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mercoledì 4 dicembre 2013

Un maestro sgrammaticato ma efficace

Marcello D’Orta 

Marcello D’Orta ci ha lasciato e tutti i giornali si sono ricordati di lui, dedicandogli lunghi articoli, ritenendolo un grande scrittore. 
Eppure lui era divenuto celebre per una frase sgrammaticata contenente ben 3 errori “Io speriamo che me la cavo”, divenuto sorprendentemente un bestseller da milioni di copie, da cui hanno preso ispirazione Lina Wertmuller con un mitico film interpretato da Paolo Villaggio nel 1992 e poi Maurizio Casagrande, nel 2007, ne aveva portato in scena il testo in uno spettacolo con musiche di Gragnaniello.
La frase completa di un bambino di Arzano allievo della scuola ove D’Orta insegnava recitava così: “ I buoni rideranno e i cattivi piangeranno, quelli del purgatorio un po’ ridono e un po’ piangono, i bambini del limbo diventeranno farfalle. Io, speriamo che me la cavo”.
Il maestro ha raccontato con ironia e delicatezza la sua terra, con erudizione e profondità, cercando sempre di coglierne gli aspetti positivi, la vivacità culturale. Una terra – quella “dei fuochi” – che però, probabilmente, è stata causa della sua malattia. Fu lui stesso a spiegarlo in una lunga e toccante lettera-sfogo inviata a “il Giornale”. «Quando, alcuni mesi fa, mi fu diagnosticato un tumore, il primo pensiero fu: la monnezza – scrisse D’Orta – Donde viene questo male a me che non fumo, non bevo, non ho vizi, consumo pasti da certosino?»
D’Orta è stato uno dei pochi scrittori, insieme a Luciano De Crescenzo, a riuscire a parlare con ironia e leggerezza dei mali della Napoli contemporanea. L’amore per la sua città, ad ogni modo, non è mai venuto meno e lo si capisce dal suo ultimo sorprendente volumetto pubblicato da Rogiosi, “Cuore di Napoli – viaggio sentimentale tra i vicoli e i bassi della città”, in cui parla dei suoi natali in vico Limoncello, zona Anticaglia, raccontando della solidarietà umana e del grande altruismo del popolo partenopeo nei momenti di difficoltà; aspetti che oggi sono merce rara da trovare. Diverse e tutte di successo le sue opere, dal ’90 ad oggi. Tanto che D’Orta potè decidere di lasciare l’insegnamento alle scuole elementari per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. “Dio ci ha creato gratis”, “Romeo e Giulietta si fidanzarono dal basso”, “Il maestro sgarrupato”, “Maradona è meglio ‘e Pelè”, “Storia semiseria del mondo”, “Nero Napoletano”, “All’apparir del vero, il mistero della conversione e della morte di Giacomo Leopardi”, “Aboliamo la scuola”, “A voce d’’e creature”, “era tutta un’altra cosa. I miei (e i vostri) Anni Sessanta”: questi i titoli più importanti dell’ex maestro, tradotto in molti Paesi.
Ultimamente, come ha spiegato suo figlio sacerdote, D’Orta stava scrivendo un libro su Gesù: la fede, insieme con la scrittura, rappresentava il suo ultimo baluardo contro il male. Davvero prolifica, negli ultimi tempi, la sua produzione: un libro pubblicato quasi ogni sei mesi: «Penso di aver trovato l’antidoto giusto – raccontò il maestro – scrivere, scrivere, scrivere …Troppi libri in un anno? Forse. Ma la scrittura è la mia vita. Basterà? Credo di sì. Perché per la malattia fisica possono, quando possono, qualcosa i medicinali. Per il male dell’anima la scrittura può essere un ottimo farmaco». E in qualche modo, così è stato.
Raccontare Gesù ai bambini di oggi, lo considerava invece la sua opera più difficile. Dice ancora il figlio: «Ci stava riuscendo ma se ne è andato al sorgere del sole. Sono convinto che il Signore raccoglierà questo suo sforzo e tanti bambini conosceranno Gesù grazie a lui».
Egli ha saputo raccontare, attraverso la verace voce dei suoi alunni, il mondo della nuova scuola italiana in una realtà tra le più difficili, quella delle zone più depresse e ad alta densità criminale del napoletano.
Marcello D’Orta si è sempre sentito maestro e ha continuato in questo suo percorso volto ad accompagnare la “parole” dei ragazzi, tanto che già nel 1992, pubblica un altro libro a tema, che indaga la vita religiosa dei bambini, un aspetto poco considerato della nostra società. Dio ci ha creato gratis, realizzato con la collaborazione di amici insegnanti, di catechisti e anche di una sorella che insegnava a Milano, componendo quello che D’Orta, nella premessa, definiva «un ritratto, stavolta da un’angolatura insolita, del ragazzino meridionale: timido e sfrontato, impunito e filosofo, col suo eloquio pittoresco, il suo umorismo a volte surreale e soprattutto la sua ancestrale accettazione del dolore, serena e quasi divertita. In più sbrigliata dagli episodi colorati e dalle note soprannaturali, esplode in queste pagine una fantasia che è gioco, evasione e consolazione. Ma anche lezione di vita».






L’impegno civile, in questi anni, era stato al centro del suo interesse, un impegno legato anche alla fede. Lo scorso anno, commentando la notizia che in un quartiere napoletano alcune famiglie, non volendo nella scuola frequentata dai loro figli i bambini rom provenienti da un vicino campo, si erano rivolti alla camorra per farli allontanare, aveva detto: «Di fronte all’assenza dello Stato, di fronte a famiglie che dello Stato non si fidano minimamente preferendo rivolgersi alla camorra, la Chiesa è l’unica alternativa che offra speranza».
Non è un caso che l’ultimo suo libro, edito da Mondadori lo scorso anno, sempre con le parole dei ragazzi, riguardi proprio queste tematiche, e nasca da una collaborazione con «’A voce d’’e creature», la fondazione, in una villa sequestrata a un boss, che raccoglie decine di bambini dai quartieri degradati di Napoli e dintorni, guidata da Don Luigi Merola, l’ex parroco di Forcella, che per il suo impegno contro la camorra è stato minacciato di morte.
Parlavano anche di camorra i temi scolastici da lui “pettinati”, un po’ come nei “reality”, sgrammaticati e anche irriverenti, sinceri e imprevedibili. Un’esperienza con il sapore di quell’autenticità che si pensa depositata nell’infanzia, come spesso per inerzia si sente ripetere che i bambini sono perfidi senza saperlo e volerlo, conoscono intuitivamente senza bisogno di grandi approfondimenti. Quelli di Arzano dimostravano di comprendere una verità fondamentale: «Il Terzo Mondo è molto più terzo di noi». Con questa convinzione si adattavano a tutto: case «sgarrupate», aule fetide, strade in cui la violenza poteva sempre esplodere, una scena sociale dove l’unica possibilità concreta era la replica del modello paterno: «Vorrei fare il saldatore, lo stagnino, l’ambulante. Mio padre è lui che fa tutte queste cose». Stupiva la naturalezza con cui era vissuto lo scenario di desolazione e perdita secca di ogni valore comunitario. Ma la vera sorpresa era la lingua: riflesso di quella parlata in cui i valori dialettali erano spezzoni estratti da una totalità irrecuperabile. Naufragava miserevolmente l’ambizione a una lingua nazionale ricalcata sulla mimesi televisiva.
La sua scuola non è più sgarrupata. Anzi, dall’esterno, con il suo colore giallo limone dietro il cancello verde, ricorda un ospedale, ostentando la freddezza degli edifici rinnovati. Ha cambiato pure nome. Non è più il 2° Circolo, ma un Istituto comprensivo (materna, elementare e media) che riunisce nell’intitolazione due grandi napoletani De Filippo e Vico. La scuola del maestro Marcello D’Orta, in un quarto di secolo, s’è trasformata assai. Ma per chi ha conosciuto lo scrittore è come non fosse mai andato via. Ormai il marchio c’è e non lo cancelli con il cassino. Tra l’altro, girando per Arzano, a chiunque chiedi della scuola di «Io speriamo che me la cavo» subito ti indirizzano con precisione, meglio di un Tom Tom: piazza dei Martiri, che poi è uno slargo, un incrocio con al centro un’aiuola che contiene un ulivo. L’ufficio postale, la salumeria e il negozio di detersivi Periferia e centro, insieme. Com’è tutta la periferia a ridosso di Napoli. Ci sei e non ti accorgi di essere arrivato.
I ragazzi del libro sono cresciuti. Hanno preso la loro strada. Da aule che si aprono su un corridoio imbiancato intravedi i bambini della materna. E le maestre vengono sulla porta a parlare di Marcello. Di chi insegnava qui alla fine degli anni Ottanta, quando lo scrittore si sbatteva tra i banchi, ne sono rimasti pochi. Persino il preside è andato in pensione. A sentire gli insegnanti anche Arzano è cambiata. Lo si capisce dalla composizione della platea scolastica. «Non sono più quelli di venticinque anni fa. Allora la maggioranza era composta da bambini del ceto popolare, molto vivaci, come nel libro, come nel film. Ma buoni e intelligenti».
In realtà dai sessanta temi raccolti nel libro di Marcello D’Orta usciva fuori il ritratto dolceamaro di una faglia sociale e culturale tra due Italie. Vista con gli occhi dei ragazzini di quella terra che era già Gomorra, ma ancora non sapeva di esserlo. La camorra, il contrabbando, la prostituzione, le gravidanze indesiderate, la mancanza di modelli positivi. E soprattutto gli stereotipi del Sud guardati e fatti implodere dagli scolari di Arzano in una sorta di innocente ma inesorabile sociologia dal basso. 
Da allora questi temi cominciano a diventare mainstream. Più di qualcuno li liquidò come macchiettismo, facile ironia su problemi drammatici. Fatto sta che quello di Marcello D’Orta era un modo di parlare della scuola e del suo fallimento educativo in maniera abissalmente distante da quella dei cosiddetti maestri di strada. Come Cesare Moreno e Marco Rossi Doria. Eredi di una tradizione alta, di un modo illuministico, forse anche gramsciano, di affrontare la piaga della dispersione scolastica. Senza indulgere a mimetismi di nessun genere con i mali da combattere. La scelta di Marcello D’Orta era stata diversa. Con questo libro in cui la latitanza delle agenzie formative si denunciava da sola e senza commento nel surrealismo involontario degli alunni, il maestro si congedava dalla scuola. 
Di fatto Io speriamo che me la cavo ha grattato con largo anticipo la punta di quell’iceberg che Gomorra ha fatto invece affiorare in tutta la sua devastante profondità. In ogni caso buona parte dei temi della questione napoletana D’Orta li aveva già tirati fuori. Come materiali antropologici grezzi, usando i ragazzini come medium. Come interfaccia tra un’Italia attonita e incuriosita, divertita più che indignata, e una cultura locale che dal resto della nazione appariva lontana anni luce. Come quel Sud di Pasolini, che piove sulle anime come una scheggia di un’altra storia. Immagini e parole che hanno continuato a scorrere carsicamente nel nostro immaginario. Ma per far riemergere senza indulgere, l’apocalisse che incubava nella terra dei fuochi occorreva un lavoro di scavo come quello di Roberto Saviano. In ogni caso questo titolo nato da un errore è rimasto nel nostro linguaggio come lo stralunato geroglifico di un paese sbagliato.
E concludiamo con il ricordo di una grande napoletana di adozione.
Per Lina Wertmuller, in quelle pagine di Marcello D’Orta da lei portate al cinema c’è tanta umanità. «Per questo motivo – afferma la regista – di lui ricorderei soprattutto il lavoro svolto con i bambini di provincia, facendo ciò che un buon maestro dovrebbe sempre fare. E per questo, come ho detto, più in generale Marcello D’Orta va ricordato come un uomo di grande qualità».




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