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martedì 26 novembre 2013

LA PUBBLICITÁ IN ORIENTE

Maurizia Sacchetti


Maurizia Sacchetti, illustre docente presso l’Orientale ed esperta sinologa, nell’ambito della riunione a tre voci tenutasi nel salotto sulla civiltà cinese, approfondì un aspetto singolare di marketing, sottolineando che per vendere un prodotto bisogna conoscere la cultura del potenziale acquirente.
Quanto sia importante una attenta pubblicità nei paesi di diversa cultura è dimostrato dal fallimento di alcune campagne pubblicitarie. Il sapone Ivory aveva costruito la sua pubblicità puntando su spot sostanzialmente descrittivi: una famiglia di contadini cinesi, padre, madre e figli lavorano nei campi per il trapianto del riso. Al ritorno, sporchi di terra, si lavavano gioiosamente con Ivory. Non ci fu incremento delle vendite e una indagine supplementare dimostrò che l’immagine del contadino sporco veniva considerata denigratoria. Quel prodotto, quindi, non poteva suscitare simpatie. Un altro caso ben noto è la campagna pubblicitaria dell’aspirina Bayer nei paesi di lingua araba: si era prevista un’immagine suddivisa in tre parti, in ognuna vi era rappresentato il volto di un uomo: quello di sinistra era corrucciato e sofferente, quello di mezzo un po’ più sollevato, quello di destra decisamente sorridente. Rappresentava il cambiamento avvenuto dopo aver ingerito la famosa aspirina. I potenziali consumatori si misero a ridere e le vendite subirono una diminuzione.
Perché in arabo si legge da destra a sinistra. E la Bayer fu costretta a ritirare velocemente un tipo di pubblicità che in Occidente aveva dato buoni risultati.
Coca Cola: in cinese si trascrive con quattro sino grammi che si pronunciano kekou kele, un suono leggermente diverso dall’originale, ma riconoscibile. I quattro sino grammi hanno donato al nome un nuovo significato: «è buono ed è gioia». Il bicchiere di Coca Cola, al bar, viene chiesto usando solo le ultime due sillabe, cioè si chiede un «bicchiere di kele», vale a dire «un bicchiere di gioia».
Pepsi Cola: si pronuncia baishi kele ed è un vero e proprio augurio, perché i primi
due sinogrammi introducono un concetto: «cento cose» (o «cento affari», lì dove «cento» è da intendersi anche come numero illimitato). Gli ultimi due, come per la Coca Cola, apportano l’idea della gioia. Baishi, inoltre, è la prima parte di una frase augurale molto usata (e anche abusata) che suona: Wanshi ruyi: «Diecimila cose come tu le desideri».
Cornetto: il cornetto Algida (in Cina è commercializzato dalla Wall’s) si trascrive Keaiduo, tre sinogrammi che significano «si ama molto». Ma nel linguaggio quotidiano keai indica qualcosa di simpatico e duo significa «molto», per cui il cornetto in Cina è diventato «molto simpatico» cioè «simpaticone».
In questi esempi, la fonetica originale è stata rispettata e il nome occidentale è riconoscibile dal punto di vista fonetico. Ma la scrittura cinese ha dato talvolta alla marca anche un significato che non è presente nella lingua originale. Il nome della marca (a volte una vera e propria invenzione linguistica) è entrato a far parte di un messaggio pubblicitario in cui gioca un ruolo molto importante. Ed è su questo rapporto «fonetica-significato» che si sono sviluppati ingegnosi giochi di parole.
Le scelte operate dalle agenzie di pubblicità sono state molto diverse.
Vanno dalle più semplici: sinogrammi dal suono molto simile a quello del nome originale scelti senza dare importanza al loro significato. Questo tipo di trascrizione è molto semplice, ed è in grado di suggerirla anche un interprete. Ma il nome del prodotto verrebbe facilmente dimenticato: due o tre sinogrammi, l’uno vicino all’altro, senza rappresentare alcun significato di senso compiuto, costituiscono solo uno sforzo di memoria per il consumatore cinese. Ad esempio: Parmalat si trascrive Pamalate, quattro sinogrammi, ognuno con un singolo significato, senza alcun rapporto semantico con gli altri.

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