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giovedì 14 novembre 2013

L’esperto di Caravaggio

Vincenzo Pacelli


Vincenzo Pacelli, docente di storia dell’arte moderna nell’Università “Federico II” di Napoli, specialista dell’età barocca, è uno dei massimi e più noti studiosi di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Non solo ha dato la paternità definitiva e inconfutabile al “Martirio di Sant’Orsola” di Caravaggio, ma ha svolto e svolge un’intensa attività di ricerca sul Seicento a Napoli e nell’Italia meridionale. Tra i suoi studi spiccano quello sulla lettura iconografica e iconologica delle “Sette Opere di Misericordia” di Caravaggio e la splendida monografia sul pittore Francesco De Rosa, detto Pacecco. Ha studiato e approfondito gli ultimi quattro tragici anni di vita di Caravaggio nel libro “L’ultimo Caravaggio. 1606*1610. Il giallo della morte: omicidio di Stato?” Pacelli è un detective che lavora sulle tracce dell’improvvisa sparizione di Caravaggio. É convinto che il Merisi non sia morto a Porto Ercole per malattia nel luglio 1610, ma che probabilmente le cause della sua sparizione siano altre e ben più tragiche. Su questa verosimile pista di lavoro sta indagando da qualche anno, suscitando un intenso dibattito, non privo di polemiche.
Il Pacelli ha di recente dedicato un saggio “Martirio di Sant’Orsola di Caravaggio per Marcantonio Doria ovvero una renovatio iconografica”.
Il dipinto è stato a lungo attribuito a Mattia Preti e si rimane stupefatti della cecità di intere generazioni di studiosi che non si sono accorti dell’autoritratto del Merisi posto sulla destra del quadro.
Questo saggio arriva dopo una infinità di convegni, dibattiti ed ipotesi attributive sballate sulle opere del grande maestro, condita dalla pubblicazione di libri scorretti, usciti sull’onda del quattrocentesimo anniversario della sua morte avvenuta nel 1610.
Lo studio è forse un ideale risarcimento per l’assenza del dipinto alla mostra sul Caravaggio svoltasi a Roma alle Scuderie del Quirinale nel 2010. Un’assenza pesantissima, avvertita da molti studiosi e dal pubblico più sensibile. Pacelli ci offre una lettura ineccepibile delle vicende del quadro nel corso di questi quattro secoli: dal modo con cui Lanfranco Massa si lamentò per aver messo l’opera ad asciugare al sole ai danni che derivarono da questa maldestra idea, al proposito di rivolgersi di nuovo a Caravaggio per far riparare la tela; dal viaggio via mare dell’opera spedita al committente, a Genova, fino alle vicende successive e all’acquisto nel 1973 da parte della sede di Napoli della Banca Commerciale Italiana, ora Banca Intesa Sanpaolo, con vendita effettuata dall’ultima proprietaria, la baronessa ebolitana Felicita Romano Avezzano, e il restauro del 2004 che ha fatto riapparire una “misteriosa” mano che fino ad allora era rimasta nascosta, al centro dell’opera.
L’attribuzione certa della paternità caravaggesca del Martirio di Sant’Orsola fu il frutto di una ricerca archivistica nell’Archivio di Stato di Napoli da parte del professor Pacelli in collaborazione con Giorgio Fulco, studioso di letteratura barocca. In una lettera di Lanfranco Massa a Marcantonio Doria, datata 11 maggio 1610, è chiaramente citato questo dipinto. Era la conferma che l’opera, in un primo momento attribuita a Mattia Preti, apparteneva a Caravaggio e si metteva in evidenza il soggetto iconografico: Sant’Orsola uccisa in un gesto d’ira dal re unno Attila dopo il rifiuto della principessa di divenire sua sposa. Era il 1980. Da allora in poi, come ha scritto Pacelli, “è diventato il dipinto più certo dell’artista lombardo…” (p.5) il che fa giustizia di anacronistiche negazioni di paternità, pronunciate a viva voce, purtroppo ancora oggi, da qualche isolato incompetente che ha la boria di definirsi “critico d’arte” ben sapendo di non esserlo, negando la veridicità filologica e storica dei documenti d’archivio e stilistica dell’opera stessa.
Lo studio di Pacelli ci offre una nuova chiave di lettura per la comprensione di quest’opera certa di Caravaggio, ben inserita nella “serialità” cronologica del tema trattato dall’artista, ossia il martirio della santa, sacrificata insieme alle sue compagne. Infatti, il tema di Sant’Orsola è abbastanza noto nella storia dell’arte, soprattutto a partire dal XV secolo. La novità del saggio di Vincenzo Pacelli è che lo studioso propone un’interessante rilettura iconografica del martirio di sant’Orsola. Caravaggio ha operato un rinnovamento iconografico. La novità è che l’artista ha dipinto il momento culminante, l’atto di violenza nel suo svolgersi, in “presa diretta”.
Riportiamo la scheda del dipinto redatta dallo studioso, precisa a puntigliosa.
Il dipinto fu realizzato per Marcantonio Doria, signore genovese e feudatario di Eboli. Fu eseguita dal Caravaggio a Napoli e a fine maggio 1610 giunse a Genova. Tra alterne vicende essa pervenne, dopo la prima guerra mondiale, a Eboli in una Villa di campagna dei Doria e lì vi rimase fino alla vendita alla Banca Commerciale di Napoli da parte della baronessa Romano Avezzano, che l’aveva acquistata dalla famiglia Doria. La paternità caravaggesca fu provata soltanto nel 1980, in uno studio di Vincenzo Pacelli e Ferdinando Bologna. La freccia che trapassa il petto dell’incredula Orsola quasi non provoca dolore, nonostante il fiotto di sangue che sgorga violento. Al dramma assiste anche il pittore, autoritrattosi nel volto dell’uomo alle spalle della martire. La Santa non è attorniata dalle tradizionali compagne, né vi è alcun segno distintivo del suo nobile rango sociale. Il dramma avviene in un’atmosfera umbratile, con repentini guizzi di luce violenta che investono i volti dei presenti. L’iconografia caravaggesca del “Martirio di Sant’Orsola” sfugge ai canoni iconografici tradizionali. A essa si conformarono dipinti di analogo soggetto di altri artisti, tra i quali Massimo Stanzione, Giovan Bernardo Azzolino, Bernardo Strozzi e due opere di Giovan Francesco De Rosa, pur con i necessari elementi stilistici propri, differenti dal linguaggio pittorico di Caravaggio. 
Pacelli nel 1999 partecipò al salotto di mia moglie Elvira e l’argomento di discussione fu naturalmente Caravaggio, ma voglio ricordare la sua presenza come relatore, assieme a Pinto, Rizzo e Cialbi, alla presentazione della mia più importante opera sul seicento partenopeo: “Il secolo d’oro della pittura napoletana” (in 10 tomi) avvenuta al Goethe Institute.
Come pure vorrei sottolineare una sorta di rivalità-gelosia, molto comune tra gli studiosi, più che tra fidanzati, scaturita senza colpa da Pacecco De Rosa, un artista a cui Pacelli dedicava la sua attenzione da un decennio in attesa di pubblicare una monografia, mentre nel frattempo, con alcuni anni di anticipo, usciva la mia “Pacecco De Rosa opera completa” (consultabile in rete) in varie edizioni.






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