Il colore che porta la gioia di vivere
Fino al 15 giugno a Ferrara, al Palazzo dei Diamanti si potrà ammirare l’opera di uno dei giganti del Novecento Henri Matisse in una retrospettiva con oltre 100 opere tra dipinti, sculture, disegni e collages.
L’artista al Salon d’Automne di Parigi del 1905 con un gruppo di colleghi, espose un gruppo di opere con un uso spregiudicato del colore e l’abbandono dei requisiti formali della figurazione.
La critica parlò con disprezzo di aberrazione cromatica, al punto che i pittori seguaci del nuovo verbo furono definiti fauves, cioè belve.
Tale movimento intese il colore in funzione espressiva e non più come imitazione della realtà. Colori puri, applicati in larghe stesure con pennellate sciolte tali da esaltare la loro innata potenzialità, per divenire automa fonte di sensazioni ed emozioni. Nessuno tuttavia, partendo dall’esperienza “fauvista”, spinse poi tanto avanti e tanto in alto la propria ricerca, quanto Henri Matisse (Le Cateau 1869-Cimiez, Nizza 1954), la cui opera, insieme a quella di Picasso e di Klee, forma le principali direttrici dell’arte contemporanea. Già nell’ambito del movimento Fauvisme la sua pittura, pur nell’esaltazione del colore, si distingue per un’innata tendenza all’ordine compositivo e alla chiarezza formale, come mostra il Ritratto con la riga verde del 1905 in cui egli ottiene una sorta di modellato cromatico per mezzo di inversioni e opposizioni di colori complementari.
Successivamente lo stile di Matisse evolve verso una stesura pittorica più liquida e trasparente in cui le zone di colore puro sono arginate dalla linea sottile di un raffinato disegno che tende a ricomporre forme di dichiarato effetto decorativo (Figura decorativa su sfondo ornamentale, 1927). Tra le sue fonti d’ispirazione sono, oltre Cézanne, le stampe giapponesi, l’arte musulmana e bizantina, i primitivi italiani, tutto ciò che lo conduce a organizzare per mezzo del colore e della linea quello “spazio spirituale” in cui si dispongono con poetica armonia oggetti e figure. “Ciò che sogno – egli scriveva nel 1908 – è un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza oggetto inquietante e preoccupante…”. Sogno che egli sempre perseguì con costanza e coerenza, dalle opere giovanili eseguite alla maniera puntinista (Luxe, calme et volupté, 1904, Parigi, Musée d’Orsay) ai quasi astratti profili ritagliati su campiture monocrome (bianco e blu) delle “gouaches découpées” prodotte dopo il 1950.
La nascita precoce dell’artista (1869-1954) ha rischiato di imprigionarlo per sempre nell’intimismo fin-de-siècle, quasi confuso tra i Nabis da cui separavano solo pochi anni, e dunque gliene è venuto un compito analogo a quello toccato a Vuillard e a Bonnard di saltar fuori dalle spire di “interni” colmi di mobili e carte da parato e vasi di fiori, pur nell’atto di rispettarli.
A dire il vero, Matisse, subito all’inizio di secolo, è riuscito a sottrarsi con forza da quelle spire, tuffandosi risolutamente nella prima avanguardia, quella detta a ragione dei “fauves”, delle belve, che affrontavano le parvenze della “Belle époque” a scudisciate, con forti sbattimenti cromatici, maltrattando in sostanza le sagome, anche femminili. Anzi, in quella fase Matisse, oltre ad affidare la sua furia ai pennelli, la svolse ben di più con la scultura, in cui sembrava proprio voler strozzare le figure muliebri, allungandole, torcendole, o squartandole come in macelleria. Ma poi, quando, con le picassiane Demoiselles d’Avignon, nel 1907, si prospettò la vera avanguardia che voltava pagina, trattando le forme con i cubi del mondo delle macchine, il Nostro avvertì un impaccio, su quella strada, cui invece aderì senza riserve un compagno di via delle esperienze fauviste quale Georges Braque. Matisse sembrò appartenere alla categoria di “quelli che restano”, per usare una famosa etichetta di Boccioni, rifiutando in sostanza di applicare alle sembianze umane, o dei fiori e frutti, gli schemi astratti della geometria.
Matisse fu un “resistente”, quasi che avesse già violentato in eccesso le vecchie figure. Ma in realtà egli aveva una ricetta che lo salvava, consistente in una maestria sovrana nel tinteggiare gli spazi, dentro, fuori, attorno alle figure, o alle tavole onuste di chincaglieria varia. Quelle pennellate, spesso magre, rade, libere, riuscivano magicamente a ristabilire le distanze, le varie sagome balzavano avanti-indietro sulla tela, quasi col potere di saltarne fuori.
E’ stato detto, giustamente, che quelle stesure sapienti valevano come “repoussoirs”, noi diremo “respingenti”. Si può fare riferimento alla legge dei liquidi, e dunque, grazie alle diverse gradazioni cromatiche, alcuni corpi, nelle tele matissiane, vengono a galla, mentre altri affondano nelle retrovie, o si inabissano, ma in acque terse che ne consentono comunque la leggibilità. Seduto sulle sponde di quel suo stagno di nuovo conio, l’artista attese paziente di veder passare le spoglie dell’avversario, che ovviamente altri non era se non Picasso, in cui i cubi, a un certo punto, andarono in crisi, nel dopoguerra in cui il meccanomorfismo non fu più di moda, nella nostra società, e dunque, nel dopoguerra, tanti si affidarono a stesure liquide e sciolte, si pensi a Rothko, negli USA, o addirittura all’arrivo dei Graffisti, capeggiati da un Jean-Michel Basquiat che può sembrare davvero il magnifico erede della virtù matissiana, di andar via leggero, di far danzare le figure attraverso emersioni minime, ma sicure, da una incantata tappezzeria multicolore. Le imperiose erezioni macchiniste del Cubismo e derivati si sono afflosciate su se stesse, come Matisse in qualche misura aveva previsto, mettendosi ad attendere con pazienza di essere raggiunto dall’avversario di un tempo.
Nei dipinti di Matisse oggetti e figure sembrano annidarsi in un paesaggio concavo. Tutto si trasforma in colore il problema, negli anni Dieci come nelle Odalische degli anni Venti e come nei Papier Decoupes dei Quaranta e dei Cinquanta è l’equilibrio della composizione che si coniuga con l’impertinenza colorata delle masse.
L’esposizione a Ferrara ripercorre le tappe di questa ossessione che accompagna il pittore fin dagli esordi. A partire dalla centralità della figura in grado di esprimere un sentimento.
La Serpentina (1909) costituisce il primo esempio di questo approccio, una riflessione sulla curva, sulla figura sinuosa dove tutto deve essere visibile, indipendentemente dal punto di vista.
E’ indubbiamente il colore a corroborare questo approccio originale. Lo possiamo osservare nel Vaso con pesci rossi (1914) e nelle stesse Odalische.
Vi è il trionfo di una sensualità, che scaturisce dal tracciare i contorni delle forme.
Le linee si intersecano, si oppongono, si spostano in un’esplosione che congiunge verità e interpretazione: sentimento e concetto devono trovare un equilibrio, colore e linea, movimento e arresto, musica e silenzio.
“La maggior parte dei pittori – sottolinea nel 1930 – ha bisogno del contatto diretto con gli oggetti per sentirne l’esistenza e non può riprodurli che nelle loro condizioni strettamente fisiche. Cercano una luce esterna per vedere chiaro in se stessi. Invece l’artista o il poeta possiedono una luce interiore che trasforma gli oggetti per creare un mondo nuovo, sensibile e organizzato, un mondo vivo che è di per se stesso il segno infallibile della divinità, del riflesso della divinità”.
L’ardore del colore fauve non tramonta, l’analitica cubista non sfonda. Eppure le radici giovanili sembrano dialogare con gli esiti formali dell’avanguardia. Solo che la figura e il colore sono sottoposti al rigore di una musica dove la sensibilità del reale impone una misura originale: la musicalità non tanto della forma quanto dell’espressione del soggetto, a sua volta subordinata al controllo di un temperamento creativo fatto di riflessione come nel Nudo rosa seduto (1935). Ma quel che più affascina nel percorso di questo artista alla ricerca costante – è stato spesso sottolineato – di un “capolavoro borghese” che potesse superare le litigiosità faziose delle avanguardie, è la devozione nei confronti della sorpresa che le interazioni del colore definiscono; è lo stupore che il ritmo delle linee può generare. E tutto questo nulla ha a vedere con l’imitazione: la pittura è frutto di accordi, esattamente come nella musica, resi possibili da una costante tensione che l’artista crea con il proprio modello, sia una natura morta o una figura umana. Un modello espresso instancabilmente: forme divorate, dettagli che l’artista trasforma in monumentalità. Carne e sostanza, silenzio e voluttà, pulsione e quiete, istante e durata. La Natura morta con donna addormentata (1940) è uno degli esempi più sottili di questo stile inimitabile.
Una mostra che non lascia delusi e trasferisce al visitatore la gioia di vivere.
Matisse autoritratto |
Figura decorativa su sfondo ornamentale |
Giovane donna in bianco, sfondo rosso |
Le due sorelle |
Natura morta |
Ragazze in giardini Odalisca |
Ritratto con la riga verde |
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