espressività rituale il ciclo intero della loro vita: la nascita, con la processione delle partorienti alla chiesetta di Sant’Anna, la condivisione del pasto a mare nelle sere d’estate, che è la consuetudine da cui ha avuto origine l’idea di addobbare le imbarcazioni, sviluppatasi poi negli anni fino a definirsi nella sfilata delle barche allegoriche, e ancora l’addio alla vita, con la consuetudine del funerale per mare, che aveva nel cimitero colerico di Sant’Anna il suo approdo e che ispirò ad Arnold Böcklin il suo dipinto più famoso, L’isola dei morti”.
La Festa si svolge nel “cielo” di una città sommersa, l’antico porto romano di Aenaria, già noto dalle fonti letterarie e storiche, e i cui resti archeologici sono stati scoperti grazie alle recenti campagne di scavo.
Come ogni Festa, l’evento, nel suo svolgimento, recupera ed esalta la trama di relazioni spaziali e simboliche dei luoghi: il legame tra la Torre di Sant’Anna, meglio nota come Torre di Michelangelo, e il Castello Aragonese come contrapposizione della Villa rinascimentale al contesto fortemente urbanizzato dell’insediamento sull’Insula minor, il rapporto tra la collina di Soronzano e il Castello Aragonese come tra rilievi che si fronteggiano, l’alterità fortemente simbolica della Chiesetta di Sant’Anna e del cimitero rispetto al Borgo di Celsa, la natura liminare degli scogli di Cartaromana” continua Ronga.
Da tempo si vuole porre particolare attenzione al rapporto tra la città sommersa di Aenaria e la baia con le sue pregevolezze storico-artistiche, sia attraverso la realizzazione di itinerari culturali che nei giorni precedenti alla celebrazione della Festa consentano di visitare i luoghi (visite guidate, sistema di pannelli informativi, incontri culturali e spettacoli), sia disegnando nella struttura narrativa stessa dell’evento un percorso che promuova la diffusione e la conoscenza del sito archeologico.
La Festa si caratterizza per la sfilata delle barche allegoriche. Sono macchine sceniche galleggianti che s’ispirano a temi legati all’isola. Artisti, scrittori, musicisti e studiosi, che hanno frequentato l’isola e l’hanno raccontata nelle loro opere sono gli autori dei temi delle barche. Grazie ai loro scritti, appositamente elaborati per le barche allegoriche, queste personalità del mondo della cultura e dell’arte diventano testimoni, ultimi viaggiatori sulle orme del Grand Tour. Sono stati scelti quattro autori che hanno scritto di Ischia Vinicio Capossela, Erri De Luca, Elio Marchegiani e Andrej Longo ai quali dovranno ispirarsi i costruttori delle 4 barche in gara mentre ci saranno altre tre barche fuori concorso.
“Le barche allegoriche sono realizzate da gruppi di artigiani, carpentieri e artisti, che rappresentano identità locali fortemente caratterizzate, “isole” riconoscibili per storia, tradizioni ed economia, lungo un percorso dal mare alla montagna carico di suggestioni storiche e letterarie, sulle tracce dei fuochi accesi anticamente in onore di Sant’Anna, dalla cima dell’Epomeo fino alla baia di Cartaromana”.
La sfilata delle barche allegoriche è una competizione. Una giuria, composta da esperti nel campo artistico, scenografico e architettonico, giudica e premia le barche stilando una classifica, in base alla quale i gruppi partecipanti ricevono un rimborso spese per la realizzazione della macchina scenica.
Ad aprire questo anno la serata del 26 luglio  ci sarà una sfilata di alcune barche allegoriche fuori concorso. Saranno installazioni galleggianti che illustreranno aspetti della storia della Festa, richiamando quelle tradizioni che nel corso degli anni hanno dato origine alla sfilata delle barche allegoriche. Le  strutture, inoltre, rievocheranno anche l’evoluzione storica della barca allegorica: dal gozzo alla zattera.
Le installazioni artistiche saranno collocate nei giorni precedenti alla sfilata (a partire da mercoledì 23 luglio) a Piazzale Aragonese e a Piazzale delle Alghe, disegnando, con l’ausilio di pannelli e didascalie, un percorso che illustrerà anche l’evoluzione della barca allegorica nella sua struttura portante, dal gozzo alla zattera. Saranno poi calate in mare nel pomeriggio del 26 luglio, realizzando un rituale di grande suggestione.
L’evento si conclude sempre con lo spettacolo di fuochi che coinvolge tutta la baia. Le numerose “lampetelle” poste sugli scogli di Sant’Anna, sui bastioni del Castello aragonese, sui merli della Torre di Sant’Anna, sui balconi del Borgo, disegnano una cornice scenografica di grande suggestione. Lo spettacolo dei fuochi e l’incendio simulato del Castello aragonese recuperano la memoria del cannoneggiamento dell’antica città sullo scoglio da parte degli Inglesi sulla collina di Soronzano agli inizi dell’Ottocento. E’ questo un momento spettacolare, tradizionalmente atteso dal pubblico che si assiepa sugli scogli e sulle imbarcazioni intorno allo specchio d’acqua della baia, che trasforma l’isolotto del Castello in una macchina scenica galleggiante, la più grande e poetica delle barche allegoriche.

Achille della Ragione


02 - Festa di San Vito