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venerdì 13 dicembre 2013

La protesta delle donne in gabbia

Clara Rezzuti

Ho conosciuto i lavori di Clara Rezzuti, grazie al mio amico Rosario Pinto, conoscitore della pittura napoletana del secolo d’oro, ma nello stesso tempo attento critico d’arte contemporanea.
L’artista in una breve intervista racconta il suo percorso: dagli esordi con lo zio Brancaccio fino al Dada ed al Pop.
Sensibile ai temi scottanti dell’attualità, sempre aperta a nuove conoscenze e sperimentazioni quanto a materiali e linguaggi visivi, Clara Rezzuti parla della sua arte che, dagli anni Cinquanta in avanti, tra pittura, tecniche miste e installazioni, non distoglie mai l’attenzione da quotidiano: il sociale, l’ambiente, l’universo femminile dei quali, con rigore e ironia, denuncia instancabilmente le storture.
Quando incontra l’arte sul suo cammino?
«Prestissimo. Non avevo cinque anni, andavo in visita a mio zio, il pittore Giovanni Brancaccio, e mi deliziavo tra le sue opere. Restavo affascinata dai colori, dai telai e finanche dall’odore dell’acqua ragia. In Accademia, oltre all’ambiente del suo studio, mi attraeva l’intero contesto architettonico. Già che nel disegno e nella pittura ero dotata, mi è stato naturale intraprendere studi artistici; dapprima al liceo artistico con Manlio Giarrizzo, poi in Accademia con lo stesso Brancaccio e, dopo che lui divenne direttore, con Emilio Notte. In quegli anni partecipavo a molte mostre e premi d’istituto. Tra questi anche uno che mi fu consegnato da Benedetto Croce: fui lieta di stringergli la mano».
Oltre mezzo secolo di carriera, quali sono le tappe essenziali della sua ricerca?
«Dalla figurazione degli esordi, alla fine degli anni Cinquanta, mi oriento verso una scomposizione delle immagini che via via si dissolvono nella luce e nel colore conducendomi, negli anni Sessanta, ad una visione puramente informale. Poi, pian piano, torno alla figurazione. Ma maturano anche lavori d’impronta Dada e Pop. Sono anni difficili e di grande impegno, su alcuni temi in particolare: il sociale, la condizione della donna. Gli anni Settanta sono un periodo in cui la mia pittura s’integra e si arricchisce di altri materiali, di oggetti soprattutto: nasce il ciclo degli «Interni magici» nei quali, con donne imprigionate in gabbia come uccelli, affronto le difficoltà del mondo femminile. Più tardi ritroverò una serenità che riporterà il sole nelle mie opere e nasceranno cicli più gioiosi: gli acquari fantastici, i festosi aquiloni, i body femminili, l’installazione «Il giardino del sapere».
In tanti anni, chissà quanti incontri. Ne ricorda qualcuno in particolare?
«Senz’altro quello con Federico Fellini, che avrebbe voluto una delle mie opere dedicate al femminile, “Costrizioni”, per il suo film “La città delle donne”; mi cercò, ma tra disguidi vari non riuscimmo ad incontrarci in tempo e l’occasione sfumò. In compenso rimanemmo in contatto epistolare e ci rivedemmo anche, a Cinecittà, in occasione delle riprese di “La nave va”. Un felice incontro ideale, invece, è con gli spagnoli Pablo Picasso e Salvador Dalì: del primo mi affascina il taglio che ha saputo dare con il passato, del secondo amo il suo surrealismo estremo».
Roma, Berlino, Parigi… dove le piacerebbe esporre e con chi?
«Oltreoceano, a New York, che è davvero una città moderna capace di accogliere opere all’avanguardia. Intanto, una mia opera è esposta al Museo del Novecento a Castel Sant’Elmo. Ma quel che davvero mi divertirebbe è un progetto impossibile: un lavoro da realizzare, a più mani, nel mio studio, proprio con lo spagnolo Salvador Dalì coinvolgendo anche Gerardo Di Fiore, scultore napoletano che apprezzo moltissimo. Dalì, perché persona straordinaria dalla fantasia irrefrenabile capace di realizzare opere visionarie e deliranti, Di Fiore, invece, perché mi sembra che malgrado l’appartenenza a tempi e temperie diversi, scoprendo la bellezza e la duttilità della gommapiuma, abbia un’affinità di stile e di pensiero con lo spagnolo».

 Muro, olio 1963



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